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Lev Tolstoj, Che cos’č l’arte?.
Donzelli, 2010

di Dario Cecchi

Il 2010 è stato un anno ricco di ripubblicazioni per l’estetica. Ne citiamo due, che ci sembrano particolarmente significative del clima che si va sviluppando negli ultimi anni negli studi estetici: Che cos’è l’arte? di Lev Tolstoj, apparso nella classica traduzione di Filippo Frassati e con un’Introduzione di Pietro Montani per i tipi della Donzelli, e Creatività di Emilio Garroni, un saggio originariamente apparso – parliamo della metà degli anni settante – come (ampia) voce dell’Enciclopedia Einaudi e ora riproposto da Quodlibet introdotto da Paolo Virno. Un importante impulso alla ripubblicazione delle opere di Garroni lo sta dando la Cattedra Internazionale “Emilio Garroni” (CIEG), un’associazione nata all’indomani della morte dello studioso per volontà della famiglia, degli allievi e di alcuni amici e colleghi, intenzionati a portare avanti in modo aperto e non “antiquario” l’eredità filosofica e culturale di Garroni.

Il primo saggio, quello tolstoiano, consiste in una dura e penetrante requisitoria dei valori estetici dominanti all’epoca del grande scrittore. L’arte, secondo Tolstoj, si è trasformata nei secoli nel gioco raffinato delle classi superiori, a discapito della funzione originaria dell’arte. Tolstoj conduce la sua critica concentrandosi su due categorie capitali per l’estetica moderna: quella di bellezza e quella di piacere. Il fatto che si sia identificato il problema dell’arte con quello della bellezza, mentre il suo effetto è stato ritrovato nel dar piacere allo spettatore, costituisce il “crimine” dell’arte moderna, colpevole di aver “deviato” dai suoi compiti autentici. Nella sua Introduzione, Montani fa notare la pericolosità del linguaggio tolstoiano, soprattutto alla luce delle politiche artistiche dei totalitarismi del Novecento, che hanno variamente applicato l’etichetta di “arte degenerata” o “deviante” a seconda dell’opportunità politica del momento.
L’Introduzione di Montani ci permette in effetti di cogliere il senso migliore e più attuale del discorso tolstoiano, sfrondandolo da prese di posizione polemiche a tratti del tutto insostenibili. La critica alle categorie di bellezza e di piacere, prese in prestito dal discorso estetico dagli ambiti dell’attrazione fisica e amorosa, ci mostra il cul de sac verso cui l’atteggiamento moderno nei confronti dell’arte ci ha condotto. Se bellezza e piacere sono le pietre di paragone attraverso cui giudicare l’arte questa non potrà che essere un’attività completamente distaccata dal mondo della vita e non potrà che costituire per pochi eletti, introdotti in questo mondo parallelo che è il mondo dell’arte.
Non si tratta nemmeno di ricondurre il bello alla famigerata triade insieme con il buono e il vero, come una recensione forse troppo affrettata di Goffredo Fofi apparsa sul numero di Internazionale del 8 ottobre lascerebbe credere. L’arte è estranea tanto alla bellezza quanto alla verità, almeno alla verità come la intende Tolstoj, ossia come adaequatio rei et intellectus. A che cosa si riferisce l’arte, allora? Lev Tolstoj non ha dubbi: l’arte è affare del bene, è una questione etica. Nell’argomentazione tolstoiana si possono leggere echi dell’antica concezione dell’arte come sapere tecnico-pratico, come sare-fare: in questo caso il buono contenuto in un’opera dell’arte/tecnica corrispondeva alla buona riuscita dell’operazione tecnica che lo ha prodotto o alla prestazione che diveniamo capaci di eseguire dopo aver ricevuto un addestramento.
Non è un’idea del tutto estranea alla riflessione estetica: in Kant si avverte ancora la traccia di questo modo di concepire l’arte. Heidegger ha dedicato un grande spazio nella sua riflessione a comprendere questo senso originario della tecnica (per interpretare poi la tecnica in senso moderno). Il ruolo giocato dall’apprendimento e dall’addestramento specialistico nell’esperienza estetica in Dewey, non a caso filosofo e psicologo, è centrale. Tolstoj vuole però condurci altrove, verso un esito apertamente etico della bontà artistica. Entrambi gli aspetti vanno considerati però, se non si vuole scambiare la posizione tolstoiana per un ritorno alla metafisica che l’autore non sposerebbe.
L’arte è, per Tolstoj, organo di espressione e comunicazione del sentimento al pari del linguaggio, che è organo di espressione dei pensieri. Ecco un primo senso da attribuire al termine “buono” se espresso come valutazione dell’arte: l’arte “buona” è l’arte che soddisfa l’esigenza di espressione e comunicazione dei nuovi sentimenti provati dall’artista. È un’accezione funzionalista dell’arte: la buona arte estende, intensifica e rinnova “l’attività sentimentale” dell’uomo, perché la de-soggettivizza, le apre un orizzonte di condivisione e la trasforma in qualcosa di simile al linguaggio, ossia qualcosa di comune.
C’è però un secondo senso che la relazione tra arte e bene deve avere. Secondo Tolstoj, l’arte deve permetterci di comunicare e condividere questo o quel sentimento soggettivo: al contrario, l’arte esprime il sentire di un intero popolo. Questa secondo modo di intendere la bontà dell’arte ci fa compiere un notevole passo in avanti. Scopo dell’arte è esprimere, comunicare e rafforzare, ma soprattutto creare quei legami comunitari che determinano l’identità di un popolo in una data epoca. In questo senso, per Tolstoj l’arte è parte integrante della religione (si pensi alla possibile etimologia della religione come religare).
Sembra che Tolstoj non volia compiere però l’ultimo passaggio naturale della sua argomentazione. Va aggiunto un elemento per comprendere questa tesi sul saggio tolstoiano. Mano a mano che il saggio procede, la critica si raddoppia: imputata non è solo l’arte raffinata delle classi elevate. Accanto ad essa emerge un secondo colpevole della deriva dell’arte moderna: la religione istituzionalizzata, ufficiale, che Tolstoj chiama ecclesiastica. Ad essa dobbiamo il raffreddamento del vivo sentimento religioso nel popolo. Ad essa dobbiamo la sottomissione dell’arte non più alla comunicazione di autentici sentimenti religiosi popolari, ma alle esigenze di un culto pomposo e complicato che è il fratello gemello dell’arte “puro gioco di società” delle classi dominanti.
Ma dov’è questa religione “pura”? Leggendo il saggio di Tolstoj, che qui rinnova la sua fede in un cristianesimo delle origini, concorde con la sua visione sociale e umanistica, si ha l’impressione che questo cristianesimo precedente all’istituzione di qualsivoglia chiesa esista solo nelle teorie di Tolstoj. Non si tratta necessariamente di un demerito: abbiamo già detto che il saggio è più efficace se si rinuncia a leggere la storia (artistica e non) attraverso esso. Ma nel saggio di Tolstoj manca il pieno riconoscimento che ciò che l’autore ama vagheggiare in un passato mitico è piuttosto il germe di una nuova prospettiva (umana, etica, artistica). In questo senso, che resta per così dire implicito nella lettera del testo, si nasconde il suo senso più profondo.

