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Renato Caputo, Il tragico nel primo Hegel. Tragedia cristiana e destino della modernità.
Pensa Multimedia, 2006

di Manuela Ausilio

Il particolarismo, il privilegio e l’eccellenza,
sono qualcosa di così profondamente personale,
 che il concetto e la comprensione della necessità
 sono sempre troppo deboli per operare sull’azione stessa;
concetto e comprensione attirano una tale diffidenza su di sé,
 da doversi giustificare con la violenza
affinché l’uomo si sottometta loro
(G.W.F.Hegel, Werke, vol. I: 581).

Il tragico nel primo Hegel ci presenta un’attenta ricostruzione ed un’analisi storico-filosofica del processo di maturazione della filosofia giovane-hegeliana sino alle prime sistematizzazioni di Jena alla luce del concetto di tragico. Con questo scritto, rigoroso e mai meramente filologico, provvisto di copiose note e d’un significativo apparato bibliografico, Renato Caputo ci immerge nella tensione che scuote l’animo e la riflessione del giovane Hegel: riconciliare il libero gioco fra teleologia ideale del concetto assoluto e sua estrinsecazione, dolorosa e reale, nella libertà dei moderni. Il progressivo manifestarsi della pregnanza teoretica della figura del tragico nel venire a maturazione della speculazione hegeliana lo rivelerà fondamento «dell’immanenza dell’individuo nella vita generica, del soggetto nell’essenza, del finito nell’infinito» (p. 257), riecheggiando note pagine marxiane. Nell’intenso decennio degli anni precedenti il trasferimento a Jena vediamo delinearsi la prima elaborazione filosofica dell’«essenza semplice della vita, l’anima del mondo, il sangue universale che, onnipresente, non vien turbato né interrotto da differenza alcuna e che è, anzi, tutte le differenze, nonché il loro esser-tolto; esso pulsa in sé senza muoversi, trema in sé senza essere inquieto» (Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 103).
Renato Caputo s’immerge nell’annoso dibattito fra la Hegel-Renaissance dei primi decenni del XXsecolo e la più recente fatica del concetto di quegli studiosi che hanno rinvenuto nella cultura illuminista la fonte preziosa e fondamentale del processo di formazione del giovane Hegel. Nel corso del testo più volte l’autore ribadisce l’importanza d’un procedere dialettico nella ricontestualizzazione del pensiero hegeliano. La scoperta d’uno Hegel diverso – particolarmente ad opera dell’ermeneutica diltheyana – ha meritoriamente comportato la riconsiderazione e pubblicazione della produzione giovanile di contro a pagine unilaterali e liquidatorie quali furono quelle di Haym. D’altra parte l’annunzio unilaterale, pomposo ed immediato, d’una tale «lieta novella» ha trovato legittimi rifiuti: l’icona romantica d’uno Hegel vitalista e panteista, di hölderliniana memoria, è stata messa in discussione dalla presenza dell’eredità kantiano-illuminista. In tal senso, Caputo predilige un’analisi che non sia negazione semplice, ma determinata della filosofia critica. Seguendo una tradizione ermeneutica che va da G. Lukács, a H. Marcuse, a E. Weil, il volume rimprovera l’accostamento arbitrario della riflessione giovane-hegeliana ad un romanticismo irrazionalista, più o meno consapevolmente reazionario.

Nel volume vengono in certo modo non solamente ripercorse le figure del manifestarsi del tragico ma vi compare, potremmo dire, una fenomenologia del tragico dello spirito giovane-hegeliano. L’intellettualismo diligente dei «pacificati» anni di Stoccarda si svilupperà in autocoscienza: anzitutto coscienza infelice nella dolorosa scoperta della vacuità dell’ideale ellenico – sostanza senza Soggetto –, crisi foriera del rapporto di signoria-servitù peculiare nel mondo romano (cfr. p. 116). Hegel verrà maturando uno scetticismo in merito alla soluzione ebraico-cristiana della tragedia – dapprima accolta in nome del kantismo moralmente salvifico della stoica figura del Cristo. Tuttavia, in seguito, Hegel rinviene razionalmente la necessità d’una prospettiva di filosofia della storia, alla luce della libertà dei moderni. Quest’ultima, infine, dovrà radicarsi teoreticamente e praticamente, ovvero filosoficamente, tenendo insieme infinità divina e finitezza umana – religione e spirito –, particolarismo del bisogno ed universalismo del politico. Nella produzione degli anni francofortesi Hegel approderà al riconoscimento dell’azione tragica quale struttura del darsi sempre unitario di necessità e libertà, contraddizione e conciliazione – in ultima istanza, di certezza soggettiva e verità di tale certezza nella «cosa pubblica», configurando così le prime conclusioni d’una sua peculiare fenomenologia dello spirito tragico.
