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Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia.
Laterza, 2005

di Matteo Mauro

Alla IX pagina dell’Introduzione si legge: «[…] compito della storia è anche quello di dar torto al presente». Il lettore è avvertito sin da subito, senza ambiguità. Il testo che ha per le mani non è un panegirico della “onnipotente” scienza medica, del suo progressivo e magnifico sviluppo tecnologico. Non è, di contro, neanche uno di quei libri che usano gli “Insegnamenti della Storia” per mettere in luce le contraddizioni delle scienze e la loro inadeguatezza di fronte ai “bisogni spirituali dell’uomo moderno”.
Cosmacini racconta la medicina come parte di un tutto: la sanità. Racconta come la storia di pochi uomini, vissuta nelle università, nelle accademie, nei laboratori d’analisi, condizioni e sia condizionata dalla storia dei molti (malati e non), nei lazzaretti, negli ospedali, nelle cliniche, nelle ASL e negli uffici sanitari. Per Cosmacini le idee, le teorie, le pratiche e gli strumenti della medicina sono e devono essere inscrivibili nella lotta quotidiana del genere umano per la propria sopravvivenza biologica, da un lato, e dall’altro all’interno dei rapporti con quelle sfere sociali quali la religione, la politica e l’etica, le quali, in quanto anch’esse scienze dell’uomo, hanno non pochi terreni di scontro e di scambio con la medicina. Dunque, nel considerare che «l’Italia è uno dei paesi dove meno è avvertibile la presenza nella cultura media dei risultati delle scienze naturali e biologiche», l’autore cerca di colmare tale lacuna senza farsi lusingare dalle tentazioni di una facile storia aneddotica o tecnica della medicina, mettendone in risalto, accanto ai pregi, le difficoltà soprattutto in campo terapeutico.

L’immagine che ne deriva è quindi quella di una scienza a metà strada fra lògos e technè, fra comprensione filosofico-scientifica e arte della cura – l’ippocratica iatrikè technè. Livelli che per lungo tempo hanno conosciuto uno sfalsamento rilevante, colmato più che dai medici, molto spesso impotenti, dagli ordinamenti che le società hanno dato a se stesse con la creazione degli uffici sanitari e dei relativi ufficiali.
Si pensi al caso della peste. Di fronte al flagello epidemico il sapere medico è inerte. I medici scappano in collina al suo arrivo, senza alcuna speranza di possedere cure efficaci, bloccati dalle eredità galeniche della teoria degli umori. La risposta all’emergenza è data – in Italia prima che in altre regioni d’Europa – dalla prevenzione della malattia, cioè dalla presa di coscienza delle pessime condizioni sanitarie delle città e dal conseguente isolamento (la ‘quarantena’) degli ‘appestati’. Per la prima volta il generico consiglio ippocratico-galenico di considerare l’ambiente circostante come fattore nel mantenimento della salute, viene a riconfigurarsi in una considerazione più sistematica ed operativa delle condizioni sociali; sia ad un livello igenico-sanitario, sia nei rapporti economico-produttivi fra le diverse classi sociali.
Accanto dunque alla cura del singolo – in molti casi ricco e facoltoso – si affianca nella considerazione del medico un’ottica di prevenzione in cui il soggetto è però la popolazione nella sua interezza. La malattia non è più interpretabile come mero fenomeno individuale, bensì come l’insieme di fenomeni che nasce ad un livello in cui i fattori sociali hanno lo stesso peso di quelli biologici. Si pensi alla malaria, flagello del Meridione, e alla pellagra, piaga del Settentrione. In entrambi i casi il medico deve riconoscere ad un tempo le cause naturali e le colpe sociali come elementi essenziali per la malattia. Quando dunque la medicina diviene ‘sociale’, cioè quando si riconosce il suo rapporto con la sanità di un popolo, tale scienza non può più evitare di scontrarsi con assetti politici e religiosi, che rientrano fra i fattori causali della malattia stessa.

La medicina dunque, forse più di ogni altra scienza, nella misura in cui incrementa e migliora il proprio sapere riguardante l’uomo biologico – o naturale se preferite – non può non  occuparsi dell’uomo ‘politico’, cioè di come gli uomini vivono insieme. Nel far ciò un altro terreno di scontro e scambio, emergente dal lavoro di Cosmacini, la medicina lo trova nei rapporti che intesse inevitabilmente con l’etica religiosa. La religione ha abdicato con difficoltà al ruolo che per lunghissimo tempo ha ricoperto – e forse tutt’ora ricopre – nella cura del corpo umano. Poiché quest’ultima non conosceva alcuna differenza con la cura dell’anima, il sacerdote o il monaco si occupavano della salute con caritatevole afflato cristiano. La medicina si inserisce nel rapporto fra religione e corporeità mettendo in discussione  tale preminenza della figura del religioso. Nel rispondere all’emergenza epidemica della peste, medici e ufficiali sanitari spesso si videro costretti a combattere abitudini a dir poco ‘letali’, come processioni questuanti grazie divine, in piena epidemia, capaci solo di diffondere il morbo con conseguenze esiziali. Oppure si pensi alla costituzione, da parte del potere secolare, degli ospedali – ciò avviene soprattutto al Nord, per sostenere l’emergenza pestilenziale. Tali strutture spazzarono via le opere pie o gli ostelli per i poveri, veri e propri focolai epidemici. In tal caso poi, ad essere in pericolo era non solo il prestigio della tradizione religiosa nelle cure dei poveri-infermi, ma gli stessi introiti che arricchivano le casse di chierici e monaci.
Ma al di là di tali scontri, che riguardano in maggior misura l’aspetto secolare e politico della religione, piuttosto che quello etico, Cosmacini mette in luce, in modo semplice ed intelligente, un altro contrasto fra medicina e religione: il rapporto con la morte.

