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Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo..
Laterza, 2005

di Lorenzo Marras

Nell’epoca pre-popolare, cioè quella che precede l’immaginario pop susseguente alla seconda guerra mondiale, le agiografie si costruivano sulla rimozione degli aspetti negativi.   Con l’epoca della terza mediamorfosi, invece,  l’epoca pop degli pseudoeventi, delle «ready made truths» e del flusso incontrollato delle informazioni, questo assioma viene «rimediato» in modo tale da risultare quasi superfluo. Negli ultimi trent’anni si è infatti andato scoprendo che per controllare la sovrapproduzione delle informazioni non serve tanto censurarle, quanto lasciarle vagare incontrollate nel mare magnum dell’informazione digitale. Il libro che vogliamo qui presentare, Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, cerca di combattere questa tendenza con un libro che vuole, al di sotto delle agiografie, riportare la ricerca sul problema del liberalismo (e, diciamo noi, dell’occidente) sul terreno della ricerca storica rigorosa e documentata. Il liberalismo, infatti, ben può rientrare in quella categoria di concetti che l’agiografia imperante nell’epoca informatica tende a ipostatizzare e, quindi, mitizzare.  Per questa ragione soffermarsi qualche riga sulla produzione incontrollata delle informazioni nella terza mediamorfosi (epoca che si è andata riconfigurando radicalmente nella crisi di sovraccumulazione del 1973/975) può risultare utile a introdurre il testo di Losurdo.  La sovrapproduzione di informazioni, ulteriormente amplificata dall’evoluzione della rete digitale che ne migliora le possibilità di comunicazione, costituisce, come sostenne Bernstein criticato da Luxemburg,  uno dei metodi adattivi del capitalismo. Il mare magnum informatico sopra descritto, infatti, comprende allo stesso tempo informazioni capitali e, soprattutto, informazioni completamente superflue e triviali che, proprio grazie alla digitalizzazione, rimarranno (quasi) in eterno: voci su cose spicciole, malintesi, calunnie, tutti dati spazzatura che vengono conservati e che crescono a ritmi allarmanti.  La sovraccumulazione informatica che stiamo descrivendo  sembra paradossalmente avere ha come suo effetto quello di bloccare il pensiero critico e non, come si pensa, alimentarlo. 

In un ambiente fortemente caratterizzato da un progressivo rafforzamento (me)ontologico della realtà digitale  informatizzata, una situazione del genere rende sì maggiore il grado di democrazia, ma allo stesso tempo rischia di compromettere lo stesso processo di sviluppo critico (e con esso il progresso sociale): al momento che tutto ciò che è fondamentale ha la forma di relazioni matematiche (informatiche) diviene sempre più irrilevante ogni differenza tra l’attuale e il possibile e/o il reale e il virtuale. Si viene così a favorire il prosperare proprio di quelle ready made truths sopraccennate, quelle che potremmo definire come mezze verità: verità né giuste né sbagliate e ognuna a suo modo valida solo perché diversa. Per rendersi conto di ciò basta soffermarsi sulle sovrapposizioni di moralità che ci circondano: si spendono miliardi di dollari per uccidere in modo più umano altri esseri umani oppure  si consiglia di essere buoni con il prossimo, ma allo stesso tempo si chiede, a mo’ di comandamento,  annientare la concorrenza. Tutte verità che sono frutto di interessi contraddittori e che si continuano ad accumulare,  non permettendo più di distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato, l’accertabile empiricamente dal fantasmatico. Come ha sostenuto Kojima a proposito dell’odierna società dell’informazione digitalizzata:  Tutti si ritirano nelle loro comunità ben protette, timorosi. Rimangono nelle loro piccole tane immettendo quelle "verità" che gli servono nella grande cloaca della società. Le diverse verità cardinali non si scontrano né si armonizzano fra loro, tutte riman­gono valide, ma nessuna ha ragione. Qui non ci può essere nem­meno la selezione naturale. Il mondo sta soffocando nella "verità" . In una situazione del genere la soluzione sembra essere  non solo paradossale, ma addirittura peggiore del problema: proporre un filtraggio e creare un contesto delle informazioni altro non è che una raffinata forma di censura, in cui si tenta una sorta di selezione «naturale artificiale», nella quale si decide quali sono le informazioni necessarie all’evoluzione sociale e quali no.