Movendosi fra filosofia dell’arte, della religione, della riflessione e filosofia della storia Caputo ricostruisce le faticose tappe della Bildung di quella che diverrà la hegeliana dialettica della contraddizione oggettiva. Negli anni trascorsi da Hegel a Stoccarda Caputo rinviene elementi di «dispotismo illuminato» di derivazione familiare, dissolti da note di democraticismo mutuate da Rousseau. Vi è inoltre «un umanesimo passato al vaglio dell’Aufklärung» (p. 13) che tesaurizza il principio di tolleranza secondo il magistero di Lessing. In questi anni, sostiene l’autore, per Hegel è dato storico inconfutabile che l’affermarsi dei Lumi produca un «profondo svecchiamento e deprovincializzazione della cultura dei singoli staterelli e del Reich tedesco» (p. 15, n. 4. Cfr. anche C. Lacorte, Il primo Hegel). La lettura di Rousseau e dei classici greci e latini consentirà, peraltro, un superamento della «fredda erudizione» del tardo illuminismo tedesco a favore d’un ideale etico bello e libero insieme. Si affaccia qui la tragicità d’un primo conflitto: il religioso astratto vien posto in discussione in nome dell’eticità immediata, «vivida fantasia» del mondo antico di contro dogmatismo teologico.Compaiono i primi cenni del concetto di Volksreligion, che avrà un vitale ruolo di mediazione teoretica nel superamento delle astrazioni della teologia (p. 14) e della superstizione dei ceti popolari. 

Sarà negli anni di Tubinga (1788-93) che Hegel approfondirà il nesso fra ideale ellenico e libertà dei moderni, giungendo a porre radicalmente in discussione il primo in nome della seconda. Gli echi della Rivoluzione francese obbligano a prender partito: Schelling, Hölderlin e Hegel ne accolgono senza indugi le prospettive con entusiasmo. Conscio della miseria tedesca, «dell’arretratezza e dell’oscurantismo dell’impero» (p. 29), il giovane continua a riporre ampia fiducia nel progresso storico e con passione aderisce al progetto di rivoluzione politica e culturale proposto dall’Émile e dal Contrat Social; tuttavia, assai dolorosa si rivelerà la presa di coscienza dell’intrinseca complessità del processo rivoluzionario. Unitamente a ciò, la convinzione che la filosofia kantiana abbia «in sé il fondamento [..] della rivoluzione spirituale dell’epoca» (p. 35 e ss.) conduce Hegel ad indagare – nei frammenti noti come Religione popolare e cristianesimo – il rapporto fra religione razionale e religione positiva/rivelata. In questi anni la seconda è meramente finalizzata – se non contrapposta – alla prima, credenza soggettiva di contro a credenza oggettiva: Hegel pare ansioso «di preservare l’assoluto da ogni compromesso con la positività». Non si tratta, tuttavia, di contrapporre religione del cuore a religione razionale, ma di ricercarne un più profondo accordo, volto a superare il dualismo fra sentimento e ragione. Sono qui rinvenibili echi della riflessione schilleriana sull’esigenza d’una educazione estetica dell’uomo, concetto che Hegel rivedrà in modo del tutto peculiare. Difatti, affinché l’imperativo categorico nel suo positivizzarsi non si riduca alla fredda astrazione della precettistica «deve essere incarnato in un’educazione religiosa, in grado di raggiungere anche quella parte dell’umanità che non è in grado di attenersi all’assoluto rigore dell’ideale morale» (p. 50). Non è dunque sufficiente che le dottrine d’una religione siano fondate sulla ragione universale: occorre non solo che «fantasia, cuore e sensibilità non ne risultino vuote», ma che «vi siano inclusi tutti i bisogni della vita, e le azioni pubbliche della vita statale» (Hegel, Gesammelte Werke, I, p. 103; Scritti giovanili I. p. 189 e cfr. TPH, p. 51). Al fine di preservare la libertà dell’azione umana nella sua imprescindibile contingenza storica,  l’immediatezza e la bellezza del mondo antico dovranno esser ricomprese entro il portato dell’età dei Lumi, tanto pratico-morale – la sua religione razionale o mitologia della ragione –quanto storico: il farsi Soggetto della sostanza,la Rivoluzione francese. Ciò consentirà a Hegel d’arginare i rischi tanto d’un immediato regresso all’ideale ellenico (cfr. Hegel, Logica, Prefazione II)quanto d’una riproposizione intellettualistica dell’antinomia fra fenomenico-esistente e trascendentale, che avrebbe riabilitato il dominio della tradizione