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Giuseppe Pulina, Minima Animalia. Piccolo bestiario filosofico.
Mediando, 2005

di Nicola Comerci

Arricchito dalle illustrazioni di Marco Lodola, artista di fama mondiale, tra i fondatori del Nuovo Futurismo, il libro di Pulina offre al lettore diverse chiavi di lettura, a cominciare dal titolo, in cui però, si badi, il richiamo francofortese è puramente nominale.
Ad un primo sguardo infatti il riferimento animalista-filosofico e la scansione dei capitoli (aria-terra-cielo) sembra suggerire l'intenzione dell'autore di analizzare i luoghi in cui i filosofi (ma non solo, considerata la forte presenza comunque filosofica di Leopardi, Pavese, Lorenz, Orwell) hanno utilizzato il mondo animale come bacino simbolico da cui trarre per motivi esplicativi e, dunque, puramente funzionali, immagini utili a chiarire la complessità dell'apparato concettuale che venivano costruendo. Troviamo così Russel che evidenzia la fallacia dell'induttivismo attraverso le peripezie di un tacchino e Nietzsche che tenta di  spiegare l'eterno ritorno attraverso l'immagine del serpente che si morde la coda, fino ad arrivare al coniglio gavagai di Quine partendo dall'interesse di Buridano e di Bruno per la figura dell'asino. Ma non è quella metaforica la chiave di lettura del testo che qui proponiamo.

Al di là di questa lettura immediata che, unita ad un linguaggio «docile» serve ad avvicinare anche i lettori non-specialisti, Minima Animalia invita ad un percorso di riflessione intorno al tema dell'identità umana, che si è riproposto con forza nell'epoca del dissolvimento dei paradigmi critici della modernità. Andando oltre il piano metaforico si nota infatti come nel libro ad essere richiamata è la questione del rapporto dell'uomo con se stesso e con il reale, in particolare con quella parte della realtà alla quale è più vicino, le forme di vita animali. Il discorso ruota così intorno alla tensione verso l'auto-trascendimento proprio dell'uomo riguardo alla sua natura ferina ed alla sua millenaria pretesa di autoaffermazione in una specificità razionale emancipata dalla mera appartenenza al ciclo evolutivo. La razionalità, il tratto distintivo, è stata celebrata dalla cultura filosofica (e non soltanto) in maniera contrastiva rispetto al dato bruto. Il soggetto moderno si è configurato nella sua assolutezza costruttiva e decisionale in opposizione al condizionamento sensibile, l'autonomia rappresentativa ha coperto la passività dell'origine, l'identità umana si è delineata in opposizione alla sua componente animale.
Ma dopo che la contemporaneità ha messo in crisi questa visione, la domanda che si pone è quella della validità di tale operazione di trascendenza: l'uomo può raggiungere se stesso autonegandosi? In un periodo ostile alle affermazioni, la questione che sorge è però quella della funzionalità della negazione: si può veramente pervenire a se stessi negando tanta parte di sé, nello specifico, la componente animale?

Nel libro di Pulina questi temi non vengono dichiarati, ma emergono decisamente nel momento in cui, fin dall'Introduzione, l'autore pone il problema della diversa configurazione dell'alterità dell'oggetto rispetto a quella dell'animale: «l'alterità di un tostapane è anonima. Può dirsi lo stesso per un leone?». Se il procedimento di autoaffermazione dell'identità umana segue la scansione diacritica del trascendimento dell'oggetto e dell'auto-trascendimento della componente animale, oggi più che mai la filosofia è costretta a rivedere le dinamiche di tale movimento di auto-affermazione.
L'interrogativo (eto)filosofico che il libro pone, secondo questa linea di lettura, si intensifica fino a negare la contemporaneità di queste conclusioni, assume la forma di un fiume carsico che ha attraversato nei secoli la riflessione di pensatori diversissimi tra loro e che soltanto adesso ha trovato la forza di emergere in superficie. Se dunque la negazione di un'alterità assoluta dell'animale si propone in Bruno come rovescio della critica alla «sacra asinità» del Cristianesimo, la co-appartenenza dell'uomo agli animali si presenta con forza quando ad essere in questione è la figura del lupo, o meglio del licantropo, che sposta il discorso sull'emergere della bestialità. Il licantropo ha da sempre rappresentato la parte oscura dell'uomo, il suo tratto bestiale che non indica un discrimine ma si pone come segno di appartenenza ad una dimensione comune tanto agli uomini quanto alle bestie.

Una dimensione con cui l'uomo ha dovuto sempre confrontarsi, come emerge dalla figura del capitano Achab intorno al quale Melville costruisce una vera e propria «metafisica del cetaceo». Cosa cerca Achab, «una balena da arpionare o cerca se stesso?». Né l'una né l'altro, secondo una accreditata lettura di Moby Dick che Pulina fa sua, piuttosto «l'occasione giusta per non ritrovarsi più» (p. 66). Achab vuole uccidere la propria componente animale e, così facendo, sa di rendere definitivamente impossibile ogni ricerca di se stesso.
Proprio il dichiarato partito preso per le sorti animali si definisce dunque in Minima animalia attraverso l'individuazione di un percorso comune, al di là di ogni scontato evoluzionismo, tra l'uomo e l'animale, dove il legame tra i due mondi si configura in termini di una responsabilità comune e partecipata all'esperienza di vita, così come emerge dall'incerto volo delle cornacchie di Michelstaedter (al quale Pulina ha già dedicato il suo bel L'imperfetto pessimista. Saggio sul pensiero di Michelstaedter, Poggibonsi, Lalli, 1996), che hanno «pur sempre il grande merito di dimostrare che vivere è un'impresa non meno insidiosa del volare» (p. 80).

PUBBLICATO IL : 28-12-2005
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