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Vincenzo Costa, Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger.
Jaca Book, Milano, 2006

di Alberto Gualandi

Cinquant’anni di analisi e interpretazioni approfondite non hanno in sostanza mutato il fatto seguente: il pensiero di Heidegger rappresenta ancora uno spartiacque per il dibattito filosofico attuale. Tale situazione è indubbiamente singolare. All’interno di un dibattito sovente «neutralizzato» (politicamente ed emotivamente) dagli stilemi interpretativi accademici, nessun pensatore occidentale è in grado di polarizzare in modo altrettanto deciso le devozioni e le antipatie, gli anatemi sarcastici e le apologie. Poiché astio e irritazione celano spesso paure motivate da una profonda attrazione, tale fascinazione – negativa o positiva che sia – merita sicuramente una spiegazione. Nessun pensatore può sedurre così tenacemente grazie al solo virtuosismo concettuale del suo «gergo aurorale», o grazie a un «super-ego trascendentale» dilatato in maniera «epocale». E nessun filosofo potrebbe provocare una tale polarizzazione interiore se il suo linguaggio ieratico e artificioso non facesse segno – come già per Eraclito, Hegel o Nietzsche – a qualcosa di «vero» o, perlomeno, di «realmente possibile» per il pensiero dell’uomo. Evitando di affrontare direttamente i grandi temi ontologico-metafisici del pensiero di Heidegger, concentrandosi su questioni antropologico-filosofiche che potrebbero apparire di primo acchito marginali, l’interesse principale del libro di Vincenzo Costa, Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger (Jaca Book, Milano, 2006) è proprio questo: fornirci una «traduzione laica» del pensiero di Heidegger capace di fare emergere quel qualcosa di irriducibilmente «vero» che è presente nella filosofia di questo autore, quel qualcosa che – ci avvertono i versi di Nazim Hikmet posti in epigrafe – conserva solidità anche dopo che affilati colpi «d’ascia» hanno aperto un varco all’analisi di Costa attraverso una «foresta di idoli». In primo luogo, probabilmente, attraverso una selva d’interpretazioni, più o meno poetizzanti, che riecheggiano le parole del filosofo senza mai acquisire quella distanza teorica necessaria a evitare di farsi completamente soggiogare dal fascino di un grande pensatore.
I tentativi di «laicizzare» il pensiero di Heidegger non sono nuovi e il primo ad averli messi in atto è probabilmente Gadamer. Ciò non toglie che se ne avverta ancora il bisogno, e che l’interpretazione di Costa spinga tale tentativo particolarmente lontano. Tanto lontano da osare confrontare il pensiero di Heidegger con un insieme di riferimenti che a prima vista parrebbero completamente estranei: la linguistica, la psicologia evolutiva, l’antropologia e le «scienze umane» in generale, ma anche l’etologia, la biologia, le neuroscienze, le teorie della mente e dell’intelligenza artificiale. Se un confronto alla pari con le «scienze» rappresenta per i «circoli» heideggeriani ortodossi (gadameriani inclusi) ancora un tabù, Costa sembra averlo decisamente infranto costringendo il pensiero di Heidegger a rimettere i piedi su quel «terreno archeologico originario» in cui trovano un fondamento comune il sapere e la ragione. Lasciando ad altri il problema di decidere quanta «autenticità», o fedeltà all’autore, vada smarrita in un’impresa interpretativa di questo genere – interpretazione che non perde tuttavia mai il contatto con i testi di Heidegger fornendone sovente una traduzione lucida e convincente – vorremmo qui tentare di capire in che misura l’impresa di Costa giunga effettivamente a «buon fine». In che misura cioè essa giunga a portare alla luce ciò che di assolutamente irriducibile vi è nell’immagine dell’uomo, nella concezione dell’esperire edel parlare che ci ha fornito Heidegger. Considerando il modo in cui Costa mette in campo, paragrafo dopo