contro cui il processo rivoluzionario francese s’era volto.Siamo alle soglie dell’in-contro bernese con Critica della ragion pratica e Critica della facoltà di giudizio. A tale livello d’elaborazione, potremmo dire, l’assoluto hegeliano oscilla fra una kantiana opposizione reale al mondo fenomenico ed il tentativo di conciliarla; per far ciò, Hegel si troverà a volgerla in contraddizione oggettiva, storico-sociale L’opposizione reale istituisce un rapporto di ripugnanza e divaricazione fra i termini indagati: il risultato del rapporto è pari a zero, esso non conosce stato di latenza alcuno e tanto meno sviluppo interno; piuttosto l’opposizione permane nella stabilità fissata e l’estraneità si dà in tutto e per tutto. Il concetto hegeliano di positività pare prendere le mosse di qui. Una volta indagata da Hegel sino in fondo la rilevanza e la necessità del riconoscimento dell’altro anche la positività diverrà il destino del farsi-storia dell’assoluto, non più ad esso contrapposta in opposizione reale, ma ricompresa nel dispiegarsi della contraddizione oggettiva. Di questi anni è la radicalizzazione – marxianamente, l’«andare alla radice» – del kantismo, certamente a seguito dell’imprescindibile lezione della filosofia fichtiana. Troviamo qui il secondo conflitto della fenomenologia dello spirito hegeliano: ideale d’eticità immediata di contro all’individualità universale, religiosa e politica. A partire dal saldo convincimento di vivere in quella libertà dei moderni entro la quale solamente è possibile ripensare la totalità, Hegel problematizza la grecità ed indaga la genesi della soggettività assoluta che nel cristianesimo mostra d’aver la propria remota origine.

Caputo suddivide in periodi l’elaborazione filosofica giovane-hegeliana a Berna (1793-96): durante i primi tumultuosi anni, a seguito della ratifica in Francia della Costituzione dell’anno III, Hegel ed i suoi amici d’impegno filosofico e politico riterranno andarsi ponendo le condizioni «per la diffusione, non solo ideale, dei princîpi della Rivoluzione in Europa». Hegel aveva dinanzi a sé un duro e duplice scontro storico-filosofico con le ideologie del suo tempo e dei suoi luoghi natii: per un verso doveva fare i conti con il «rimpianto reazionario per la mitologia germanico-barbarica», per l’altro era costretto a polemizzare con gli strenui sostenitori dell’astratto razionalismo illuminista (p. 111). Rinnovata la fiducia nelle capacità della Weltlauf di rigenerare il putrescente Impero germanico, dura si volge la critica hegeliana all’oligarchia bernese ed emerge ora schiettamente l’afflato democratico di Hegel.Di qui il revival della «Rivoluzione francese ed il suo culto per l’antichità classica, le virtù repubblicane contrapposte al mondo medievale, al dispotismo e alla sua copertura ideologica: il cristianesimo» (p. 101). L’arrestarsi della fase giacobina della Rivoluzione e l’avvento del Termidoro lasceranno Hegel profondamente segnato (p. 49 e K. Marx, Sulla questione ebraica in Bruno Bauer, Karl Marx. La questione ebraica, p. 197 e ss): egli distoglie in parte l’attenzione dall’ideale d’una religione popolare ed i suoi interessi si volgono ad un confronto tanto con la dottrina cristiana quanto con la filosofia critica. La prospettiva è quella d’uno «storico pensante» che ha fatto esperienza d’una frattura rivoluzionaria che costringe ad abbandonare i puri assiomi in nome del realismo d’una critica interna alla storicità. L’ultima fase del periodo bernese vede Hegel impegnato nell’approfondimento della filosofia kantiana, ora sottoposta all’«analisi storico-fenomenica» alla luce dell’esigenza di «porsi su di un piano più concreto, in seguito definito spirito oggettivo» o filosofia della storia (p. 59). Le pagine di Caputo – pacate a volte, incalzanti altre – mettono in rilievo la concettualizzazione peculiarmente «hegeliana» del tramonto dell’ideale ellenico: non vi è una mera sostituzione dell’amore cristiano alla bella unità delmondo greco. Piuttosto, solo a seguito dell’impietosa disamina dello spirito del cristianesimo Hegel giungerà alla consapevolezza che nella grecità stessa v’è anticipato il rapporto d’estraneità fra ideale e reale, costitutivo del mondo ebraico-cristiano (cfr. Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801) di R. Finelli, p. 73 e ss).
