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Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione.
B. Boringhieri, 2003

di Dario Gentili

Governo politico dei processi di globalizzazione”, “globalizzazione dei diritti”, politiche per una “nuova globalizzazione”: sorprendentemente tali affermazioni spesso mettono d’accordo, nei governi e nelle piazze del mondo, parti politiche tra loro anche sostanzialmente diverse se non tradizionalmente avversarie. Quando le sirene del nostro presente ci obbligano a uscire da un ambito esclusivamente tecnico-economico, il “concetto” di globalizzazione rivela tutta la sua allarmante fragilità e trasparenza; eppure, la ridondanza con cui affermazioni di quel genere affollano la comunicazione pubblica evidenzia la necessità di riempire di senso la vuotezza del mero slogan. Ciononostante le formule extra-economiche riguardo la globalizzazione sembrano essere intese dagli orecchi più diversi; certamente la semplicità del messaggio promozionale è in grado di raggiungere tutte le case, ma le vie della riflessione politica non devono sfuggire a una certa complessità se pretendono di diventare effettivamente praticabili: la determinazione della globalizzazione in quanto “concetto” pretende la sua problematizzazione; piuttosto che la facilità della via dritta dello slogan, esige la responsabilità della complessità che costringe a pensare. Filosofia e globalizzazione: non si tratta soltanto di tematizzare e problematizzare filosoficamente la globalizzazione, di costruirne la storia, la genealogia, il lessico, di rintracciare quei rimossi che sono all’origine di ogni conformazione concettuale, ma, anche e soprattutto, di ripensare le categorie tradizionali della filosofia politica alla luce della globalizzazione. Filosofia e globalizzazione: la congiunzione tra i due termini non li lascia intatti, ma istituisce tra i due una “relazione interfacciale” (espressione con la quale è bene fin da subito acquisire una certa dimestichezza), una comunicazione sempre a rischio della prova, che non mira a una conciliante e conciliata quanto effimera filosofia della globalizzazione, che non terrebbe conto anche del carattere disgiuntivo della e, dietro la quale proprio la filosofia nasconderebbe il timore di dover nuovamente legittimare le proprie categorie di fronte al fenomeno disorientante della globalizzazione. Con tali riflessioni siamo già in media re dell’ultimo saggio di Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente, il cui sottotitolo è, appunto, “Filosofia e globalizzazione”. Marramao premette al suo lavoro la consapevolezza delle insidie nascoste nel rapporto tra Filosofia e Globalizzazione, tra il peso storico-concettuale delle categorie filosofiche e, invece, la debolezza categoriale dell’utilizzo extra-economico della globalizzazione, la consapevolezza che a un lavoro di decostruzione delle categorie forti della filosofia deve corrispondere un lavoro di costruzione concettuale nell’ambito della globalizzazione: «Ma qui sorge – per chi non sia disposto ad appaesarsi nella presunta autoevidenza degli idola fori che affollano la comunicazione pubblica – una questione preliminare: in che senso e a quali condizioni il termine globalizzazione è effettivamente in grado di “comprendere” la pletora di fenomeni di cui, con maggiore o minore pertinenza descrittiva, indubbiamente dà conto? E inoltre: l’ambivalenza sottintesa nel suo uso – ora come oggetto d’indagine, dinamica “fattuale” di eventi, ora come criterio metodologico d’interpretazione – non tradisce forse la sua natura di mero slogan, di “parola senza concetto”?» [p. 14]. Sulla scorta di tali premesse sembra quasi obbligata l’organizzazione a “raggiera” che, a detta dello stesso autore, caratterizza i capitoli di Passaggio a Occidente. Il primo capitolo Nostalgia del presente, dopo un’accurata disamina delle posizioni teoriche più importanti ed esemplari sulla globalizzazione, espone la definizione che Marramao fornisce della globalizzazione come passaggio a Occidente; gli altri capitoli individuano le coppie classiche del pensiero occidentale (identità/differenza, necessità/contingenza, politica/diritto, democrazia/comunità, universale/particolare) per destrutturarne l’utilizzo canonico in chiave oppositiva sulla base della concezione della globalizzazione come passaggio e, al contempo, tale procedere riempie e innerva concettualmente la parola globalizzazione.

