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Linguistica cognitiva: la prospettiva semiotica
Intervista a Patrizia Violi
di Giulia Piredda

[L’autrice ha preferito rispondere con un testo unitario ai punti evidenziati dalle domande. Si troverà il testo di risposta alla fine delle domande]

Innanzitutto, una domanda introduttiva: che cosa si intende per Linguistica Cognitiva?

Nel suo libro del 1997, Significato ed esperienza, oltre a una disamina critica delle principali teorie del significato che hanno caratterizzato la linguistica e la filosofia del linguaggio del Novecento, si delinea un modello di “semantica esperienziale”. Potrebbe illustrare brevemente la Sua proposta? Quali sono gli autori cui ha fatto principale riferimento nella costruzione della Sua teoria?

Sempre in Significato ed esperienza si rivolge un’accusa allo strutturalismo saussuriano, riprendendo un’insoddisfazione già messa in evidenza da De Mauro (1965): a causa dell’assunzione di una concezione intralinguistica del significato, lo strutturalismo “gira a vuoto” quando intende occuparsi di semantica. Non crede, però, che allo strutturalismo vada riconosciuto il merito di aver tematizzato alcuni caratteri, quali il carattere sistemico della lingua, che sembrano invece accantonati nella Linguistica Cognitiva? O meglio: quali sono gli strumenti offerti dalla Linguistica Cognitiva per rendere conto del carattere sistemico della lingua e in particolare del lessico?

La rivendicazione della non-autonomia della semantica, derivabile dalla sua considerazione come teoria della comprensione, rappresenta uno degli assunti portanti della Linguistica Cognitiva, insieme all’annullamento della distinzione tra dizionario ed enciclopedia. Tale assunto, però, contiene il rischio che si perda di vista la specificità della dimensione semantica rispetto, ad esempio, all’organizzazione concettuale o della conoscenza in generale. Alcuni autori, infatti, criticano l’uso nel campo della linguistica di concetti – come i prototipi – nati in seno alla psicologia cognitiva. Lei cosa ne pensa? Esiste una via di mezzo che permetta di rappresentare la differenza tra significati e concetti, che non ricada né nel riduzionismo concettuale né in quello linguistico?

Così come si è assistito negli ultimi decenni a un rinnovato interesse per le tematiche del corporeo, nella convinzione che lo studio della mente, della cognizione e del linguaggio non possano prescindere dalla considerazione della nostra natura embodied (incarnata), non crede ci si debba aspettare un fenomeno del genere anche per le tematiche legate alla dimensione sociale e intersoggettiva che spesso, nelle teorie che nascono come cognitive, tendono ad essere affrontate “in un secondo momento”, con ciò tradendo la natura fortemente sociale, comunicativa e intersoggettiva della formazione dell’individualità? Penso tra l’altro all’esigenza da Lei messa in luce, in chiusura del Suo contributo a Gaeta e Luraghi (2003), di integrare lo studio delle tematiche corporee con un’analisi del soggetto…

Infine, una domanda giornalistica: come Le sembra sia stata accolta la Linguistica Cognitiva nel terreno italiano?