La prima stesura di La positività della religione cristiana riconduce quest’ultima nella vitale prosaicità delle religioni storiche: Hegel ne denuncia la colpa di delegare ad un al di là sovrasensibile la messa in opera del regno di Dio, finendo per contrapporre fede soggettiva ed agire politico. Gesù fu reo d’acconsentire all’introduzione d’elementi positivi nella sua predicazione, favorendo il sorgere d’una religione che sanciva l’insanabile abisso fra terra e cielo. Tuttavia, massimamente colpevole fu il tradimento dell’ideale messianico da parte dei discepoli che, prigionieri del legalitarismo dello spirito ebraico, resero il cristianesimo mera pratica cultuale: «sottrassero il movente delle azioni all’imperativo categorico per fissarlo in un corpus di testi in cui l’alto magistero del Cristo veniva positivizzato» (p. 104). L’attaccamento dei discepoli alla morta spoglia del Cristo ed all’empiria della ritualità, il loro essere per la morte si rovescerà nell’infausta «ipocondria dell’impolitico», emblema tanto dell’«uomo della tarda antichità classica» quanto «fondamento dello spirito del cristianesimo, del suo destino». Infine, l’istituzione della Chiesa s’edificherà su di uno statuto contrattualistico: essa «ha interamente tolto la possibilità di liberamente scegliere e decidere se essere suo membro, sebbene solo su ciò possa e voglia fondare le sue pretese nei riguardi di ognuno». Ancor più grave, «ha distrutto il diritto naturale di un fanciullo ad una libera formazione delle proprie facoltà e ha allevato schiavi invece di liberi cittadini» (Hegel, Gesammelte Werke, I. p. 324; Scritti teologici giovanili, p. 475). Un’etica da schiavi, sottolinea l’autore, che misconosce l’istanza profonda che muove senza sosta la produzione giovanile di Hegel: l’autentico spirito religioso dei popoli sempre tende «a produrre una disposizione d’animo che non può essere oggetto di alcuna legislazione civile» (Hegel, Gesammelte Werke, I, p. 308; Scritti teologici giovanili, p. 459). Hegel valorizza l’aspetto soggettivo, interiore, della religione onde combatterne la positività; tuttavia osteggia il privatismo della credenza, cui contrappone l’ideale d’una nuova religione pubblica quale autocoscienza d’una comunità storica. In tal modo, la critica giovane-hegeliana finisce per volgersi di contro all’intera modernità: in Eleusis – composizione di confine fra Berna e Francoforte – ricompaiono note di critica rousseaiana al tardo illuminismo, polemiche in merito alla strutturale finitezza dell’intelletto che vanamente vuol ricostituire la totalità di senso infranta con il tramonto dell’epoca antica.

D’altra parte, sono pagine intrise dell’insegnamento fichtiano: siamo dinanzi alla «radicalizzazione degli esiti scettici della prima Critica rispetto alle possibilità di intelletto e ragione di cogliere la totalità» (p. 77). Se per Kant era l’infinità noumenica, per Hegel è la stessa infinità terrena e fenomenica, storica, quel che all’intelletto inappagato s-fugge. In Hegel non muta l’esigenzadell’assoluto, il fine d’educare il popolo a libertà e felicità, a riappropriarsi della bella eticità del mondo antico. Il rovesciamento kantiano del tradizionale rapporto fra morale-soggettivae religione-oggettiva ha un esito drammatico: l’autonomia – tanto dello spirito ebraico-cristiano di contro al mondo storico, quanto del trascendentale di contro al fenomenico – si rivela parvenza d’autonomia, la certezza di sé non corrisponde al vero. Ed una potenza estranea, un che d’altrettanto unilaterale e positivo, si contrappone allo storico-fenomenico abbandonato a se stesso, dando vita alla tragedia della modernità: al fine universale della polis subentra impietoso il falso universale della proprietà privata (p. 72).
