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Gerardus Van Der Leeuw, Fenomenologia della religione.
Bollati Boringhieri, 1992

di Paolo Zordan

La Fenomenologia della Religione di Gerardus Van del Leeuw, scrive lo storico delle religioni Alfonso di Nola nella sua presentazione all’edizione italiana del 1992, «è forse l’esito più organico di un indirizo di studi, quello appunto fenomenologico, che ha improntato di sé gran parte della cultura del nostro secolo e che nel campo delle ricerche sulle religioni rappresenta tuttora una delle possibili scelte teoriche fondamentali». Van der Leeuw nato a L’Aia nel 1890, insegnò ebraico al Gymnasium di Doetinchem e fu professore di storia delle religioni, teologia e filosofia egiziana all’università di Groninga dal 1918 al 1950, anno della sua morte. Era anche uomo di chiesa: di confessione cristiana calvinista, fu parroco di ‘s-Heremberg.
Le prime linee del suo pensiero appaiono in Einführung in die Phänomenologie der Religion (1925), per essere poi sistematizzate nel 1933 in Fenomenologia della religione. La seconda edizione del testo, curata dal figlio dopo la morte dell’Autore, raccoglie alcune rielaborazioni che erano apparse già nella versione francese (1948) e completa i riferimenti bibliografici. La tesi fondamentale del lavoro di Van der Leeuw è che l’esperienza vissuta religiosa (religiöses Erlebnis) ha per oggetto qualcosa di diverso, che sorprende. La prima constatazione empirica del fenomeno religioso è del tipo «quest’oggetto esce dall’ordinario», e ciò risulta dalla potenza che l’oggetto sprigiona. Analizzando la nozione religiosa di mana, presente in alcune popolazioni della Polinesia e dell’Oceania, Van der Leeuw precisa alcuni caratteri fondamentali dell’esperienza religiosa: mana indica una potenza, che non è fisica ed in un certo senso è soprannaturale, ma si rivela nella forza fisica della natura e in tutte le capacità possedute dall’uomo. Il mana non risiede in nessun oggetto determinato, ma quasi ogni oggetto può servirgli da veicolo e manifestarlo o trasmetterlo. Così l’esperienza del mana è quella di una potenza “in qualche modo soprannaturale”, del tutto dinamica e sprovvista di particolare carattere etico o spirituale. Inizialmente la potenza non è teorizzata e neppure unificata (esistono molte potenze la cui azione è imprevedibile e si confonde praticamente con quella della natura); successivamente la potenza si specializza (ogni avvenimento possiede una sua potenza specifica) ed insieme il pensiero teorico scopre la sostanziale universalità e regolarità dell’agire della potenza, dando luogo a diverse forme di monismo (il Tao cinese, il Logos stoico ed il Pneuma cristano sono esempi di tale unificazione).
A partire da questa tesi fondamentale l’Autore analizza molti fenomeni legati all’esperienza religiosa, come quelli del feticismo e del totemismo, legati al manifestarsi della potenza nelle cose, quelli di tabù e di timore sacro (tabù indicava originariamente l’attenzione da prestare di fronte all’oggetto carico di potenza, che per tale ragione deve essere tenuto in disparte) e la stessa nozione romana di religio, che deriverebbe dal verbo relegere (osservare, stare attenti, con significato analogo a quello del termine tabù) ed avrebbe indicato l’osservanza rituale nata dal timore persistente della potenza.

