| La filosofia non ha mai tematizzato apertamente il tema del viaggio, e  ne ha dato versioni e letture dialettiche e contrapposte (Agostino, Montaigne,  Hegel, Kierkegaard, Marcel, Bloch). Il viaggio è metafora universale e perfino  abusata, che però al contempo consente di cogliere e pensare l’al di là del  pensiero stesso, in una prospettiva finalmente libera da remore metafisiche.  Dalla Filosofia del viaggio di Franco  Riva emerge un nuovo pensiero, fragile e responsabile insieme, che non cede più  ad alcuno sforzo prometeico ed autoreferenziale. Il viaggio è infatti uno stare  nella precarietà della propria fragilità, senza assolutizzare la propria  debolezza. È un partire verso l’altro, in cui l’identità è aperta  costitutivamente alla pluralità. Il libro si presenta come una descrizione fenomenologica  dell’esperienza del viaggio. Si tratta di una fenomenologia concreta, che parla  dentro e non astrattamente sopra il viaggio. La struttura del volume è ternaria  e affronta i grandi temi dell’alterità, dell’accoglienza e dell’unicità. In  realtà circola un filo comune, che percorre e lega intimamente tutti e tre i  capitoli, a partire dalla paradossalità del viaggio. In primo luogo perché in  quanto alterità che irrompe e s’impone, il viaggio non può essere definito,  giudicato o normativizzato. Il viaggio è anche accoglienza aperta e concreta, e  dunque di nuovo paradosso per ogni tentativo di omologazione e  generalizzazione. Il terzo motivo, che è il centro di questo pensiero del  viaggio, è l’unicità, paradossale per definizione, perché sfugge ad ogni  catalogazione, ad ogni identità che vuole rispecchiare se stessa.
   Nel primo capitolo Viaggio,  comunità e racconto viene analizzata la frattura, il distacco che il  viaggio comporta. Il viaggio si dà nell’uscita, dalla propria casa, dalla  propria terra, dalle proprie abitudini, da se stessi insomma. Ed è paragonabile  ad una linea retta dove la fine non coinciderà con l’inizio, ma costituirà un suo  differenziamento. Viaggiare è anche tornare, ai propri luoghi e infine a se  stessi. Alla linea occorre sovrapporre il cerchio, come figura della  circolarità di ogni esperienza, che non significa ripetitività dell’identico,  ma possibilità dell’apertura. Senza l’io non si dà neanche l’altro. E’ dunque l’alterità che struttura il viaggio. Viaggiare significa  incontrare altro dall’abituale ed esporsi liberamente nell’apertura al mondo.  Emerge una mobilità che non rassicura e presenta i caratteri della precarietà.  Dal confronto con la diversità, l’identità diventa se stessa, come appare  evidente nel nesso che lega viaggio, racconto e comunità. Viaggiare è anche  raccontare il proprio viaggio. Il racconto d’altra parte presenta la stessa  struttura del viaggio, con una partenza, una trama e una conclusione. Il  racconto avviene in un gruppo, in una comunità. Ma una comunità è tale quando è  animata e composta da voci differenti tra loro, altrimenti non sarebbe altro  che la ripetizione del monologo di un’unica ideologia. La comunità è dunque  tale quando la sua identità si basa sull’accoglienza polifonica e l’apertura  per il diverso.
 Nel secondo capitolo Riva affronta il tema dell’accoglienza. Se il  viaggio si configura come apertura accogliente e accoglimento aperto insieme,  il nostro mondo, dove veniamo accolti sempre, dall’aereoporto al sito Internet,  sembra appartenere alla disponibilità aperta del viaggio. L’accoglienza globale  è davvero tale? Un’analisi fenomenologica ci dice che, proprio perché siamo  sempre a casa nostra, non si dà più uscita da sé, ma continua ripetizione  dell’identico. L’accoglienza non è apertura al diverso ma reiterazione  dell’omologazione generale. L’accoglienza avviene in un luogo, la mia casa, una  locanda, un palazzo, uno stato, una città. La de-spazializzazione denuncia  l’impossibilità del viaggio, in quanto non esistono più luoghi e spazi diversi,  sconosciuti, perché sono già tutti ricompresi nei depliant degli operatori  turistici, o in qualche file della rete globale. Lo spazio è ridotto a tempo.  Perché ogni cosa deve essere veloce e rapida e il viaggio è inteso in maniera  temporale. Con Internet sono nello stesso momento in Inghilterra e Brasile. Il  viaggio sembra invece, in quanto accoglienza ospitante, innanzitutto  spazialità. Un odore nell’aria, un sentiero difficile da risalire, un cibo col  suo sapore unico, una stretta di mano. Nel mondo globale siamo tutti a casa, e  non ci sono più estranei e dunque neanche ospiti. La casa si è trasformata in  un mercato, perché il villaggio globale è l’insieme delle proposte e degli  acquisti che strutturano la nostra esistenza. Come acquistiamo un viaggio  all’estero, così compriamo il cibo, il cellulare, la musica, perfino la pace  dell’anima. Il denaro è il linguaggio unico della globalizzazione. Se non si ha  denaro, non si può essere accolti: questo è il monologo del villaggio globale,  all’in fuori di cui non esiste più nulla di diverso, di altro, di unico.
 Si impone nel terzo capitolo un’analisi del tema dell’unicità. Se  osserviamo bene anche nello scambio omologante del denaro c’è qualcosa che  resiste, che sfugge. E sono il massimo e il minimo rispetto al di più e al di  meno: oggetti, persone, affetti che valgono troppo o troppo poco. Non rientrano  nello scambio e allo stesso tempo ne sono inclusi. Unico significa proprio non  scambiabile, insostituibile. Il nuovo, il diverso del viaggio si può raccontare  e comunicare fino ad un certo punto, perchè certi luoghi e certe esperienze  devono essere vissute nella loro irrepetibilità. Il viaggio avviene solo  nell’incontro, nello spazio aperto tra me e altro., che rimane irriducibile.
   Così l’unicità rimane fuori da ogni tentativo di ripetizione  dell’identico. L’io è costretto ad uscire fuori, ad incontrare altro da se  stesso. L’unicità è anche fuori da ogni assoluto e può permanere nella propria  mobilità fragile ma al contempo lucida, responsabile e aperta. La sua alterità  sfugge ad ogni tentativo panoramico del pensiero. L’irripetibilità del viaggio  rispetta i luoghi e gli spazi, non si ha più l’indifferenza generalizzata  dell’accoglienza per tutti uguale. Gli spazi sono esperienze sempre diverse e  uniche. L’irripetibilità dice dell’alterità originaria del viaggio: nell’uscire  fuori da sé, nell’incontro con altri e altro, nella situazione di ritorno mai  uguale all’inizio. Anche il viaggio è sempre altro, sempre diverso rispetto a  se stesso. Sfugge qualsiasi definizione del viaggio. Il viaggio è l’alterità,  che chiama, che interpella, che costringe al confronto.Il rischio più pericoloso per un pensiero del viaggio è considerare la  rottura che il viaggio instaura come semplice rottura, celebrandola,  idolatrandola o condannandola. Ma la rottura è l’alterità che chiama.  Nell’uscita da sé che il viaggio comporta, anche e soprattutto il viaggio  interiore, non si sta nell’apertura se non si risponde all’appello  dell’alterità, all’unicità di un luogo, di una voce, di un volto.
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