In una nota lettera in cui traccia un bilancio degli anni francofortesi, Hegel afferma esser stato tale periodo «punto notturno della contraddizione del suo essere» mediante cui, tuttavia, s’è «fortificato e confermato nella certezza di se stesso». Diversamente da molta letteratura critica sugli scritti giovanili di Hegel Caputo, nelle lunghe e complesse pagine dedicate alla crisi degli anni 1796-1801, coglie una tensione di vita e di pensiero non esteriore alla produzione hegeliana della maturità. Al contrario, Hegel va compiendo l’Aufhebung tanto della filosofia illuministico-razionalista quanto romantico-irrazionalista, sebbene d’entrambe tesaurizzi le esigenze del tempo. Non a caso, elaborazione teoretica e pratico-politica si dispiegano di pari passo. La Rivoluzione francese ha ben giustamente posto la necessità di dar forma giuridica alla novella idea di libertà, al fine di rinvenire un ordinamento statuale che consenta alla singolarità d’esser particolarità ed insieme determinazione umana nell’universale statuale. D’altra parte, poiché «solamente la società è la condizione in cui il diritto ha la sua realtà» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, §502), l’ideale giovanile dovrà cedere il passo al drammatico processo di costituzione d’una comunità etica non più indifferenziata, ma concreta, capace di conservare al proprio interno la particolarità moderna. Il modello greco non può esser ingenuamente sottratto al suo destino e viene ora sottoposto al tribunale della storia che avrà quale metro di giudizio non più l’astrattezza della legge del citoyen, ma la consapevolezza del male radicale strutturale al bourgeois. I suoi bisogni e lo stesso modo di produzione storico cui si è costretti ad attenersi per sopperirli – oseremmo dire con marxiana lungimiranza – diverranno la potenza del negativo, il reale motore tragico dello sviluppo storico.

Caputo delinea il dispiegarsi del sistema hegelianomediante quattro grandi e complesse figure anticipatorie delle pagine della Fenomenologia. La legalità dell’intelletto vanamente tenta di dominare l’esterna ed interna natura ed entra in conflitto con il movente della singolarità agente, con i suoi fini irriducibilmente particolari. In loro nome l’individuo compie la negazione della negazione ovvero toglie il diritto astratto, aprendo la strada al sorgere della moralità. Tuttavia, l’interiorità dell’imperativo categorico lascia permanere un residuo d’oggettività che non solamente impedisce la conciliazione di soggetto ed oggetto, ma erge dinanzi a sé l’ostile ed estranea potenza della positività (p. 189): due unilateralità che esigono reciproco riconoscimento. A ciò sopperisce l’amore che, nondimeno, abbandonando la riflessione a se stessa sancisce il proprio destino di finitezza nell’inaggirabile singolarità di corporeità e patrimonio. La religione infine, unità d’amore e riflessione, tenterà una prima soluzione di tale antinomia interiore: l’esteriorizzarsi dell’amore in destino mediante la tragedia dell’azione aprono al catartico processo di remissione dei peccati. L’autore, tuttavia, ricorda di frequente come sin da ora si vada dispiegando il superamento del religioso in una più alta forma del darsi dell’assoluto: la dialettica del reale o filosofia– nulla di più lontano da un superamento irrazionalistico e mistico della contraddittorietà della concretezza storica. Piuttosto, siamo dinanzi agli esiti dei sofferti tentativi hegeliani di conciliare l’opposizione trascendentale-storico, insidiati dalle giovanili difficoltà a svincolarsi da un linguaggio strutturalmente dipendente dalla finitezza del pensiero riflessivo, da cui la parvenza d’irrazionalità. Tuttavia Hegel approda a «concetti come amore e vita, proprio per la loro capacità di chiamare in causa l’altro della e nella riflessione» (p. 132), annunciando l’idea speculativa. La vanità autoreferenziale dell’intelletto, che crede di poter ricostituire l’unità originaria in un regresso all’infinito, dovrà cedere il passo alla fede: non intesa quale credenza immediata, rimarca l’autore, ma risorta su basi criticamente fondate. In tal modo potrà compiersi il passaggio dal dover essere alla cosa stessa.

