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Cesare Garboli, La pianuta proibita.
Adelphi, 2002

di Daniele Mastrangelo

L’ultima raccolta di saggi che Cesare Garboli licenziò alle stampe prima di morire rivela a lettura conclusa l’andamento di un percorso narrativo. Accade come se dopo la lettura dell’ultimo saggio, quello che da il titolo all’opera, i precedenti si trovassero ad essere trasfigurati nella funzione di personaggi: quasi come dei compagni di strada in cui si imbatte il protagonista di un immaginario Bildungsroman. Abbiamo persino la possibilità di collocarli scenograficamente in uno spazio, la ‘pianura proibita’ del titolo, dove domina un tempo non cronologico ma che con esso pur tuttavia concorre, una sorta di presente parallelo evocato per dare a destini incompiuti compimento e per riportare la funzione dell’immaginario letterario alla sua radice patologica.


La possibilità di ripensare questo testo dove del resto ogni saggio può esser fruito nella sua autonomia, attraverso uno schema narrativo, non fa che riproporre quell’alternativa fra critico e scrittore rispetto alla quale e per l’irriducibilità ad essa, l’opera di Garboli va compresa.
Dunque, anzitutto, non ci troviamo difronte ad un critico. Perché? Dovremmo sapere a questo pun- to che cos’è un critico letterario e, per far questo, ancor prima poter rispondere alla domanda su che cosa sia la letteratura. Chi scrive non è in grado di rispondere a nessuna di queste domande, più facile gli viene togliersi dall’impiccio presentando l’immagine shakespeariana di Jago, il quale, chiamato a cantare le lodi di Desdemona da Cassio, declina dicendo di non esser ‘altro che un critico’. Eppure egli conosce meglio di Otello e di tutti gli altri personaggi del dramma, la purezza della donna, tanto più pura quanto più inconsapevole del male che, come una tela di ragno, inesorabile aggredirà il suo destino.
Ecco, possiamo immaginare che Garboli abbia vissuto dentro di se l’incapacità di Jago e che, per osservare la purezza, abbia riconosciuto il suo occhio non essere altrettanto ‘puro’. Ancor prima che per questioni di metodo, dovrebbe dirsi psicologico il suo rifiuto della critica. A Garboli interessa piuttosto che riconoscere in uno scrittore o in un poeta i segni del bello, la gioia dell’espressione, andare invece alla radice di quell’infezione misteriosa, di quel male incurabile che, se da un lato proietta sul vivere insufficienza o perfino sazietà, è alla radice della letteratura: «si scrive quando la gioia e il desiderio di vivere non basta. E’ la triste novità che abbiamo imparato dal secolo appena trascorso. Si scrive quando e perché si è malati» (p.167). La sua non è stata una vocazione critica ma una vocazione diagnostica.


Da qui nasce la predilezione accordata a quegli autori del Novecento conosciuti direttamente, che sono stati compagni di strada, interlocutori e destinatari di più d’uno dei suoi ‘scritti servili’ (così infatti si intitola un’altra raccolta di saggi uscita per l’Einaudi nel 1989) e che qui in buona parte ritroviamo.
Soldati, Calvino, Parise, La Capria, Longhi e Anna Banti, Bassani sono gli autori-personaggi che impariamo a scoprire in queste interpretazioni e sono sempre autori e sempre personaggi insieme, essendo tenute l’una a fronte dell’altra l’opera e la vita. Con uguale forza Garboli respinge tanto l’idea dell’analisi di un testo come un organismo autoreferenziale senza autore tanto quella deterministica per la quale l’opera altro non è che un riflesso speculare dell’esistenza.
Ciò che a Garboli interessa è quanto sia di un’opera che di un autore viene minacciato dal silenzio o sommerso sotto il peso del tempo. Non si tratta solo di ciò che è stato dimenticato ma anche e soprattutto di quelle possibilità che la realtà nel suo farsi testo o vissuto, ha lasciato accantonate come un guscio morto. Esse richiedono allo sguardo del critico che ceda la sua prospettiva a quella del testimone. Così Garboli si trovava a condividere con la professione dello storico, la lotta contro la forza erosiva del tempo.
Ma al di là di queste affinità diversa era la materia del passato cui egli aveva scelto di rivolgersi: ci si dovrebbe immaginare di poter estendere la categoria dell’inconscio dall’individuo alla storia e parlare di qualcosa di residuale, un detrito, quel guscio troppo segreto per essere un fatto, piuttosto da evocare e raccontare che da documentare e rispetto al quale la capacità fantastica non poteva esser sacrificata.


Così dallo sguardo dello storico si ritorna a quello dello scrittore. Garboli voleva essere un testimone ma mai avrebbe potuto abbracciare la professione dello storico, troppo profonda era infatti la diffidenza che egli nutriva verso questa professione, una diffidenza che nasceva dal luogo fisico e mentale dove la suo formazione intellettuale si era compiuta: l’Università di Roma e lo storicismo.
Da quanto finora si è detto, particolarmente interessante risulterà allora al lettore veder affrontare il problema della conoscibilità della storia secondo un punto di vista filosofico che da Croce e Gentile arriva fino alle tesi di assimilazione della storia a retorica sviluppatesi nella cultura anglosassone.
Non alla critica, né alla letteratura, né alla storia infine l’autore accorda la sua vocazione e tanto più forte è la sensibilità con cui i personaggi di questa narrazione ci vengono presentati, più aumenta l’impressione di trovarci difronte ad una esperienza solitaria e di solitudine.
Nell’ultimo saggio Garboli immagina se stesso disceso dall’alta montagna e dalla rigidità dei suoi inverni, dal pericolo degli strapiombi e delle bufere di neve. Ora ha davanti a se quella pianura proibita che gli arabi immaginavano per rappresentare lo stile di una scrittura semplice , aderente al reale e meravigliata della raccontabilità del mondo. Piuttosto che ricordarci la freschezza di ciò che è appena nato, questo stile sa per noi di congedo: da quella pianura non ci giunge voce.

PUBBLICATO IL : 01-01-2005
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