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Pietro Montani, L'immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile.
Laterza, 2010

di Marie Rebecchi

     Il presente saggio di Pietro Montani può essere collocato nella prospettiva già indicata nelle conclusioni del suo penultimo lavoro intitolato Bioestetica: proprio in questo testo Montani aveva individuato nell'idea di «immagine intermediale» una possibile risposta alla questione posta dalla necessità di «rigenerare e testimoniare il fuori campo dell'immagine» (Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell'età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, p. 109), nel tentativo di recuperare l'irriducibile differenza tra l'immagine e il mondo. Se Bioestetica si conclude orientando la riflessione sul "destino delle arti" verso un orizzonte di convergenza tra un'«etica della forma» e un paradigma «intermediale», la proposta di Montani in questo suo ultimo lavoro è quella d'indirizzare l'«etica della forma» verso un'«etica dell'autenticazione».

     Il testo prende le mosse da un preciso episodio e, segnatamente, dall'interrogativo che Montani stesso si pone di fronte alla necessità di rendere conto di un qualcosa di «oscuro e ambivalente» nella propria reazione dinnanzi al tentativo – spesso confuso, convenzionale e inadeguato – da parte delle principali reti televisive di documentare l'orrore del massacro, eseguito da un commando di terroristi armati, avvenuto nella scuola di Beslan il 1° settembre del 2004. Per quale motivo le immagini della strage di Beslan, seppur tragicamente dense di pathos, non sono sufficienti «a definire la loro natura testimoniale» (p. IX)? Montani osserva come queste immagini – in particolare la foto di un bambino stretto al suo soccorritore, ferito e ricoperto del sangue di altri corpi straziati –, più che riflettere la loro impronta documentale, ci rivolgono la richiesta di non di non rimanere inchiodati di fronte all'assolutezza del loro carattere patetico: queste immagini esigono infatti che le condizioni stesse della loro testimoniabilità siano messe in questione. L'esigenza testimoniale dettata da queste immagini apre dunque a un lavoro di riorganizzazione e di «elaborazione» – concetto utilizzato da Montani secondo l'accezione freudiana di Durcharbeitung che, nell'etimo tedesco, indica per l'appunto un lavoro di attraversamento, un processo elaborativo – dei documenti stessi della strage. Attraversando le immagini nel tentativo di costruire una struttura «intermediale» in grado di adoperare al meglio il lavoro "critico" di un'immaginazione tecnicamente orientata – intesa al contempo come facoltà del soggetto e dispositivo che produce effetti di soggettivazione – è possibile mettere in atto quel processo di elaborazione delle immagini a cui Montani dà il nome di «autenticazione», insistendo a più riprese nel differenziare questo concetto da quello di «autenticità» dell'immagine (p. XIV). L'uso che Montani fa del concetto di intermedialità si distanzia dunque in modo netto dall'approccio mediologico che ne viene fatto nell'ambito di studi specialistici, privilegiando piuttosto il contributo che tale concetto può fornire a un'argomentazione filosofica.