La dialettica hegeliana riconosce, dunque, la figura della positività storica quale primo ed inevitabile destino del concetto. Si viene qui svolgendo un vero e proprio passaggio dalla logica dell’essenza alla logica del concetto (p. 281), che risulterà massimamente evidente nelle pagine conclusive dedicate da Caputo agli scritti storico-politici di Hegel. Inizialmente il vero non è nel fenomeno, ma in una ragione di cui i fenomeni non sono altro che cattiva apparenza; le religioni, in tal senso, paiono espressione d’una positività meramente naturale, della divinità o dell’intelletto che sia. Secondo la logica del concetto, al contrario, non vi è più alcuna essenza pre-supposta alla cosa e non vi è più positività di contro a razionalità, ma della seconda la prima è ora destino. Nel farsi-storia dell’assoluto il concetto risulta necessariamente costretto ad uscir fuori di sé, tragicamente, nell’oggettività radicalmente autonoma del mondo storico, poiché unicamente in tal modo potrà con essa conciliarsi. Cristo è, dunque, reo in prima persona della propria tragedia, destino d’anima bella: di libertà, di Trennung ed infine di sanzionedell’esistente (cfr. D. Losurdo, L’Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi). Il dualismo fra positivo e ragione, mediato dal tragico divenire dell’assoluto, devesi dunque affaticare nell’empirico. É indubbio merito del testo l’analitica ricostruzione delle influenze di Fichte, Jacobi, Schelling e Hölderlin sulla concezione hegeliana della tragica dialettica fra coscienza e storia (p. 137). Viene in tal modo alla luce l’eredità essenziale e problematica del giudizio teleologico kantiano: determinare, al di là dell’indifferente differenza del fenomeno, «una più profonda finalità che, per quanto in maniera analogica, possa rinvenire un ordine intelligibile nella natura» (p. 140). La razionalizzazione dell’esistente consentirà il superamento della cattiva infinità a seguito d’un riconoscimento reale di nell’altro, ora non più astrattamente soppresso. Non può darsi liquidazione alcuna: un’opposizione fra universalerazionale e particolarità cristallizzata dall’intelletto, uno storico ridotto a mera singolarità e dunque condannato ad una differenza insormontabile ed indifferente alla totalità, tutto ciò Hegel tenta di vincerlo con ogni mezzo. La libertà dei moderni si confermerà presupposto-posto essenziale alla risoluzione della tragedia della modernità

Nelle pagine di Lo spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel conduce alle estreme conseguenze il motivo kantiano-fichtiano del Cristo quale ragione naturale. Colpevole d’innocenza, anche in lui sono rinvenibili i germi del destino di crisi ed inadeguatezza della religione cristiana. L’analisi e la ricomprensione storica dello spirito ebraico e del suo destino di scissione fra coscienza e proprio oggetto – che si riproduce nel rapporto instaurato con le altre nazioni e con la natura (pp. 169-186) – permette di ricomprendere il cristianesimo quale portato d’un Cristo non più sovrastorico maestro di virtù, ma finitezza umana. Erede della contrappositività strutturale di quel mondo, egli ne porta alle luce l’intima sorgente d’implosione, l’occulta contraddizione: «l’universalizzazione del rapporto di signoria-servitù» (p. 188). Incapace di vincere la potenza storica dell’ebraismo, Gesù tenta di sopravanzarla idealmente nei concetti di persona ed amore, cosicché il contenuto stesso della legge, il fondamento universalizzante della pena vien tolto dalla grazia della remissione dei peccati (cfr. anche P. Cassetta, Il perdono nel giovane Hegel). La sanzione della colpa, ripensata in destino, si compie «nel processo catartico mediante cui la soggettività riconosce il significato profondo della propria azione in un risultato solo apparentemente estraneo alla volontà agente». D’altra parte, Cristo sostiene la necessità morale d’una rivoluzione, ma non di questo mondo; peraltro, richiede ai discepoli la costituzione d’uno Stato nello Stato: l’esistente, abbandonato, si ripresenta imperioso nell’empiria a-critica della positività.
