| Silvia  Disegni: Su che cosa poggia secondo lei l'analisi della cultura  popolare di Gramsci ? Dario  Fo: Egli partì assumendo il principio che la cultura dei dominati fosse  quella della classe dominante, mentre Marx diceva che le classi subalterne  avevano altre culture. Nelle città, sedi privilegiate della cultura ufficiale  della classe dominante, con le sue università per esempio, il popolo produttivo  aveva una cultura propria.C'erano due culture nel medioevo: quella del vulgus e quella dei grandi. I trovatori erano il tramite fra l'una e l'altra ma  esistevano anche situazioni intermedie come i chierici, per esempio, che usavano  la cultura dei ricchi e il latino per parlare di cose che appartenevano alla  tradizione del basso volgo. Viceversa la cultura contadina prendeva talvolta in  prestito delle forme che appartenevano alla cultura alta, adattandole e  facendole scendere dal loro piedistallo. Vi erano quindi molti incroci.
 Anche Ruzzante stava a metà strada fra i due fenomeni.  Era figlio di contadini da parte di madre e figlio naturale di un medico  dall’altra. Fece degli studi universitari e raccolse tutte le istanze della  cultura popolare per battere in breccia la cultura aristocratica. Prende  perfino in giro le Accademie come l'Arcadia! Insomma, questi diversi livelli di  cultura, la trasposizione di una cultura popolare nella cultura dominante -- e  viceversa --, il valore dei suoi ritmi, dei suoi miti, risalgono addirittura al  quarto, quinto, ottavo secolo prima di Cristo.
 Gramsci non ha fatto in tempo ad analizzarla. Ha  veramente preso coscienza di questa cultura popolare mentre stava in prigione,  a stretto contatto con i condannati, in mezzo alla gente di bassa estrazione  sociale, ai contadini e artigiani minori, condannati per reati comuni  soprattutto. Ha cominciato a riflettere quando ha visto che era radicato in  loro un livello di ritualità molto profondo. Ha scoperto la gestualità, il rito  attraverso la pantomima, il canto, il mimo. Se non ha approfondito tutti gli  aspetti del problema ha per lo meno posto le basi di una ricerca molto diversa  da quelle che svolgevano all'epoca e che lo avevano precedentemente influenzato.  Analizzando le canzoni popolari, egli diceva qualche anno prima, si poteva  notare che la cultura dominante adattava la sua propria musica e le sue idee a  una cultura più bassa e che quindi questo tipo di cultura bassa era soltanto  una copia volgarizzata della cultura alta.
 Ora, la cultura popolare usa mezzi e forme che non  hanno niente a che vedere con i linguaggi e le forme della cultura alta, come  la scrittura, per esempio. In prigione Gramsci ha raccolto delle testimonianze  dirette e ne è stato sconvolto. Ne parla a più riprese nelle sue lettere. Vi è  per esempio un brano in cui parla dell'ora di passeggio in carcere. Lì assiste  a dei riti di danza che risalgono, badi bene, alla tradizione della Magna  Grecia. Sono danze di battaglia, di lotta fra contadini. Si tiene un coltello  che in questo caso ovviamente è rappresentato da una falsa lama. Non è tanto la  battaglia che conta ma la gestualità. Era una danza dal ritmo preciso, dai  tempi, suoni, grida scanditi, accompagnati dal battito del piede, ci dice  Gramsci. Parla ancora della danza del bastone, una danza straordinaria dove cui  il bastone fa da spada, lancia, picca, insomma imita ogni specie di arma. E poi  ci dà un'altra testimonianza importante. Parla del canto improvvisato, basato  su delle regole molto precise, degli stereotipi molto complicati e raffinati:  scherzi o elogi. E questo appartiene alla Magna Grecia arcaica, a tempi  precedenti a quelli della dominazione romana nell'Italia del Sud.
 Per non parlare della presenza, in certe manifestazioni  popolari, di riti arabi, di tratti appartenenti ad una cultura profonda e molto  diffusa, complessa e varia: la cunta per esempio, questo racconto  siciliano che rompe, spezza la parola, diversificando i timbri di voce e i  ritmi creati dalla onomatopeizzazione della parola in modo che il grido  d'attacco, il rantolo dell'agonizzante, il gesto d'amore, la copula dei due  amanti siano espressi piuttosto dal suono delle parole che dal loro senso. Ora  queste forme sono totalmente assenti dalla cultura alta e sono servite a  Gramsci per capire che aveva sbagliato fino ad allora.