     In questo saggio, come già nel precedente Bioestetica, l'immagine cinematografica viene indicata come il referente più appropriato per indagare le risorse di un'«immaginazione intermediale»: è proprio attraverso un film – Nella Valle di Elah di Paul Haggis (2007) – che Montani inizia infatti a raccogliere gli elementi necessari per mettere a lavoro la sua proposta teorica. Il film di Haggis rilancia infatti, in modo estremamente efficace, la questione della necessità di restituire dignità testimoniale a quella che a tutta prima appare solo come una traccia indeterminata, un documento illeggibile di un atto abominevole consumato durante la guerra in Iraq. È proprio a partire da questo «compito etico» (p. 6) segnalato dalla richiesta di testimonianza a cui il film dà voce che, forse, è possibile riattualizzare, in un'immagine dialettica, l'eco di quelle "voci mute" di cui Walter Benjamin a sua volta rende testimonianza nella seconda delle Tesi di filosofia della storia, in cui «risuona ineliminabile l'idea di redenzione» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 23). Attorno alla riflessione sulla natura etica del lavoro testimoniale che i processi di autenticazione delle immagini comportano e sulla centralità del debito delle immagini nei confronti della realtà, si articola l'aspetto più interessante e originale della proposta di Montani. Nel tentare di mantenere viva la resistenza della realtà nei confronti della paradossale immediatezza e trasparenza propria del carattere "saturante" delle immagini ipermediali (che caratterizzano ad esempio la "realtà virtuale"), occorre rivolgersi al fenomeno della «ri-mediazione» che Montani definisce – esemplificandolo attraverso una sequenza del film di Michael Moore Fahrenheit 9/11 (2004) – nei termini di «un gioco esplicito tra le diverse forme mediali, che si fanno sentire nella loro opacità, al fine di sollecitare nello spettatore una riflessione sulla irriducibile alterità del rappresentato, sul suo irriducibile differire» (p. 13). Nella sequenza iniziale del film Moore oscura le immagini dell'attacco alle Torri Gemelle e affida al sonoro – dunque a una diversa espressione dell'immagine audiovisiva – il compito di testimoniare la realtà dell'evento. In questo modo il regista mette in atto una sorta di movimento iconoclasta che non neutralizza gli effetti della mediazione ma, mettendo in atto un processo di «ri-mediazione» reso possibile attraverso la relazione tra differenti forme mediali, consente di riattivare nello spettatore un atteggiamento critico teso a cogliere l'ineliminabile differire della realtà rispetto alle sue mediazioni. A questo proposito, Montani discute in modo approfondito il concetto di ri-mediazione esaminando attentamente le conseguenze «politiche» e «pragmatiche» (p. 10) messe in evidenza dallo studio di Bolter e Grusin intitolato Remediation. Understanding New Media (trad it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini, Milano 2002).

     Il terreno d'azione dell'immaginazione intermediale, intesa come tecnica di rifigurazione, autenticazione e ri-realizzazione del mondo, è dunque lo spazio che si articola nell'interlocuzione tra diverse forme mediali. L'immaginazione intermediale, riabilitando la relazione tra l'immagine e la sua alterità irriducibile – ovvero il mondo –, individua nel rapporto differenziale tra i diversi formati tecnici dell'immagine (ottico/digitale) o tra le diverse forme discorsive (finzionale/documentale), uno spazio critico in cui è possibile rendere testimonianza dello scarto e del disaccordo che si dà tra le immagini e la realtà. Ma l'interrogativo inaggirabile che Montani si pone a questo punto della sua riflessione è il seguente: in che modo è possibile autenticare le immagini in un mondo «intuito tecnicamente» e indifferente nei confronti della portata referenziale dell'immagini stesse? Montani afferma che in un regime di «indifferenza referenziale» (p. 23), in cui il riferimento si esercita in un mondo la cui alterità risulta sempre più processata mediaticamente, l'autenticazione dell'immagine deve avvenire, in primo luogo, contrastando le conseguenze di una possibile «derealizzazione anestetica» (p. 23) che comporterebbe l'eliminazione di ogni traccia di differenza tra il mondo e l'immagine. L'idea di Montani è quella di provare a rintracciare questa differenza nel rapporto stesso tra le immagini «o meglio tra le diverse componenti mediali e i differenti formati tecnici dell'immagine audiovisiva» (p. 24): questa dimensione che si apre nella relazione tra suono e immagine è definita dall'autore «montaggio intermediale». Montani segnala come questo concetto di fondamentale importanza affonda le sue radici nell'idea di «montaggio verticale», teorizzato da Sergej M. Ejzenštejn in uno scritto del 1940 e basato sul paradigma audiovisivo: il «più alto stadio» del montaggio (cfr. S. M. Ejzenštejn, «Il montaggio verticale», in Il Montaggio, Marsilio, Venezia 1992, pp. 129-215). Il montaggio intermediale deve, quindi, nella prospettiva di Montani, non solo riorganizzare il rapporto audiovisivo, ma, soprattutto, innescare un movimento di attestazione e autenticazione dell'immagine. E proprio in questa direzione Montani compie un'attenta analisi del film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte (2003), che si articola giust'appunto in un terreno espressivo dai confini estremamente permeabili, in cui il piano documentale, intrecciandosi ininterrottamente con quello finzionale, crea uno spazio intermedio in cui l'esplicita istanza "visionaria" si configura come l'occasione per rendere testimonianza dei fatti storici collegati all'assassinio di Aldo Moro. Se in questo caso il debito dell'immaginazione intermediale nei confronti della realtà è espresso "creativamente" attraverso un «azzardo testimoniale», nel film di Lars von Trier, Le 5 variazioni (2003), invece, il debito apre le porte a quella che Montani definisce un'«etica degli spazi intermedi» (p. 47), in cui l'immaginazione intermediale, ostentando la sua fallibilità nel saldare questo debito di testimonianza, dichiara anche la sua incapacità di sublimarlo esteticamente.