In Nostalgia del presente, prima di giungere a definire filosoficamente la globalizzazione, Marramao entra nel cuore della questione mediante un’analisi lessicale che prende spunto dall’evidenza che il medesimo fenomeno è reso con due termini diversi: globalizzazione nella cultura anglosassone e mondializzazione nelle lingue romanze. La diversa matrice etimologica, globus e mundus, rende i due termini chiamati a definire lo stesso fenomeno tutt’altro che sinonimi: si istituisce così tra globalizzazione e mondializzazione un campo di tensione che non soltanto complica ogni facile e immediata acquisizione del fenomeno stesso, ma soprattutto, in virtù dei differenti orizzonti simbolici che i due termini evocano, lo rende interrogabile filosoficamente. Infatti, mentre globus apparentemente evoca la finitezza geografica di una Terra ridotta a sfera, finalmente a disposizione tanto di esploratori e cartografi quanto di conquistatori, invece mundus, sulla scorta delle recenti riflessioni dei “francesi” Derrida e Nancy e della sua radice cristiana, denota l’esaurimento di ogni senso extramondano e l’investimento di ogni senso in questo mondo, che quindi «è il senso» [p. 17]. Attenzione, però: da ciò non si può e non si deve evincere che “globalizzazione” è affare di economisti e “mondializzazione” categoria di filosofi, nient’affatto. Marramao è chiaro e puntuale nel sottolineare che entrambi i termini convergono, anche se non certo nel modo della sintesi, nel determinare il medesimo fenomeno: «L’analisi differenziale delle costellazioni di senso dei termini “mondializzazione” e “globalizzazione” – intesi come derivati di mundus e globus – lascia dunque affiorare i diversi profili delle metafisiche influenti che agiscono alle spalle delle rispettive genealogie e “narrative”, come pure le inevitabili contaminazioni reciproche delle loro prognosi. Andare alla radice delle une e delle altre, delle divergenze e delle interferenze, appare una conditio sine qua non per portare-al-concetto il termine globalizzazione senza per questo sacrificarne la ricchezza e polivalenza di significati» [p. 20]. L’analisi dei termini globus e mundus è la prima prova di quella vera e propria “prassi concettuale” che caratterizza il leit-motiv del saggio di Marramao: la “relazione interfacciale” di globalizzazione e mondializzazione individua la loro “radice” comune nel campo di tensione reciproco tra “espansività e compiutezza”, tra scoperta e appropriazione de-finitiva del fuori, che, pur riferendosi ad ambiti simbolici differenti, caratterizza entrambi gli aspetti della globalizzazione. Inoltre, ed è un’interpretazione che dovrebbe ormai esser data per acquisita, la globalizzazione ha una storia filosofica non così recente come quella economica, anzi essa oggi raccoglie storie e narrazioni anche diverse tra loro: in Dämmerung: nel crepuscolo della sovranità, in una tappa del confronto serrato con Carl Schmitt che attraversa tutto il libro, Marramao fornisce un esempio della possibilità che la globalizzazione offre di citare fenomeni estrapolandoli dal loro contesto storico-narrativo di riferimento per attualizzarli nel presente, descrivendo la parabola declinante dello Stato-Leviatano che, sorto con la pace di Westfalia (1648) per “neutralizzare” le diverse e conflittuali “potestà indirette”, oggi tramonta proprio sulla spinta centrifuga di nuove configurazioni economiche, religiose, socio-istituzionali di autonome “potestà indirette”.