Medesimo destino di Trennung e d’anima bella sarà quello cui soggiace il Wallenstein di Schiller. Nella recensione al dramma Hegel ne valorizza il risoluto farsi carico dell’oggettività della storia e, nondimeno, vi trova del tutto assente la catarsi della conciliazione, sacrificata alla centralità della collisione tragica: il soccombere del determinato dinanzi all’indefinito. Wallenstein si muove in un ambito sublime, in una tensione fra categoria astratta della possibilità e concreta del reale, entrambe unilaterali ed ipostatizzate.L’ambito potenzialmente illimitato del volere astratto, dell’arbitrio – questo puro formalismo del principio di autodeterminazione che lascia indeterminato ogni contenuto particolare –  finisce per divenire facile preda di contenuti empirici. Siamo dinanzi alla denuncia di un destino d’inevitabile tramonto del finito nella sua pretesa di porsi per sé, di scambiare la propria particolarità con l’assoluto. In tal modo, la finitezza non pare in grado di pervenire alla superiore consapevolezza d’esser questa la conditio sine qua non dell’affermarsi dell’infinito, ma s’arresta all’orribile necessità d’un morire privo di redenzione. Certo, il movimento che conduce il finito a togliersi prelude all’assoluto e, tuttavia, la mancata presa di coscienza di tale processo fa sì che la negazione sia ancora una volta semplice, indeterminata. L’abbandono del moralismo astratto ed il riconoscimento del corso del mondo comporta il completo smarrimento della propria identità nell’alterità in quanto tale. Il sentimentalismo rivela una «concezione prettamente negativa, formale, della soggettività assoluta e conduce quest’ultima – nell’attimo in cui prende coscienza della propria annichilente astrattezza – ad un horror vacui» (p. 273), alla ricerca d’un contenuto infine sussunto esteriormente dall’empirico e ipostatizzato nel sovrasensibile. La concezione hegeliana del destino si viene delineando quale unità dei due momenti: esito delle azioni del soggetto e giudizio del per noi storico nel momento in cui l’agire teleologicamente orientato dell’individuo muta radicalmente in rapporto all’attività delle altre soggettività. Il tentativo schilleriano di sopravanzare i contraddittori valori del proprio mondo storico – l’arbitrio della borghesia cui s’accompagna il moralismo più ipocrita – fallisce, paradossalmente, nel sacrificio ad esso dell’individualità.

La riflessione di Hegel non è «prodotto del genio creativo d’un singolo pensatore, ma risultato dello sforzo d’elaborazione comune, soddisfazione d’un bisogno filosofico implicito nello spirito del tempo, portato della cosa stessa [..]». Il destino e la colpa possono esser tolti alla loro sorte di finitezza in quanto scoprono d’aver inizio nella lacerazione della totalità della vita compiuta dall’uomo stesso, risanabile dalla coscienza agente: «l’azione tragica che lede la totalità del vivente viola a sua volta se stessa quale parte del tutto, per cui ogni lacerazione del flusso unitario è in esso ricompresa». La tragicità dell’azione hegeliana, potremmo dire, è bella e non sublime: cade la sua parvenza d’unilateralità ed arbitrio, giacché arbitrio era quell’autonegazione della libertà  nell’incapacità d’incidere sul corso del mondo. La tragedia assume valore universale, esprimendo negativamente l’unità profonda della vita: «nel destino l’universale, l’identico, si manifesta come il suo altro, il singolare, l’accidentale; il dover essere trova realizzazione non mediante la contrapposizione all’essere, ma nel medium dell’azione» (p. 193). É evidente come gli anni francofortesi risultino ben lontani da prospettive di misticismo irrazionalista poiché della legge non si ha negazione semplice – sarebbe altrimenti intesa quale sanzione assoluta ed esteriore all’azione: piuttosto, questa viene ricondotta a figura del tutto fenomenologico della vita, comprensivo in sé delle molteplici ed infinite scissioni e deviazioni che ne determinano il corso.
«Hegel conservò sempre la passione per la politica e non considerò mai la sua filosofia come qualcosa di eterogeneo rispetto ad essa» (Rosenkranz, La vita di Hegel, in TPH, p. 279.) osservava K. Rosenkranz. Negli scritti storico-politici degli anni giovanili troviamo il primo tentativo hegeliano di concretizzare la teoria del tragico sulla base della tragedia della modernità. La lenta ed inesorabile trasfigurazione della guerra rivoluzionaria francese in politica sciovinista di conquista conduce molti intellettuali tedeschi – che avevano preso le distanze dalla Rivoluzione durante il Terrore – ad assumere posizioni reazionarie e gallofobe. Al contrario, Hegel svolge le prime sistematizzazione teoretiche del passaggio dalla centralità della filosofia pratica ad una concezione fondata sulla filosofia della storia. Se in un primo tempo permaneva la tensione fra esistente storico e Streben del dover essere irrimediabilmente al di là del corso del mondo, in