     Un'altra componente fondamentale della riflessione condotta in questo saggio – a cui è dedicato il terzo capitolo – è quella della «riflessività»: «L'intermedialità rientra nel più ampio campo d'azione della riflessività» (p. 49). La riflessività delle immagini è un concetto che si dispiega necessariamente su un terreno aporetico e riguarda in modo specifico le opere d'arte: da un punto di vista "transitivo", la riflessività può essere in grado di determinare un movimento di ritorno dell'immagine su stessa – che Montani definisce nei termini di autoriflessività –, attraverso cui è possibile verificare un ampliamento della prestazione referenziale; in una prospettiva "intransitiva", invece, la riflessività può addirittura neutralizzare il riferimento, circoscrivendo l'immagine in una condizione di autoreferenzialità. È pertanto necessario che l'immagine mantenga, da un lato, un elemento di autoriflessività che ne garantisce l'indipendenza e l'autonomia dall'omologazione del "riprodotto", e, dall'altro, la possibilità di riferirsi al mondo. Nel carattere duplice e ambivalente di questo «sdoppiamento riflessivo» (p. 58) Montani riconosce un «fatto estetico» di natura fenomenologica, indagato con grande perizia da Merleau-Ponty nelle sue ultime opere (in particolare L'occhio e lo spirito e Il visibile e l'invisibile). Per potersi riferire al mondo l'immagine non deve, dunque, mai perdere la propria autonomia: è proprio in virtù di un elemento di autoriflessività che l'arte può esercitare il compito di rifigurare e ri-estetizzare la realtà. Ora, secondo Montani, il problema posto dall'arte contemporanea – dalle avanguardie storiche in poi – è individuabile  proprio nella piega autoreferenziale e "anestetica" che progressivamente questa è andata assumendo dai primi ready-made duchampiani al Brillo Box (1964) di Andy Warhol. È lecito, infatti, domandarsi se oggi l'arte sia ancora in grado di parlare del mondo, o se ormai può presentare solo una teoria di se stessa, non riferendosi più al mondo in generale ma solo ed esclusivamente al "mondo dell'arte". A questo proposito, sottolineando il debito nei confronti della lezione di Emilio Garroni, Montani precisa cosa intenda per estetica: non una "filosofia dell'arte", bensì una riflessione critica sul senso e sulla sensibilità. Se l'estetica si costituisce dunque come una «riflessione non specializzata sul senso e sulla sensibilità» (E. Garroni, Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1995), l'arte può configurarsi come il suo interlocutore privilegiato solamente a patto che, da un lato, essa abbia qualcosa da dire sulle condizioni generali dell'esperienza e, dall'altro, sentendosi in debito con il mondo, assuma un'intonazione etica del sentire.

     Per Montani non bisogna, quindi, cedere né alla «vulgata post-moderna» (p. 22) – su tutti Baudrillard e la teoria del simulacro come impostura, secondo cui la realtà stessa è completamente immersa in una sorta di "bolla simulacrale" da cui è impossibile evadere –, né illudersi che le immagini possano avere una presa diretta, immediata e "autentica" sul mondo. È dunque necessario aprire uno spazio intermedio affinché possa darsi un'etica dell'autenticazione nell'esercizio di quella che viene efficacemente definita nei termini di una «creatività debitoria». In questo modo è possibile riabilitare la relazione tra l'immagine e il mondo, intercettando nel "libero gioco" tra le differenti forme mediali uno spazio critico in cui l'immaginazione può esercitarsi «sul piano di una libera elaborazione creativa. Libera e, insieme, "debitoria"» (p. 37). Procedere verso il «fuori campo» dell'immagine della strage di Beslan, con cui il testo circolarmente si apre e si chiude, e accogliere la richiesta di autenticazione che questa ci rivolge, è il lavoro interminabile che la proposta di Montani ci invita a compiere, noi stessi in prima persona.

PUBBLICATO IL : 13-05-2011
@ SCRIVI A Marie Rebecchi
 

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