 Altri studiosi, leninisti russi, avevano analizzato il  rapporto fra sopravvivenza e rappresentazione. Gramsci aveva intuito la stessa  cosa. Ogni popolo, nel rapporto di lavoro che produce, esprime una metrica, una  forma, uno stile che si adattano al suo gesto di lavoro, ai suoi ritmi, al suo  respiro. Per esempio il rematore alla fune delle lagune fa dei gesti  accordandoli a quelli del suo compagno di navigazione, per il suo piacere  certamente, per il piacere straordinario di emettere dei suoni e di sentirli  uniti a quelli dell'altro ma canta anche su dei ritmi che sono quelli della  spinta. Ho mostrato in un mio spettacolo, Ci ragiono e canto,  quanto possa essere utile la lettura di Gramsci e di De Martino. Ho notato che  finché non trovavo i gesti originali di questi canti, il mio canto non aveva  nessun valore. Avviene la stessa cosa con le ninne-nanne per esempio. Se la  persona che canta queste ninne-nanne non si dondola, non riesce ad emettere il  suono giusto. Stessa cosa per i canti che accompagnano l'alzare della vela e  così via. Anche i canti d'amore sono diversi. Diversi quelli che si cantano su  una cariola da quelli che si cantano filando o scuotendo i noci, i castagni o  falciando l'erba. È sul luogo di lavoro che s'inventa una cadenza e una coralità.  Per esempio il movimento monodico a tre fasi è legato a certe categorie di  lavoro. Ho lavorato in questo senso con gente di regioni diverse, calabresi,  siciliani, veneti e ho ritrovato delle costanti incredibili nonostante la  lontananza geografica. Quando il mestiere è lo stesso, il canto è analogo, il  gesto e la metrica anche. 
Gramsci secondo me si è trovato al centro di questa  problematica. E questa esperienza lo ha portato a rimettere in discusione la  sua immagine della cultura popolare. Quando in carcere ha sentito cantare dei  sardi, Gramsci, sardo anche lui, ha scoperto ciò che non aveva capito vivendo  nella sua isola. Ha scoperto l'origine del canto religioso, la sua origine  popolare.
 Quando  parla di cultura popolare, Gramsci esamina anche il modo in cui viene recepita  dal popolo la cultura. È molto attento alle reazioni del pubblico quando nelle  sue cronache teatrali analizza una commedia. Sì. È un aspetto molto interessante.  Nelle sue note sull'humour s'interroga sul modo di ridere del popolo.  Cerca dove sta l'ironia, il sarcasmo. Fa notare come certe forme parodiche  rappresentative della sessualità, certe danze, provengono da forme molto  arcaiche. Parla per esempio di una danza che ho visto in un documentario. Vi è  un uomo e una donna. La donna porta sul basso ventre un girasole e l'uomo una  spiga che pende alla vita. Il gioco consiste a riuscire, ballando, a colpire il  girasole colla spiga. Quando questo avviene, la donna non può più ballare con  nessun'altro uomo se non quello che è riuscito a farlo, soltanto con lui. È un  rito. La donna si lascia acchiappare, sfugge, offre il suo sedere coperto dallo  stesso fiore. Questa spiga, questo girasole, fanno ridere. Si verifica lo  stesso fenomeno nelle parodie del rito sacro, del matrimonio nel mariazzo, per  esempio. Oppure parodie della morte dove la comicità è legata ai fantasmi, alle  scene d'inferno con demoni e ladri d'inferno ubriachi. Insomma anche della  morte si ride. Si assiste per esempio al funerale poi alla resurrezione, poi al  ritorno dal paese dei morti, dall'inferno. È una vecchia storia ripetuta mille  volte. I poeti popolari che parlano di questo viaggio lo fanno con ironia,  usano un tono grottesco. I diavoli scorreggiano e lanciano fiamme. Non è stato  Dante ad inventare tutto questo. Esisteva molto tempo prima. Oppure ancora  prendete il folle, la follia, la sbornia: il folle è un personaggio  fondamentale che può impunemente dire ciò che l'uomo comune non può dire senza  rischiare il rogo.Gramsci allude a questo tipo di cose e sottolinea tutto  questo in testi meno conosciuti che Giorgio Baratta mi ha dato da leggere  quando mi ha chiesto di partecipare al suo film.