Due gli aspetti di maggior rilievo. Quello epistemologico e quello etico. Per ciò che riguarda il primo si deve considerare, in particolare, la differenza fra vita e morte nella concezione tradizionale della medicina e il suo ripensamento alla luce delle ricerche di anatomia patologica. Se nell’ottica conservatrice, probabilmente segnata dall’influenza della religione cristiana, la morte è ontologicamente diversa dalla vita e fra le due passa una invalicabile linea di demarcazione. Grazie agli sviluppi della ricerca anatomica si inizia a sentire il bisogno di valicare tale distinzione cercando dei rapporti causali fra le malattie del corpo vivente e lo stato di quest’ultimo una volta avvenuto il decesso. Si osserva la morte non più come un’entità altra dalla vita, perché in tal caso nulla potrebbe dirci della storia biologica del corpo, bensì come un momento di questa storia. Cioè una fase della vita stessa. Solo così la malattia del vivente prolunga la sua evoluzione oltre la vita, nel corpo morto. Essa può così assumere una struttura di rapporti causali che interessano principalmente la configurazione e, quindi, la funzione di precisi organi o parti del corpo. In tal modo la medicina inverte il proprio sguardo di ricerca e di indagine. Parte dall’analisi della degenerazione anatomica per ricostruirne quella funzionale, cioè fare la storia della malattia partendo dal suo stadio finale: la morte.
In tal modo la medicina moderna inizia a ripensare il ruolo della morte nella vita dell’uomo, non solo all’interno di un dibattito fra medici, ma nella società intera. E lo fa combattendo la concezione cristiana di un corpo vivente perché animato, che nulla può quindi  ricavare su di sé dall’analisi di un corpo morto, abbandonato dall’anima. Come potrebbe essere altrimenti se solo la presenza dell’anima dà al corpo la dignità necessaria per essere considerato umano? È evidente che la medicina compie un distacco qui nettissimo dalla religione. In particolare sotto quegli aspetti in cui quest’ultima sentenzia sul corpo. La medicina ripensa la morte desacralizzandola e trasformandola in un momento riconducibile alla logica di un sistema inesorabilmente naturale.

Ma Cosmacini non si limita a descriverci questo, come altri scontri e trasformazioni socio-culturali, prendendone atto meramente, senza metterne in luce le conseguenze. In linea con l’impostazione storiografica dichiarata sin dalla Introduzione, la medicina è per Cosmacini inscindibile dalla sua dimensione sociale. In quanto scienza la medicina non può parare i colpi – ultimamente sempre più pressanti, provenienti da saperi antichi – le religioni – o di nuova comparsa – la bioetica – nascondendosi dietro il proprio ‘strapotere’ tecnico. Lasciando di sé un’immagine di pura tecnica, indipendente da qualsiasi riflessione teorica e filosofica, che contribuisce al tramonto di secolari sistemi di idee, senza proporne di nuovi. L’invito che Cosmacini fa alla medicina – come del resto a tutta la scienza – è dunque quello di non tacere il proprio pensiero, la propria esigenza di filosofare, ma raccogliere la sfida lanciatale da altri saperi e dichiarare con semplice chiarezza il lògos che è a fondamento della technè, la ratio che sta dietro la sua storia. Ed è di nuovo il rapporto vita-morte che oppone medico e sacerdote, scienza e religione ad essere esempio cruciale – o experimentum crucis – per la proposta di Cosmacini.
“Curante vero è anzitutto colui che sa «affrontare il compito di annunciare una fine ormai prossima» e in tal modo «partecipare con la massima emozione al rapporto di cura». «Prendersi cura» del malato nel tempo più cruciale, breve o lungo, del suo vivere, senza emarginare la morte nella propria cultura, è un parametro qualitativo con cui il medico deve avere la forza di misurare se stesso”.

Nel ricordare, con Galeno, che optimus medicus sit quoque philosphus, Cosmacini si rivolge al medico e al paziente, esortando entrambi ad accettare la morte come inesorabile momento della vita, senza illusioni sull’immortalità o longevità illimitata – promesse di una scienza più vicina alla religione che a se stessa. Renderla dolce al pari, del resto, delle fasi biologiche mediante la solidarietà e la pratica del pensiero. Accettare in fine d’essere umani e vivere e morire di conseguenza.

PUBBLICATO IL : 19-03-2006
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