un secondo tempo egli si fa carico dell’intrinseca teleologia dell’affermarsi della libertà del mondo. Al confuso altalenare dell’ideale di conciliazione fra cristiano perdono dei peccati ed eroe greco Hegel sostituisce il realismo del politico che valuta con maggior dialettica la funzione storica della borghesia in ascesa, particolarmente a seguito delle frustrate speranze rivoluzionarie ed all’affermarsi della Restaurazione. Tuttavia, non convince – quantomeno non pare adeguatamente argomentata dall’autore – l’idea, piuttosto meccanicista, per cui sarà l’evolversi degli avvenimenti rivoluzionari in Francia che condurrà Hegel «ad abbandonare l’astrattezza delle utopie giovanili» (p. 282). Caputo richiama una presunta «fiducia irriflessa» di Hegel a favore del prodursi simbiotico di rivoluzione politica e storico-culturale ed una successiva dolorosa e realistica consapevolezza dell’impossibilità del verificarsi di ciò. Tuttavia, non ci pare affatto che si possa tacciare il giovane Hegel di «volontarismo fichtiano», a meno di ricomprendere tale momento quale strutturale e razionalmente necessaria fase d’innamoramento ideale dell’ideale, sostanzialmente organica all’affermarsi di qualsivoglia frattura rivoluzionaria reale di pensiero e storia. Del resto, la prosaicità della fase di costruzione d’un progetto e la violenza sofferta a seguito dello stato d’eccezione pare intrinseca alla fenomenologia dello spirito tragico del corso del mondo. In tal senso, non v’è mera contrapposizione fra un giudizio hegeliano presuntivamente semplicistico pre-Restaurazione ed un successivo realismo politico; vediamo, piuttosto, svilupparsi una correlazione di opposte determinazioni della storia, preludio ad una presa di coscienza della tragicità intrinseca all’azione umana e ad una futura felice unione nella dialettica fra libertà e necessità, grecità e modernità. Non a caso «il corso del mondo è prodotto dell’affermarsi della volontà agente dei suoi soggetti, ma questa a sua volta deve essere pensata all’interno delle esigenze e dei bisogni posti di volta in volta dal processo storico» (pp. 283-284). In tal senso, Hegel giunge alla conclusione che la «necessità [..] è il risultato dotato di senso dell’azione mai pienamente trasparente a se stessa di tutti gli individui», riconciliazione pratico-teoretica dell’esistente temporale con lo spirito del tempo nella categoria d’effettualità. Di qui seguiranno le postume e significative, all’oggi perdute, riflessioni di Hegel sull’economia politica, in merito a divisione del lavoro, distribuzione della ricchezza fra le classi, fenomeno del pauperismo, polizia e tassazione.

Tali tematiche non paiono davvero distanti dalle problematiche del nostro tempo ed in ciò è, forse, il merito maggiore del volume: siamo tuttora dinanzi all’impasse d’una mancata pacificazione fra libertà negativa e positiva, diritti politici e sociali, democrazia proceduralista e sostanzialista. Secondo la lezione hegeliana s’impone dunque – per dirla con Gramsci – una scelta partigiana: accettazione passiva della tragedia o conciliazione attiva di tale destino di Trennung della modernità.L’uomo nuovo ha l’occasione di rigettare l’ipocrisia pericolosamente conservatrice dell’anima bella ed agire in una tragicitàconsapevole per la riappropriazione di quel che ha alienato, la propria onnilateralità. Certo, non manca di riconoscere l’autore, quel senso di «passatezza che promana da molti degli scritti hegeliani» (p. 346) e che costituisce, in certo modo, un ostacolo ad una reale ed approfondita comprensione dei processi storici di ieri ed oggi pare dovuto all’inadeguatezza della proposta hegeliana. Incapace «di sviluppare una posizione realmente autonoma dalla miseria dell’esistente», finisce per riproporci vanamente un modello di stato da lui stesso ritenuto incapace di stare al passo con il corso del mondo. E tuttavia la necessità d’una conciliazione dialettica fra sfera del privato e del pubblico, fra volonté de tous e volonté générale – avrebbe detto Rousseau – non ci pare affatto alcunché di risolto e tantomeno questione passata. Al contrario, si tratta della decisiva ed inaggirabile esigenza di ri-comprensione – sempre postuma all’agire tragico – d’una contraddizione oggettiva: la portata pratico-teoretica della frattura rivoluzionaria nella vita e nella storia. Azione, colpa e destino – indissolubilmente connessi – costituiscono le strutture portanti della vita umana e volersi ad esse sottrarre comporterebbe il peggiore dei destini: il rifiuto del vivente. Il travaglio fenomenologico del concetto e dello spirito giovane-hegeliano paiono indicarci una strada certamente percorribile: il ripudio d’una modernità ancorata all’esistente, «in cui il singolo è prigioniero in un ambito privato e la libertà ridotta ad arbitrio» (p. 122). Sta a noi raccoglierne la sfida.

PUBBLICATO IL : 19-02-2007
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