Stando all’assioma delle mezze verità una forma ancora più raffinata di selezione informatica sembra emergere in questi ultimi anni,  quella che cerca di vivere nel contrasto tra il creare un contesto (censura) e il lasciare proliferare le informazioni in maniera incontrollata in maniera che ognuna annulli il grado di vigenza dell’altra. Anzi l’una sembra essere atta a risolvere le contraddizioni che si innescano nell’altra.  Il lasciare la crescita incontrollata delle informazioni anche le più triviali garantisce così la democrazia, ma garantisce anche coloro che vogliono, grazie al massiccio controllo dei mezzi di comunicazione più diffusi, salvaguardare un contesto particolare dalle possibili critiche che questo stesso «contesto» può suscitare. Anche per questa ragione le letture agiografiche di fenomeni complessi possono nutrirsi ed evolversi attraverso la coesistenza con le critiche che gli vengono mosse. Tra le numerose  e troppo spesso agiografiche “mezze verità” quella che forse è tra le più complesse da decostruire è quella della dottrina (storica, politica ed economica) del liberalismo. Fenomeno complesso che, soprattutto in seguito al crollo dell’ideologia sovietica, ha ampliato il suo spettro di diffusione ammantandosi dei contorni di un mito che non sembra conoscere declino: la rivendicazione delle libertà individuali e delle garanzie costituzionali e politiche degli individui, dalla tolleranza come fine e non come mezzo, del libero scambio rispetto alle troppe ingerenze dello Stato sono solo alcune delle peculiarità che alimentano il fascino del liberalismo e vengono sempre di più affermate come se si trattasse di verità rivelate ipostatizzate per la memoria dei posteri. O anche come “persone” puramente formali, i cosiddetti “patrioti”, cioè come una sorta di disciplina e moralità politica, economia e sociale a cui gran parte del cosiddetto occidente fa continuamente appello.         

Ma è proprio così? Ed è qui che ritorniamo a Losurdo e al suo Controstoria del liberalismo, il quale cerca di fare chiarezza sul fenomeno del liberalismo e indagare in profondità, e con un padroneggiamento delle fonti che ha dell’incredibile, quelli che, al di là dell’epico splendore e degli inebrianti fumi della retorica che confondono la mente e offuscano la logica, sono i reali  rapporti politici e sociali che hanno generato e strutturano la dottrina liberalistica classica  e che, loro volta, si sono sviluppati in suo nome. Losurdo, che in questo libro riassume, se non sbagliamo, una più di quindici anni di ricerche sul liberalismo e l’età coloniale, cioè  l’autore rilegge criticamente la fase del liberalismo che si conclude nel 1914, lasciando all’ultimo capitolo, Liberalismo e catastrofe del novecento, alcuni spunti sugli anni successivi. Lo scopo del libro di Losurdo, allora, non è però quello di re-interpretare la storia del liberalismo e quindi fornirne una nuova lettura, cosa già fatta innumerevoli altre volte; l’autore, invece, dando per scontati i capisaldi del liberalismo, si concentra appunto su tutti quegli aspetti, per dir così, scomodi della teoria liberale, i quali, come dicevamo poco sopra, non sono affatto tenuti nascosti ma che solitamente vengono però tralasciati e/o dissimulati. Lo si capirà fin dalle prime pagine che, nonostante si intitolino “che cosa è il liberalismo”, non si preoccupano affatto di spiegare «cosa è» il liberalismo (nel senso di una spiegazione essenzialista) e gettano fin da subito, senza alcuna premessa metodologica o interpretativa, nel mezzo della mischia delle fonti, delle dichiarazioni e degli eventi storici al giorno d’oggi i più imbarazzanti  e che si tende  continuamente a obliare. Non è un caso, allora, che l’autore tornerà a ripetere la stessa domanda anche nel capitolo VIII (alle pagine 238 e ss.).

