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L’ironia e il rovescio delle cose
Riflessioni su "New York e il mistero di Napoli"
di Dario Fo

Quando Giorgio Baratta mi propose di partecipare al suo film, mi portò testi dalle Lettere e dai Quaderni che documentano come Gramsci abbia acquisito una “nuova” coscienza della cultura popolare mentre stava in prigione, a stretto contatto con i condannati, in mezzo alla gente di bassa estrazione sociale, ai contadini e artigiani minori, condannati per reati comuni soprattutto. Ha cominciato a riflettere quando ha visto che era radicato in loro un livello di ritualità molto profondo. Ha scoperto la gestualità, il rito attraverso la pantomima, il canto, il mimo. Se non ha approfondito tutti gli aspetti del problema, ha per lo meno posto le basi di una ricerca molto diversa da quelle che si svolgevano all'epoca e che lo avevano precedentemente influenzato. Mi colpì subito quanto Gramsci dice, all’inizio dei Quaderni, sul “mistero di Napoli”, rilevato da Goethe, egli dice, quando, invece di trovare un esercito di “lazzaroni”, come gli avevano preannunciato, si trovò dinanzi gente molto “attiva e industriosa”. Solo che questa “industriosità” dei napoletani non si traduce in “produttività”, ed è questo il “mistero”, che allora Goethe mise in evidenza, e che ripropone più tardi Gramsci raffrontandolo con la “modernità” americana e americanista, fatta di razionalità produttiva ed efficientismo tecnologico. Come può la creatività popolare – in tutti i Sud del mondo - diventare leva di una società più avanzata che non corra il rischio, come quella americana, di trasformare l’operaio ieri in un “gorilla ammaestrato” (come volevano il taylorismo e il fordismo), oggi nel consumatore di televisione, che appare piuttosto come un “coniglio ammaestrato”? E’ questa la grande domanda che Gramsci si è posto e che ancora, sempre più drammaticamente, attende una risposta di civiltà. La forza di Gramsci stava in quel che egli stesso chiamava il suo “spiritello ironico”, e cioè in quel suo modo, di sentire e di dialogare, leggero, sottile, ricco di sarcasmo, che equilibrava la profondità del suo pensiero. Tutto questo si manifesta con assoluta evidenza quando Gramsci parla della “questione meridionale”. Innanzitutto, con il suo spiccato senso del grottesco, se la prende contro coloro, anche tra i comunisti, che vedono i meridionali come essere inferiori, come gente culturalmente, intellettualmente di basso livello, dedita soprattutto all’intrallazzo, alla trappola infame, piuttosto aggressiva, tendente all’assassinio facile, financo al cannibalismo e così via: insomma il “terrone”, come si usa dire ancora oggi al Nord. Questo disprezzo egli lo capovolge, indicando in quell’arrangiarsi la grande cultura, la malizia intelligente nell’inventare cose assolutamente fantastiche, di intelligenza straordinaria. Quando Gramsci comincia il suo peregrinare dentro le carceri, usa espressioni mirabolanti come “mi sento un pallone buttato da strani piedi sconosciuti di qua e di là, Mi sembra di far parte di un enorme verme che sta andando per tutta Italia e che lascia anelli continui, che si distrugge, si ricompone continuamente”. Questo uso delle immagini ci dice quale spirito eccezionale, quale grandissimo fabulatore era nel raccontare. I vecchi compagni lo stavano ad ascoltare incantati per delle ore, lo bevevano, perché era veramente di una simpatia e di un calore enormi. A proposito del narrare, Gramsci racconta dei duelli dentro le carceri. Un vero rito, quasi una danza. I coatti inventavano, sarebbe meglio dire allestivano per lui, come testimonianza di affetto e di stima, delle vere e proprie accademie di scherma: duelli con i cucchiai che fungevano da pugnali e che, sporcati con la calce dei muri, indicavano il punto nel quale l’avversario era stato “toccato”. Ogni gruppo – i calabresi, i pugliesi, i siciliani e i cittadini delle altre regioni del Sud – aveva la propria tecnica di duello e gli incontri avvenivano tra membri dello stesso “stato”, a dimostrazione delle loro abilità, delle loro tecniche. Subito Gramsci ravvisa in questi duelli l’eleganza, lo stile, gli andamenti, l’invenzione, la fantasia nel portar colpi, nel porsi davanti al nemico o al combattente opposto. Sottolinea la grande civiltà, l’origine antica, nel suono, nel ritmo, nelle cadenze di questa gestualità ricchissima che egli intepreta non nella sua bassezza, come si trattasse semplicemente di delinquenti comuni, ma come elemento alto di rapporto fra il corpo, l’immagine, l’espressività, il ritmo, lo spazio: una vera forma d’arte, di teatro. Di teatro appunto. E’ risaputo che Gramsci, da giovanissimo, cominciò a fare il critico teatrale. Ma era un critico sui generis. Era uno che andava a teatro e si dimenticava di essere un critico – cosa difficilissima! – cioè diventava parte del pubblico, lo ascoltava, non si metteva isolato. I critici normalmente provano fastidio della gente che gode o partecipa in forma eccessiva. Lui invece era attento a queste reazioni. Tra i progetti che intendeva realizzare e portare a termine c’era, oltre alla sua “scoperta” di Pirandello, lo studio della creatività popolare, della partecipazione creativa del pubblico durante gli spettacoli. Di questa creatività egli parla in occasione della morte di un capocomico, un certo Serafino Renzi. Egli ricorda quanto si fosse divertito – attenzione: un critico che si diverte! – ad assistere agli spettacoli di questa compagnia di drammi d’arena, riflesso teatrale dei romanzi d’appendice. Il divertimento vero nasceva da questo doppio momento dello spettacolo: quello della rappresentazione e quello delle reazioni del pubblico. Gramsci, da antropologo raffinato quale egli era, era capace di vedere, fuori e dentro le carceri, cose che sfuggivano agli altri, anche tra i dirigenti del suo partito, ma non a lui, che era sottile, intelligente e moderno: era uno scienziato delle cose della vita e del popolo.
PUBBLICATO IL : 15-05-2006
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Tema
Gramsci e subalterni
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