 Ha contato questa esperienza per  lei?  Sì. Fino a quel momento avevo avuto  qualche problema con i gramsciani ortodossi. Quando ho realizzato lo spettacolo  di cui le ho parlato, ho dovuto affrontare dei gramsciani "puri" che  hanno contestato il mio lavoro perché convinti dell'assenza di una poesia  popolare vera e propria. Parlavano in nome di una concezione socialista  romantica che pretendeva essere l'unica ad esaltare la creatività del popolo. I  gramsciani mi opponevano dei testi che riprendevano le prime dichiarazioni di  Gramsci, anteriori quindi alla sua esperienza del carcere, in cui parlava  piuttosto di sub-cultura popolare. Mi hanno sempre attaccato su questo punto.  Anche quando ho fatto la regia di Ruzzante insistevo sulla differenza fra  Ruzzante e tutti gli altri poeti di corte, gli uomini di teatro del suo tempo,  fatta eccezione di Machiavelli.   Machiavelli fece del teatro da escluso, quando fu mandato in esilio in  un paese lontano da Firenze e là quando rappresentava le sue commedie conobbe  gente del popolo. Mi si rimprovera questa idea della autonomia della cultura  popolare in conflitto con quella della corte, quella di Ariosto, Bembo,  Aretino, e cosi via. Eppure Gramsci insiste molto su una cultura creativa, in movimento. È  proprio ciò che lei fa. Sì.Ma dice anche che bisogna studiare  il passato per sapere da dove veniamo. È inutile immaginare fin dove possiamo  arrivare se non sappiamo da dove veniamo. E insiste anche molto sul fatto che  non dobbiamo riposarci su dati acquisiti, su luoghi comuni che ci hanno  inculcati .Bisogna tutto mandare per aria per ritrovare le nostre origini. Come spiega il fatto che, nonostante  tutto quello che abbiamo visto, Gramsci, quando parla di teatro, si riferisce  soprattutto al teatro ufficiale, quello che viene riconosciuto dalle autorità?  Certo! Non veniva rappresentato niente  altro all'epoca! Solo Pirandello meritava un'attenzione particolare secondo  lui, perché denunciava le ipocrisie morali, le contraddizioni della società,  del potere. E in quel senso che parla anche di Shakespeare. Gli piaceva anche molto Shaw per esempio.  Non vi è niente di strano. Shaw è stato  rivoluzionario a suo tempo. Era un socialista e la metà delle sue commedie  erano vietate, censurate. Vi sono delle commedie che non ha mai potuto  rappresentare.  Gramsci propone quasi questo teatro "borghese" come modello ai  suoi lettori. Quando scrive i suoi articoli dell'Ordine Nuovo dice che  bisogna fare entrare questo teatro nella fabbrica.  Certo. Siccome era la cultura  dominante, al popolo serviva impossessarsene nella speranza che dopo ne facesse  qualcosa di suo. Considerava per esempio che era un errore insistere, come  facevano certi populisti, sulla cultura dialettale rifiutando la cultura  borghese. E aveva ragione. Ma vi è anche dell'altro. Vi è la ricchezza che la  cultura del dialetto può dare a una cultura rinnovata. E questo Gramsci lo  capisce in un secondo tempo.  Egli nota che nella produzione di certi  autori, come Pirandello per esempio, esistono dei testi in italiano e altri in  dialetto. Nota che i secondi riescono paradossalmente a comunicare qualcosa di  più universale perché il dialetto è la lingua di tutti i giorni, la lingua  delle emozioni.   Diceva anche che la ricchezza della  lingua rinnovata di Pirandello era da attribuire alla sua lingua di origine, al  siciliano, al dialetto. Pirandello è un   uomo che aveva studiato in Germania, conosceva bene l'espressionismo  tedesco, aveva assimilato i prodotti più avanzati della cultura europea ma  grazie a questi innesti di letteratura popolare, grazie alla sua conoscenza dei  riti, dei canti siciliani, aveva introdotto delle innovazioni all'interno della  sua propria cultura. L'esempio scelto da Gramsci è significativo: Pirandello è  un prodotto tipicamente borghese con delle regole, dei temi borghesi anche se  la critica della borghesia vi è incisiva. Ma Gramsci aveva capito il modello al  quale Pirandello si rifaceva. D'altronde i grandi riprendono sempre degli  elementi profondamente ancorati nella cultura popolare. Da Shakespeare a Molière,  agli spagnoli.  