Per leggere adeguatamente un “concetto” di globalizzazione che si va internamente complicando, piuttosto che ricorrere alla presunta istanza inventiva del postmoderno, Marramao riattiva la categoria tipicamente moderna della secolarizzazione, con la quale, come è noto, fin dai tempi di Potere e secolarizzazione (1983), ha una certa dimestichezza. Anche in questo caso si tratta di un passaggio fondamentale lungo il percorso di de-tecnicizzazione del concetto di globalizzazione su cui Marramao è in cammino: la secolarizzazione non rappresenta affatto, come Robertson pensa, una categoria non all’altezza del tempo globale, bensì proprio i processi di globalizzazione obbligano a una sua seria revisione e a una sua attualizzazione. Abbandonare il sicuro rifugio della definizione tecnico-economica della globalizzazione per avventurarsi sul terreno minato (non solo in termini metaforici come purtroppo sappiamo) del processo di globalizzazione in ambito politico-culturale comporta il non poter eludere, e la cronaca nazionale e internazionale dimostra la sua assoluta non eludibiltà, la dimensione fortemente simbolica che tale sconfinamento investe. Ribaltando completamente il pregiudizio diffuso a tale riguardo sia tra i suoi sostenitori che tra i suoi avversari, che vorrebbero il processo di globalizzazione volto alla progressiva estinzione della dimensione simbolica, Marramao addebita alla stessa globalizzazione la produzione di nuove identità simboliche come riflesso speculare della espansione omologante della modernità di stampo occidentale. Dunque, lo stesso termine di globalizzazione deve essere reso in modo da comprendere entrambi i vettori, tecno-economico e politico-culturale, che vi interagiscono; globus e mundus, dimensione tecnica e dimensione simbolica, definiscono insieme il campo di tensione della glocalizzazione: «Il glocal si configura, a questo punto, come una coabitazione conflittuale di due linee di tendenza: il trend “sinergico” del globale, rappresentato dal complesso tecnoeconomico e finanziario, e quello “allergico” del locale, rappresentato dalla turbolenza delle differenti culture […]. A partire da qui si producono faglie profonde, linee di frattura conflittuali che, con buona pace di Huntington, non separano le “civiltà” come fossero blocchi identitari omogenei e chiusi in se stessi, ma attraversano piuttosto per vettori interni tutte le società del pianeta: dalle democrazie occidentali allo stesso mondo islamico. E tuttavia, per trasferire la categoria di glocalization dal piano descrittivo a quello concettuale, è necessario un ulteriore passaggio. Il fenomeno non va inteso come una resistenza inerziale di forme comunitarie tradizionali al trend espansivo della modernità […]. Ma al contrario come una vera e propria produzione di località» [pp. 38-39]. Ecco come, a tre secoli e mezzo di distanza dalla pace di Westfalia, la secolarizzazione torna a poter svolgere nuovamente oggi quella essenziale funzione di porre in relazione interfacciale due ordini diversi, garantendo al contempo la loro differenza; a condizione, però, che non sia intesa come una progressiva “desacralizzazione”, piuttosto la secolarizzazione deve tendere a rompere il rigido dualismo tra sacro e profano, tra dimensione simbolica e procedura istituzionale, tra valori e tecnica, rendendo così possibile una sfera pubblica politica dove il conflitto di valori non debba essere “neutralizzato” dal “grande freddo” delle istituzioni dell’universalismo, né l’“incommensurabilità” dei valori debba tradursi nella loro “incomparabilità” secondo la logica monadica dei ghetti contigui: «La secolarizzazione, in altri termini, non comporta una lineare “desacralizzazione”, così come la crisi delle cosiddette centralità (dal Soggetto-Popolo al Soggetto-Stato) non induce necessariamente un’attenuazione o un indebolimento dei meccanismi di identificazione simbolica. […] Mette capo piuttosto a un gioco di specchi in cui l’uno tende ad assumere le prerogative dell’altro: la Chiesa si “statalizza” (assumendo i caratteri della centralizzazione e razionalizzazione burocratica) e lo Stato si “ecclesiasticizza” (incrementando le proprie caratteristiche sacrali e ritualizzando le proprie procedure)» [p. 189]. Soltanto se si tiene ben salda sul cardine della secolarizzazione, la porta del passaggio a Occidente può essere aperta e attraversata in modo che da entrambe le direzioni il passaggio sia zona di trasformazione e svolta, come Marramao indica nello spiegare il titolo del suo libro: «Una volta che ci saremo lasciati alle spalle la discordia concors tra la tesi dell’omologazione individualistico-mercantile e la tesi dello scontro tra civiltà, la globalizzazione si presenterà nei suoi caratteri effettivi: non come “occidentalizzazione del mondo” […] e neppure come mera “deoccidentalizzazione” e “desecolarizzazione”, ma come passaggio a Occidente di tutte le culture – come un transito verso la modernità destinato a produrre trasformazioni profonde nell’economia, nella società, negli stili di vita e nei codici di comportamento non solo delle civiltà “altre” ma della stessa civiltà occidentale» [p. 24].