Vorrei premettere che io non mi definisco per niente una ‘linguista cognitiva’. La mia formazione, e il mio ambito disciplinare, è piuttosto la semiotica, il cui oggetto è soprattutto l’analisi del senso, nelle varie forme in cui esso si manifesta. Il linguaggio è solo uno dei possibili sistemi in cui esso prende forma; dal punto di vista semiotico ci interessano anche altre forme significanti e, più in generale, le dinamiche e i processi attraverso cui si produce e si attribuisce il senso.
Potrei dire che con la linguistica cognitiva ho avuto un rapporto di ‘contatto’ e di scambio, ma non mi identifico con nessuna delle sue varie anime. Di conseguenza non saprei dire esattamente cosa si intende, in generale, per Linguistica Cognitiva: forse molte cose diverse, come spesso accade quando emerge una nuova prospettiva a volte con l’ambiziosa pretesa di risolvere molti vecchi problemi.
Posso invece dire cosa, a me, è interessato della L.C. e quali spunti soprattutto ne ho sviluppato. Lavorando sulla semantica del linguaggio naturale trovavo insoddisfacenti le teorie strutturaliste classiche, innanzitutto per una definizione troppo restrittiva della semantica, limitata alle componenti dizionariali e non enciclopediche, ma anche per la radicale chiusura intralinguistica del significato, che se da un lato aveva una grande forza e coerenza teorica, lasciava poi totalmente irrisolte, e anzi in via di principio irrisolvibili, le questioni della comprensione, ma anche dell’acquisizione e dell’uso. Queste stesse critiche erano quelle sviluppate anche da De Mauro, come lei ricorda.
Ciò che mancava totalmente in quella prospettiva era la dimensione sensibile e percettiva della costruzione del significato, anche linguistico. Parlare di ‘esperienza’ in relazione al significato voleva soprattutto dire per me ripensare alla percezione e all’ancoraggio corporeo come base e fondamento dei processi di significazione. Non è una lezione nuova, né certo originale in assoluto. In fondo si trattava di riprendere l’ispirazione fenomenologica a cui la semiotica, in apparenza, faceva costantemente appello senza però poi trarne, a mio parere, tutte le conseguenze necessarie. Prendere sul serio Husserl e la convergenza fra senso linguistico e senso percettivo, o Merleau-Ponty e il chiasmo fenomenologico fra corpo e mondo come base del senso voleva dire, a mio avviso, ripartire dalla base percettiva e corporea del senso, anche quello costruito nel sistema delle lingue.
E’ su questi punti che trovavo interessanti convergenze con la Linguistica Cognitiva, in autori per molti versi anche distanti fra loro come Jackendoff, Talmy e anche Lakoff che hanno avuto comunque il merito di riproporre questi temi e di rivendicare – se pure con accenti non univoci – la dimensione embodied del senso linguistico. Dal mio punto di vista si trattava di ‘aprire’ il sistema linguistico per confrontarsi con la strutturazione – altrettanto semioticamente fondata – del senso non linguistico. Diciamo che ho ‘usato’ questi autori per ripensare il rapporto fra linguaggio e percezione, linguaggio e corporeità (quindi anche propriocettività, movimento, spazialità, eccetera) e su queste basi ho sviluppato una proposta di semantica esperienziale forse più fenomenologica che cognitiva in senso stretto. L’esperienza che vedo a fondamento della significazione è infatti più corporeo-affettiva che cognitiva, con un forte accento su una prospettiva costruttivista sul senso.

Poi, naturalmente, ci sono i punti di distanza e anche divergenza con l’approccio della L.C. Personalmente sono tre gli aspetti che mi appaiono più problematici :

• la specificità di un livello semiotico non coincidente con quello concettuale;
• la dimensione culturalmente regolata del significato;
• l’aspetto sociale e intersoggettivo del senso.