Ma allora come mai Gramsci è cosi poco attento alla tradizione teatrale  italiana, alla commedia dell'arte? Si spiega da un punto di vista storico? I grandi studi sulla cultura popolare  sono iniziati dopo di lui. D'altra parte i testi che utilizzo anch'io nel mio  lavoro sulla Commedia dell'Arte non sono testi letterari nel senso stretto e  tradizionale della parola. Bisogna fare uno sforzo di ricostruzione  assimilandone le norme, rientrando nel loro gioco, il loro linguaggio, gli  elementi pagliacceschi, la struttura del teatro di strada, delle farse della  tradizione bassa. Bisogna ricostruire un canovaccio che si presenta  come un semplice promemoria. Le repliche vi  sono appena abbozzate. Tutto il resto è repertorio, segnali, come in musica.  Per ricostruire un tessuto musicale servono conoscenze enormi. Si parla spesso  di questo teatro come del teatro di improvvisazione. In realtà non vi è niente  di più falso. Parlare di improvvisazione era solo un modo per impressionare gli  ascoltatori, perché in realtà questo tipo di teatro richiede degli attori  professionisti capaci di dominare i vari passaggi, le transizioni da una  replica all'altra, all'interno di una stessa parte o in  una data situazione.Esiste per esempio una situazione tipica da canovaccio:  la donna innamorata è vedova; condizione ideale, perché la donna vedova è stata  liberata dall'autorità paterna e nello stesso tempo non è una puttana. Ha  soldi, è indipendente. Isabella vedova è innamorata del figlio di un gran  dottore, medico o uomo di legge, insomma un uomo ricco e colto, vecchio ma  tenero, non troppo vecchio però, euforico e pieno di vitalità e di desiderio di  amore. Ha questo figlio giovane e bello, tanto splendido quanto insignificante.  E poi ci sono i servitori, gli zanni, uno e due. All'inizio Arlecchino è il  secondo, Truffaldino il primo. Quel personaggio si chiede come uscire dalla  situazione di un uomo vecchio che concupisce la giovane Isabella e per  sbarazzarsi di suo figlio, che si è innamorato della stessa donna e che è  ricambiato, decide di mandarlo a studiare a Parma o a Bologna, le grandi  università dell'epoca. Allora il servitore trova una pozione che, una volta  ingoiata dal padre, lo fa innamorare della prima donna incontrata, per esempio  una domestica scelta per l'occasione. Ma a passare per primo è invece  Arlecchino, che si é mascherato da donna per introdursi in cucina e rubare  qualcosa da mangiare, come al solito. Nel momento stesso in cui il vecchio beve  la pozione magica incontra Arlecchino e se ne innamora. Ed é la fine.  All'inizio Arlecchino si scoccia delle sue insistenze, ma vedendo che il  vecchio lo coccola, gli dà da vestire e da mangiare, gli offre delle pietre  preziose, cede. Ovviamente il vecchio vuole fare all'amore di tanto in tanto.  Nessun problema. Nell'oscurità Arlecchino cede il posto a una donna compiacente  e il vecchio lo ama sempre di più. Ma, quando il vecchio accetta che il figlio  sposi Isabella, Arlecchino deve trovare un'altra soluzione. Cosa sarà di lui?  Impazzisce all'idea che il suo benefattore ridiventi normale! Non bisogna  quindi dargli l'antidoto alla pozione che rimetterebbe in discussione i  privilegi di Arlecchino. Alla fine tutti bevono il veleno e tutti s'innamorano  di Arlecchino, gli uomini, le donne, tutti impazziscono per lui. E poi tutto  torna al posto suo. E questo è un canovaccio: solo una pagina di testo.  L'attore sa tutto. Non improvvisa più.
 Mia moglie apparteneva a una famiglia che recitava così.  Nella compagnia conoscevano i canovacci a memoria, non li studiavano neanche più.  Salivano sul palcoscenico e secondo la situazione recitavano scene burlesche,  comiche, tragiche. Se poi si leggono i testi degli attori si vede sulla stessa  pagina da una parte il canovaccio, dall'altra la lista dei passaggi. Insomma la  commedia non è una forma letteraria, riposa sul mestiere, la memoria,  l'improvvisazione, relativa certo, ma sempre improvvisazione.