Il metodo scelto da Losurdo porta agli estremi la sua storicizzazione integrale.  Questo metodo, che possiamo anche definire ultraempirico/nominalista e quindi non essenzialista, può  forse sembrare straniante ai professionisti della filosofia accademica, ha invece il merito di rendere lo studio una sorta di ricerca scientifica, nel senso moderno del termine, una ricerca cioè che parte dai dati, dalle singole affermazioni, non da generalizzazioni che poi si cerca di far combaciare con  i dati storici e testuali via via sviscerati. Il grande spazio riservato alle fonti alle citazioni e ai fatti storici è, allora, il presupposto primario, anche se non l’unico, di ogni ricerca storica fondamentale, presupposto che permette poi di discutere su qualcosa di concreto, limitando, di fatto, il fenomeno della creeping ideology. Losurdo, infatti, non cerca di dare risalto a ogni piè sospinto alle conclusioni personali, che pure emergono chiaramente, ha cercato invece di dare lo spazio più ampio possibile alle fonti consultate, al fine, così è sembrato a noi, di fare in modo che siano loro a parlare con voce propria.   In questo senso la scelta di Losurdo se da una parte può intimorire chi ama sentirsi guidato nella lettura dei dati, dall’altro offre un bagaglio di dati i quali poi ognuno può interpretare (anche al di là delle conclusioni a cui giunge Losurdo) come meglio crede, e questo è uno dei meriti maggiori che vogliamo riconoscere al libro.   In questo senso, nel senso di una frantumazione empiristica di un contenuto teorico forse più unitario di quello che l’indagine ad un primo approccio potrebbe lasciar supporre,  se può apparire legittima l’eventuale critica che sostiene che l'idea liberale ha un contenuto che si comunica al di là delle sue contingenti manifestazioni storico/empiriche, è anche vero che lo sforzo di Losurdo in questo volume è proprio quello di mostrare una sempre più stretta correlazione tra il contenuto e le manifestazioni.  

Attraverso un serrato e sistematico confronto con tutti i luoghi oscuri del pensiero liberale, il libro di Losurdo offre  quindi un prezioso compendio (se così si può dire vista la mole dei dati citata) di tutta una letteratura che, forse perchè troppo nota, spesso si conosce poco o niente, quasi sempre per sentito dire. Al di là di tutti i meriti che si possono riconoscere al volume, quello che maggiormente vogliamo sottolineare noi riguarda il contributo che esso può dare ad una più precisa comprensione e categorizzazione di quello che si usa definire come occidente. Una ricategorizzazione, oltre i luoghi comuni a cui l’espressione sempre più equivoca di occidente si presta continuamente, è sia necessaria sia necessitata dall’attenzione proprio a tutti quei luoghi oscuri che il testo di Losurdo cerca di portare all’attenzione del lettore. La tesi fondamentale del libro è semplice: esiste una stretta connessione (un double bind?) tra il liberalismo per come si è andato storicamente configurando e la tradizione colonialistica e schiavistica occidentale. Una connessione che rimette in discussione il mito del liberalismo puro, come unica possibilità di libertà, uguaglianza e pace come difensore delle libertà individuali.  In altre parole il liberalismo, al di là dell’agiografia che se ne fa e dell’utopia del cavallo della libertà,  sembra avere in sé i geni della non-libertà, almeno nel senso, come disse anche Matthew Arnold, che la libertà è sì un ottimo cavallo da cavalcare, ma da cavalcare solo verso pochi e isolati luoghi, preferibilmente quelli che fanno comodo. «Solo in contrapposizione alle diffuse rimozioni e trasfigurazioni il libro (…) si presenta come una «controstoria»: dire addio all'agiografia è la condizione preli­minare per approdare sul terreno della storia» (pag. 340). 