Il primo aspetto allude precisamente alla questione che lei pone al punto 4 con la distinzione fra significati e concetti. La L.C. ha prestato pochissima attenzione a questa differenza, anzi possiamo dire che ha quasi sempre appiattito il piano dei significati – che io chiamerei il livello propriamente semiotico della descrizione – su quello concettuale, utilizzando spesso in modo acritico concetti provenienti dalla psicologia che, come ho anche discusso nel mio libro, non possono essere applicati all’analisi semantica senza mediazioni e aggiustamenti.
Il caso dei prototipi è un ottimo esempio: la sua realtà sul piano concettuale non può essere direttamente esportata sul livello semantico-linguistico, tuttavia questa nozione ci può dare delle utili suggestioni su come l’enciclopedia è al suo interno regolata. Invece che forme che governano i processi di categorizzazione dei concetti, potremmo pensare ai prototipi come figure delle regolarità interne all’enciclopedia. L’enciclopedia infatti non è un accumulo caotico, ma presenta dei percorsi preferenziali, delle stabilizzazioni locali, che assumono spesso la configurazione del ‘senso comune’. Mi pare che questo approccio sia molto congruente con l’idea che Peirce aveva di abito come sedimentazione, locale e sempre passibile di trasformazione, dei processi semiotici. Se la semiosi è dinamica e in continua evoluzione, essa presenta però al suo interno delle forme di stabilizzazione, che ci consentono di non reinventare in continuazione il mondo, o i significati linguistici. Credo si potrebbe pensare la nozione peirciana anche in relazione all’idea wittgensteiniana di uso.
Così visti, i prototipi, ma più in generale la regolarità del significato, non può che essere culturalmente regolata. Ma la dimensione della complessità della cultura è quasi completamente assente nella riflessione della maggior parte dei linguisti cognitivi, che finiscono così con l’irrigidire e ipostatizzare a loro volta le nozioni che usano. Certo, con qualche eccezione: Fillmore è un linguista attentissimo al rapporto fra rappresentazioni semantiche e usi culturalmente definiti, ma è forse l’unico, e non so nemmeno se si definirebbe un linguista cognitivo. In generale l’attenzione al rapporto linguaggio-cultura, nella L.C., è quasi inesistente. E’ chiaro invece che il livello semio-linguistico del significato non può che essere proiettato sullo sfondo di una cultura e di una comunità, che sono per loro natura entità in trasformazione, dinamiche, non definibili una volta per tutte. La semantica delle lingue naturali non è altro, nella mia prospettiva, che una componente specifica di una più ampia e generale semiotica della cultura.
Analoghe considerazioni si possono fare per l’ultimo punto da voi indicato, l’aspetto sociale, intersoggettivo, localmente regolato dei significati linguistici, un altro aspetto quasi per nulla considerato nella prospettiva cognitiva. Semplificando, potremmo dire che la L.C. si occupa solo dell’aspetto schematico del significato, molto poco degli usi, e finisce così per essere solo, quando va bene, una teoria delle generalità, mai delle individualità.
Anche su questo punto io penso che la lezione semiotica sia più attenta alla dimensione sempre e necessariamente locale del senso. In altri termini le regolarità ci possono essere utili ma solo come sfondo possibile, come potenziale semantico: questo sfondo è poi però realizzato sempre in un testo specifico, in una situazione, in una pratica intersoggettiva. Interessante diventa allora porsi il problema delle risemantizzazioni locali che il sistema continuamente produce e quindi partire dai testi – intesi in senso ampio, non solo come testi scritti – dalle situazioni, dagli usi, dal livello locale insomma invece che dalla generalità del sistema.
Poiché i significati linguistici sono sempre sottodeterminati, nessuna rappresentazione generale arriverà mai a dare pienamente conto di tutte le possibili risemantizzazioni (o, se preferiamo, di tutti i possibili usi). E’ questa la ragione di fondo per cui nessuna semantica lessicale è finora mai riuscita, né mai riuscirà, ad avere davvero una capacità predittiva sull’uso. Tanto vale allora prenderne atto e assumere fino in fondo la implicita conclusione: è forse l’impostazione a dover essere ribaltata, assumendo come punto di partenza non tanto la generalità del sistema semantico, ma il singolo testo, la singola situazione, il singolo uso. Non più una teoria dei types, ma una descrizione dei tokens, su uno sfondo enciclopedico culturale che presenta certamente delle regolarità (che è anche interessante descrivere) ma che non ci servono né in senso predittivo né in senso normativo.
Privilegiare le occorrenze, i testi, in breve il livello locale di costruzione del senso, significa pensare al senso come di volta in volta socialmente e intersoggettivamente costruito.
Se vogliamo usare ancora l’opposizione saussuriana, i significati si costruiscono nella parole, che è sempre fenomeno sociale e intersoggettivo; a partire dagli usi si ricostruisce poi la virtualità della langue che, per quanto riguarda almeno la sua componente semantica, il piano del contenuto, è sempre in dinamica trasformazione; ogni sua descrizione sincronica, per quanto utile, ne darà sempre una rappresentazione parziale e provvisoria.
D’altra parte questo approccio, che parte da significati localmente e intersoggettivamente costruiti per arrivare al livello sistemico come ipotesi regolativa di sfondo, inferenzialmente ricostruita e sempre passibile di trasformazioni e modifiche, è precisamente ciò che avviene nella acquisizione del linguaggio, che io vedo come un buon modello generale per dare conto anche del funzionamento semantico ‘normale’ che non è mai ‘assestato’ una volta per tutte.

Alla vostra ultima domanda ‘giornalistica’ posso solo rispondere relativamente alla comunità che meglio conosco, quella semiotica, dove la linguistica cognitiva non ha avuto un’accoglienza molto positiva. Credo che questa freddezza sia stata soprattutto dovuta ad alcuni dei limiti che indicavo: l’appiattimento del concettuale sul semiotico, a cui ho fatto riferimento, e la scarsa attenzione alla dinamica culturale dei significati che certo ha ampiamente caratterizzato la Linguistica Cognitiva.
Ma è stato probabilmente un errore non sforzarsi di cogliere anche gli aspetti innovativi e interessanti che la Linguistica Cognitiva presenta, e che per molti versi l’avvicinano alla semiotica più di quanto non appaia a prima vista.

PUBBLICATO IL : 13-07-2006
@ SCRIVI A Giulia Piredda
 
Tema
La linguistica cognitiva
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