Creatività di Garroni, un classico più recente nell’orizzonte degli studi estetici, presenta una prospettiva, non solo più interna allo statuto e ai modelli della riflessione estetica, ma anche più moderna e apert all’incontro con le scienze. Cone sottolinea nella sua bella Introduzione Paolo Virno, l’eredità più attuale di questo saggio di Garroni, apparso negli anni settanta sull’Enciclopedia Einaudi, è quella di ricollocare il nostro interesse per l’uomo in una cornice biologica: Creatività oggi sarebbe certamente considerato un saggio di antropologia filosofica, dedicato all’“animale umano” e al valore caratterizzante per l’identità umana che hanno alcune prestazioni “creative”, che la tradizione occidentale ha poi ricondotto sotto l’alveo dell’estetico.
Dietro la riflessione di Garroni c’è ovviamente il Kant della terza Critica: si tratta però di un Kant profondamente ripensato alla luce dei risultati della linguistica (Chomsky) e della paletnologia (Leroi-Gourhan). Ripercorriamo in sintesi la tesi di Garroni. La creatività non è in sé un tratto caratterizzante dell’animale umano, come una troppo rapida traduzione dei nostri valori umanistici in ambito biologico potrebbe lasciar credere. Anche gli animali non-umani presentano tratti di creatività: alcuni primati si servono di rudimentali strumenti (rametti secchi di alberi, per esempio) per procurarsi cibo, oppure sono capaci di interrompere un’azione dettata dall’istinto (per esempio deglutire il cibo) se questa azione comporta un danno a un’altra funzione vitale (per esempio tenere il proprio cucciolo con la bocca per proteggerlo). Tutti questi aspetti di “pensiero creativo” animale mancano però di una condizione che si presenta solo nell’uomo: l’uomo è l’unico animale a produrre strumenti in vista della produzione di altri strumenti. In altre parole, l’uomo è capace di un distanziamento dall’assolvimento diretto dei propri bisogno non solo quantitativamente maggiore rispetto agli altri animali, ma anche qualitativamente diverso.
In questo modo Garroni reinterpreta alcune fondamentali categorie estetiche, come quella del disinteresse: nel quadro teorico garroniano – ma si tratta non solo di una nuova interpretazione, ma di un’interpretazione che fa piazza pulita con un equivoco molto radicato – il disinteresse non determina più il fatto che ciò che giudichiamo bello bel giudizio di gusto deve risultare privo di qualsiasi concreto ancoraggio nell’esperienza, pena l’apparizione di “attrattive” che “sporcherebbero” il giudizio. Al contrario, si tratta del risultato, altamente “culturalizzato”, di una prestazione tipicamente: quella del distanziamento dai bisogni attuali per una migliore e più feconda organizzazione dell’esperienza e della nostra capacità di operare nell’esperienza.
Questo mi sembra l’aspetto più interessante e meritevole di attenzione in questo saggio di Garroni, soprattutto in vista della ridefinizione dei contorni di dibattiti come quella attorno al confine tra natura e cultura. Anche una recente recensione di questo saggio pubblicata da Anna Li Vigni sul Domenicale del Sole 24 Ore punta giustamente l’attenzione su questo problema: possiamo interpretare Creatività di Garroni come un saggio di biologia filosofica, o dobbiamo avere un approccio più sfumato e sfaccettato a un testo del genere? Credo che si possa dire che Garroni suggerisce innanzitutto una risposta metodologica fondamentale alla domanda “dove finisce la natura e dove inizia la cultura?”: questa domanda non si può più porre se accettiamo l’impostazione critica di Garroni. Piuttosto dobbiamo chiederci come natura e cultura interagiscono tra loro e fino a che punto possiamo distinguere cià che è naturale e ciò che culturale nell’uomo.

In questo spazio intermedio, che non si costituisce da sé ma solo nell’attraversamento reciproco di istanze culturale e naturali, dobbiamo cercare anche un’area di particolare interesse per la riflessione filosofica.
PUBBLICATO IL : 29-11-2010
@ SCRIVI A Dario Cecchi
 

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