  Gramsci dice di Goldoni che è uno dei rari scrittori italiani a non  essersi staccati dal popolo; eppure Goldoni si è allontanato da tutta questa  tradizione.  Come Molière, prima di lui. Molière,  voleva essere considerato grande letterato. E si sa che riscriveva le sue  commedie in modo diverso da quello in cui le recitava. Quando si ritrovano  vecchi canovacci di queste, si capisce che nel momento della redazione delle  commedie è tutto molto diverso. Il valore letterario di quello che si stampa  comincia ad essere mille volte più grande di quello dell'orale all'epoca di  Molière e così tutto ciò che è gestualità e mimo perde importanza. Non bisogna  dimenticare che vi erano state, nel Seicento, delle leggi che impedivano gli  attori di parlare, autorizzandoli soltanto ad utilizzare i grammelot, dei suoni onomatopeici non parole; era quindi più difficile esprimere un  concetto. Ma gli attori della Commedia erano così bravi che riuscivano a  parlare un italiano, uno spagnolo, un inglese maccheronico e a dire delle cose  spaventose. A tal punto che venne impedito agli attori, agli uomini di fiere,  di parlare.  E Goldoni in tutto ciò? Era la rivincita della parola e dello  scritto sul gesto. In altre parole la forma corretta, rivisitata, in buon  italiano della Commedia. Così l'Arlecchino delle origini è ben diverso da  quello che si trova nei testi letterari, scritti. Per esempio si ricopriva il  viso di trucco. La maschera fu inventata in un secondo tempo. Fu un’aggiunta.  Rende un personaggio incolore una maschera. Anche il linguaggio è diverso. Nei  canovacci di Biancolelli, nel Seicento, a Parigi, Arlecchino fa il giudice, il  prete, il ministro. In un canovaccio recita Tartuffe. Fa la parte del marito  che fa l'elogio di Tartuffe e gli permette di dettare legge a casa sua. È un  canovaccio scritto nello stesso momento in cui Molière scriveva la sua  commedia. Sa, gli stessi temi circolavano nell'ambiente in quel tempo. Forse  Biancolelli ha scritto il suo Tartuffe qualche giorno prima di Molière.  Anche Don Giovanni, tratto da Tirso de Molina, è stato messo in scena da  Biancolelli, in Arlecchino, molto tempo prima di Molière. Si dice anche che la  prima volta che Molière abbia visto Don Giovanni lo ha visto nella regia di  Biancolelli, che da solo faceva due parti: quella di Don Giovanni e quella di  Arlecchino, cioè Sganarelle. Della Commedia si sa un po’di più ultimamente, da  quando è stato analizzato una specie di promemoria di Biancolelli che egli  usava personalmente. Vi si trovano per esempio delle commedie con dei testi di  questo genere: “Salgo sul palcoscenico. Mi avvicino al fuoco e mi chino per  raccogliere un pezzo di carne. Mi scotto e il pezzo di carne, di pollo caldo,  vola per aria. Casca per terra e lo vado a raccogliere ma prende il volo".  E meraviglioso! Certo Gramsci non poteva sapere  tutto questo.  No. Perchè tutte queste ricerche non  erano state compiute.Un famoso studioso degli anni trenta, Bataille, ha  scritto un bel libro sulla Commedia, con bellissime illustrazioni, quadri  inediti. S'intitola La grande leçon de l'Italie. Vi esamina appunto la  distanza che separa una generazione dall'altra. Per l'una tutta l'arte sta  nella gestualità, nei suoni, nei lazzi, negli incidenti provocati o reali. Per  l'altra, invece non vi è più traccia di questa tecnica. Nel mio lavoro cerco di  ricuperarla. È normale, anche per le condizioni in cui abbiamo cominciato a  lavorare. Sa, il nostro teatro è nato anche dall'impossibilità di ottenere  delle sale, dei mezzi, una certa libertà di azione. Abbiamo cominciato a  recitare in posti che non avevano niente del teatro: chiese sconsacrate,  palestre, piazze, nella distruzione totale di quello che può essere lo spazio  teatrale, tradizionale e regolare, con le sue quinte e le sue tende.
 Anche il pubblico era diverso?  Siamo stati gli unici ad avere un  pubblico molto popolare. Ancora oggi è così.  A Gramsci piaceva molto andare a  teatro.  Egli riprende  da qualche parte una formula di Shaw, mi sembra, che dice pressappoco: se  mettete un gruppo di uomini molto intelligenti in un teatro e ne fate un  pubblico, avrete cinquanta imbecilli. La collettività, per un aristocratico,  abbassa il livello dell'intelligenza perché si cade nell'uniformità. Gramsci si  ribella a questo tipo di ragionamento. Dice che il livello d'intelligenza  aumenta in maniera quasi matematica. Bernard Shaw se la prendeva probabilmente  con un pubblico che reagiva male di fronte al suo teatro. “Non vi lasciate  prendere da questa formula”, dice Gramsci; “ricordatevi che la presenza  collettiva del teatro, sopratutto se è comico, permette agli spettatori di  aiutarsi a vicenda e di capire meglio il senso delle cose”. Il teatro aumenta  il potenziale intellettivo. Grazie alla risata collettiva, capisce anche chi  non è ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
 L'intervista è stata già  pubblicata ne Il cannocchiale. Rivista di Filosofia, numero 3  (settembre/dicembre) del 1995. Il fascicolo monografico dedicato a  Gramsci e intitolato Un Gramsci ancora sconosciuto.
 
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