Avviandoci alla conclusione, diventa essenziale evidenziare le ripercussioni sul piano più tradizionalmente filosofico che la globalizzazione “portata-a-concetto” come glocalizzazione necessariamente comporta. Il concetto filosofico, che ostinatamente ritorna nei contesti più diversi che ogni capitolo di Passaggio a Occidente descrive, è quello di differenza. Come Marramao giustamente sottolinea, la metafisica occidentale ha pensato con insistenza non solo l’identità, ma anche la differenza, eppure, anche quando non l’ha pensata come un “accidente” da superare nell’identità, ha sempre sussunto la differenza sotto il paradigma dell’unità: «Come intendere, dunque, la differenza? Differenza non come negatività dialettica, e neanche come mero rovescio della logica identitaria. Ma differenza come cifra della inidentificabilità dell’essere. L’essere non tollera identificazioni, non ha carta d’identità. Se è vero che quello strano complesso di accadimenti che chiamiamo “mondo” è, in quanto eventualità, fatto di differenze, ne consegue allora che le differenze non identificano mai l’essere, ma appunto sempre lo differenziano» [p. 215]. Mentre le riflessioni più recenti del pensiero femminista offrono un contributo decisivo nel pensare la differenza, un pensatore postmetafisico quale Habermas non avrebbe evitato uno strascico di metafisica proprio nel fondare la sua teoria dell’agire comunicativo tra culture diverse su ciò che esse hanno “in comune”, cercando così di neutralizzarne le differenze. Al contrario di Habermas, la proposta di Marramao consiste nel pensare la democrazia come comunità dei senza-comunità, dunque non soltanto come luogo dell’accordo, ma anche e soprattutto come tutela del conflitto in quanto è proprio nel conflitto di identità che avviene il riconoscimento delle differenze. A una condizione, però: che il conflitto democratico avvenga sempre sulla soglia del passaggio a Occidente, che impone a ogni identità il sentirsi di passaggio, contingente. Questa è una questione sulla quale, forse, vale la pena di insistere: il passaggio a Occidente non deve essere oltre-passato in direzione di quell’isola lontana dal mondo che è Utopia, prototipo di ogni “realizzazione del virtuale”, a cui Marramao contrappone la “virtualizzazione del reale” di chi rimette la propria identità alla contingenza, di chi resta sul “confine” del passaggio.

“Governo politico dei processi di globalizzazione”: oltre un ovvio significato tecnico-istituzionale relativo al significato tecnico-economico della globalizzazione, che senso filosofico avrebbe tale espressione? In breve: quale politica per la glocalizzazione? Lungo tutto il suo libro, anche dove non è esplicitamente tematizzata, Marramao non distrae mai la sua riflessione dalla “questione del politico”, che rappresenta la traccia sotterranea di Passaggio a Occidente e di questa nostra interpretazione. Dove non appare direttamente tematizzato, il politico rappresenta il “criterio” delle analisi di Marramao, reso esplicito nel denso ed estremamente stimolante capitolo dedicato a Carl Schmitt, L’esilio del Nomos. Carl Schmitt e la globale Zeit. Sulla scorta di Schmitt, Marramao non solo afferma che il politico deve essere distinto dallo statuale, dunque non può esaurirsi nella definizione di procedure tecnico-istituzionali, ma, in ambito simbolico, “politico” è il criterio del “dirimere” e del “dividere”: «Il “politico” non può essere circoscritto, confinato, topologicamente delimitato: anche se la dimensione spaziale ne costituisce, come vedremo, uno dei principali correlati. Può essere soltanto temporaneamente “localizzato” nelle dimensioni o forme determinate in cui, di volta in volta, storicamente si manifesta. Esso è infatti, stricto sensu, un “criterio”: un’attitudine che si esplica […] non nel rifondare e nel ricomporre, ma nel dirimere, nel dividere» [p. 133]. Dividere, dunque, ogni posizione identitaria in se stessa, producendo in essa una in-tensificazione, una tensione interna che determini le differenze confliggenti come “costitutive” di ogni identità: è chiaro adesso come Passaggio a Occidente sia un libro “politico”. Eppure la strada da percorrere per giungere a un produttivo “governo politico dei processi di glocalizzazione” resta ancora lunga e tortuosa. Marramao è consapevole che la glocalizzazione problematizza in modo dirimente proprio il politico, nel senso, ci sembra, della necessità di andare con Schmitt oltre Schmitt. Con Schmitt nell’esigenza di attivare uno spazio politico della globalizzazione, oltre Schmitt nel senso del bisogno di una riflessione radicale su tale “dimensione spaziale”, affinché il politico sia pensabile e gestibile senza terra: uno “spazio” che non sia esclusivamente la premessa a forme di territorializzazione extrastatali del globale, ma sempre e comunque zona di passaggio.

PUBBLICATO IL : 07-02-2005
@ SCRIVI A Dario Gentili
 

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