Dopo aver analizzato, nella prima parte dell’opera, l’oggetto della religione, Van der Leeuw passa ad analizzare nelle sezioni successive il soggetto della religione, la relazione tra il soggetto e l’oggetto, il rapporto religioso con il mondo ed altre figure tipiche. In queste analisi, che non possiamo qui riassumere per l’ampiezza e la ricchezza dei riferimenti, l’Autore cerca di offrire una tipica dei fenomeni religiosi il più possibile esaustiva, con l’intenzione di non tradire l’estrema eterogeneità del dato storico. Vale la pena di esaminare l’epilogo dell’opera di Van der Leeuw, dove egli chiarisce le premesse metodologiche del suo lavoro e si ferma a considerare, seppure molto in breve, il problema della fenomenologia della religione come tale. La fenomenologia vuole semplicemente attestare ciò che si mostra, il fenomeno; in questo senso Van der Leeuw afferma che per essa «dietro il fenomeno non c’è nulla» (p. 533), al contrario di quanto pretende la metafisica. L’Autore sostiene dunque, richiamandosi a Husserl e soprattutto a Scheler, la necessità di operare una epoché rispetto al dato immediato della realtà empirica.
La manifestazione del fenomeno conoscerebbe delle fasi progressive: inizialmente “relativamente” nascosto, il fenomeno si andrebbe man mano rivelando per giungere infine a “relativa” trasparenza. A questi gradi di trasparenza corrisponderebbero altrettante tappe del vivere soggettivo: dapprima colto nell’esperire vissuto (Erleben), il fenomeno verrebbe successivamente compreso ed infine testimoniato. Nel fissare i caratteri dell’Erleben, l’Autore si richiama esplicitamente a Dilthey, definendolo come «una vita presente che, secondo il mio significato, forma unità» (p. 530); non vita pura e semplice, dunque, ma vita condizionata oggettivamente (l’Erlebnis si riferisce ad un oggetto), alla quale sempre va associato un momento soggettivo di interpretazione. L’Erleben come tale è inafferrabile: «l’esperienza vissuta originaria su cui si fondano le esperienze che noi viviamo è sempre scomparsa inevitabilmente nel passato, già nell’istante in cui la nostra attenzione le si rivolge» (p. 530). Non abbiamo, in altre parole, nessun accesso immediato alla nostra vita intima: in questo senso, chiarisce significativamente Van der Leeuw, l’Erleben di un indigeno primitivo è distante da me appena un poco più dell’esperienza vissuta dieci minuti fa. L’accesso alla vita è possibile solo a posteriori, ricostruttivamente, attraverso la comprensione delle strutture e delle connessioni di senso che articolano il fluire dell’Erleben.

Ma come può la fenomenologia, si domanda l’Autore, occuparsi di religione? Se la religione infatti, in quanto rivelazione di Dio all’uomo (l’“oggetto” della religione è il suo vero soggetto, afferma a più riprese Van der Leeuw) è esperienza dell’assolutamente altro e dunque, in quanto tale, sfugge e si nasconde essenzialmente allo sguardo, come coltivare la fenomenologia dove non vi è fenomeno? Questa condizione antinomica, spiega l’Autore, è in realtà «capitale per tutte le religioni, ma anche essenziale per ogni comprensione» (p. 539). Infatti ogni comprensione fino in fondo cessa di essere tale e riconosce se stessa come compresa da un fondamento diverso, situato oltre il limite. Se mancasse questa comprensione di valore assoluto non ve ne sarebbe nessuna. In altri termini, scrive Van der Leeuw, «ogni comprensione, a qualsiasi oggetto si riferisca, è alla fine religiosa» (p. 539). La fenomenologia dunque, nelle intenzioni dell’Autore, non pretende di sostituire la teologia nel verificare l’autenticità della fede o dell’esperienza religiosa e non cerca di rendere manifesto ciò che per essenza non può esserlo, in quanto rivelato. Essa piuttosto, fedele all’epoché (che in Van der Leeuw non è «l’atteggiamento di un freddo spettatore, ma lo sguardo affettuoso che chi ama volge all’oggetto amato» p. 539) si configura piuttosto come una propedeutica alla rivelazione, un’atteggiamento esistenziale che apre il soggetto all’evidenza e lo prepara così ad accogliere il darsi dell’assolutamente altro.
A distanza di parecchi decenni dalla sua prima edizione, l’opera di Van der Leeuw conserva un valore soprattutto filosofico mentre, dal punto di vista della documentazione storica, A. Di Nola ne denuncia i limiti, che sarebbero dovuti soprattutto ad un’eccessiva astrattezza, legata al tentativo di cogliere i caratteri essenziali dell’esperienza religiosa in quanto tale. Questi stessi limiti denunciati da Di Nola costituiscono invece, secondo altri critici, il pregio del lavoro di Van Der Leeuw, il quale, rimanendo fedele all’impostazione della fenomenologia, riuscirebbe a mostrare “la irriducibilità delle manifestazioni religiose ad atteggiamenti psicologici e socio-culturali” e ad individuare con chiarezza “la permanenza di elementi comuni in esse, nonostante le differenze” (cfr. A. Ales Bello, Culture e religioni. Una lettura fenomenologica, Città Nuova Editrice 1997). In sintesi, la Fenomenologia della religione di Van der Leeuw, che raccoglie e sintetizza influenze di Dilthey, Scheler, Husserl e Otto, rappresenta un classico nell’ambito degli studi sulla fenomenologia della religione e conserva ancora oggi un notevole interesse.

PUBBLICATO IL : 20-10-2005
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