In questo senso,  nel senso cioè di un’idea censitaria della libertà che vale e appartiene solo a pochi eletti, e non è quindi automaticamente estendibile ad altre “razze”, popoli o la maggior parte della popolazione cosiddetta  semicivilizzata (oggi si direbbe non democraticizzata), il liberalismo spesso coincide con il contrario della libertà  per come oggi comunemente la si intende. Si viene così a (ri)scoprire che il razzismo, la schiavitù, l’assoggettamento, lo sfruttamento, lo stermino, la dittatura, il rifiuto della democrazia come migliore sistema possibile (che solamente dopo molti anni è stato accettato dai cosiddetti sistemi liberali), la disconnessione tra libertà e uguaglianza e la discriminazione di coloro che non sono degni della libertà, la guerra di conquista permanente sono tutte caratteristiche che, a quanto mostrato dettagliatamente dall’autore, vivono senza apparente contraddizione con teorie liberali classiche,  e che sono state storicamente attuate dal cosiddetto occidente (pre)civilizzato. Solo molto tardi (diciamo dopo il 1920, peraltro sotto la pressione delle rivoluzioni comuniste che si stavano diffondendo in molte parti del mondo) la tradizione liberale ha accettato tutte quelle che oggigiorno vengono considerate come le qualità essenziali proprio della teoria liberale,  e ci riferiamo principalmente alla democrazia e all’uguaglianza.  Le scandalose caratteristiche sopra elencate sono, invece, la vera storia dell’epoca coloniale (dalle guerre napoleoniche al 1914, l’epoca della concretizzazione storica del liberalismo), che, come spiega molto bene l’autore, è un’epoca che ben permette di comprenderne l’apparizione, tutt’altro che casuale quindi, nell’occidente continentale proprio a partire dallo scoppio della prima guerra mondiale. L’autore, quindi, da una parte sembra avvisare che senza un fondamentale ripensamento dell’epoca coloniale (e dei suoi genocidi) risulta  impossibile comprendere l’orrore del novecento, dall’altra cerca di mettere in guardia sui rischi di associare facilmente il liberalismo con la democrazia, l’uguaglianza ecc. perché così si correrebbe il rischio, non essendo tali caratteristiche proprie del DNA dei Padri del liberalismo, di vedere l’occidente liberale contemporaneo regredire, senza particolari contraddizioni,  al liberalismo razzista e non democratico dell’epoca coloniale. Rischio, questo dei nodi e dei regressi, a dire il vero molto concreto viste le spinte reazionarie conservatrici che ultimamente arrivano da più parti.  Losurdo definisce questo rapporto come una dialettica dei emancipazione/de-emancipazione. La rivoluzione liberale sembra vivere in questa dialettica in cui ad una emancipazione libertaria può seguire e molte volte, troppe, è seguita una fase di una de-emancipazione, in cui i liberati impongono e reiterano verso altri la stessa oppressione da loro subita,  come mostrato a proposito dei coloni ribelli e della rivoluzione america (pp. 297 e ss.): «La fondazione degli Stati Uniti comporta l'avvento di uno Stato razziale e il consolidamento senza precedenti di una schiavitù-merce su base razziale. È vero, in coerenza con le parole d'ordine di lotta contro la schiavitù (politica) agitate nel cor­so della rivolta contro l'Inghilterra, gli Stati del Nord aboliscono la schia­vitù propriamente detta, ma non per questo i neri acquistano la libertà, confinati come sono in una “casta”, che non è quella degli uomini liberi».

Per Losurdo, allora, il problema non è tanto criticare il liberalismo, che anzi viene in qualche modo esaltato, rispetto al comunismo, per la sua duttilità storico/sociale, come esplicitato a pag. 276: «il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista (la tradizione di pensiero che, prendendo le mosse dal «radicalismo» e passando attraverso Marx, sfocia nelle rivoluzioni che in modi diversi a lui si sono richiamati) ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo»; il problema è forse quello di mettere in guardia dai possibili regressi che rischiano di far scivolare il liberalismo democratico (o che si dice tale) contemporaneo ad un liberalismo non democratico, se non addirittura razzista. Si tratta, insomma, di chiedersi: «il liberalismo si è lasciato definitivamen­te alle spalle la dialettica di emancipazione/de-emancipazione, coi peri­coli di regressione e restaurazione in essa impliciti, oppure tale dialettica è ancora ben viva, grazie anche alla duttilità che è propria di questa cor­rente di pensiero?» (pag. 340). E tra tutte le pur complesse letture che della questione si possono dare, è questa forse la sfida più urgente a cui, di fronte al palcoscenico della storia, la teoria liberale è chiamata a rispondere.

PUBBLICATO IL : 04-06-2006
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