paragrafo, in modo conciso e tuttavia pertinente, i più significativi rappresentanti dell’«attuale discussione filosofica» sulla natura dell’uomo – da Benveniste a Davidson, da Jakobson a Quine, da Cassirer a Fodor, da Vygotskij a Hofstadter, da Bühler a Wittgenstein, per citare soltanto i nomi che ricorrono più di frequente – il dibattito contemporaneo parrebbe polarizzato da due estremi antitetici che, in ultima istanza, si ricongiungono rafforzandosi reciprocamente: la macchina e l’animale. Se l’esperire e il parlare vengono infatti pensati sul modello della macchina o dell’animale, inevitabilmente – sembra sostenere Costa – ciò che si produce è uno scadimento del «processo di ominazione» verso quel polo che ne costituisce l’animalesca e inumana negazione, o verso quel polo che rappresenta la sua disumana e macchinica dissoluzione (cfr. E. Melandri, La linea e il circolo, Quodlibet, Macerata, 20042, pp. 623 e sgg.). Il pensiero di Heidegger pare quindi rappresentare implicitamente per Costa un efficace antidoto contro tale scadimento epocale. Tentiamo quindi di capire in che modo questo antidoto può agire.
Il primo terreno in cui esso è chiamato ad agire è ovviamente rappresentato dal problema della «differenza antropologica», ovvero dal problema della differenza di grado o di natura tra l’uomo e l’animale. L’analisi di tale problema occupa la prima parte del libro di Costa ed è su tale terreno che l’immagine dell’esperire umano fornita da Heidegger mostra gran parte del suo valore. Il problema della «differenza antropologica» era un problema in voga all’epoca di Essere e tempo – un problema che Heidegger affrontava però a malincuore temendo di vedere confuse le proprie posizioni con quelle dualiste e teologiche dell’ultimo Scheler o quelle neokantiane, simbolico-trascendentali, di Cassirer. È tuttavia evidente che se la ricerca sul senso dell’Essere prende il suo avvio dall’analitica dell’Esserci, celatamente, il problema della differenza ontologica intrattiene un rapporto analogo con il problema della differenza antropologica, ovvero nel tema, ispirato in parte da von Uexküll, della differenza tra mondo umano e ambiente animale (cfr. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, 1933, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata, 2010). Ciò che distingue l’uomo dall’animale non è l’intelligenza o il linguaggio inteso come strumento di comunicazione – cose che anche gli animali mostrano di possedere – bensì il fatto di rapportarsi al mondo in un modo completamente diverso da quello dell’animale. Mentre la modalità di esperienza dell’uomo è infatti caratterizzata da una peculiare «apertura» d’orizzonte, da un’apertura di «senso» in cui un oggetto rinvia ad un altro oggetto, e una situazione può essere spazio-temporalmente trascesa in un’altra situazione, l’esperienza animale è «rinchiusa» nel circuito dell’istinto, anche là dove apprendimento e abitudine permettono all’animale di far fronte a nuove evenienze (evenienze ambientali che il fenotipo animale può infatti affrontare solo se comprese entro i ristretti limiti di flessibilità tollerati dalla sua struttura comportamentale «istintiva» – struttura predeterminata in modo più o meno rigido, in funzione del grado evolutivo della specie, dal suo pool genetico specie-specifico). A rigor di termini, sostiene Costa interpretando Heidegger, si potrebbe affermare che nell’ambiente animale non esistono neppure oggetti, bensì stimoli che scatenano o inibiscono patterns comportamentali, ma che non conservano alcuna stabilità, indipendenza e «oggettività» al di fuori di questi circuiti «stimolo-risposta-consumazione». Tale mancanza di oggettività si palesa in modo esemplare in rapporto agli strumenti e utensili che occupano uno spazio così importante nella vita dell’uomo. Anche là dove l’animale fa un uso regolare di utensili (per lunghi periodi o per più generazioni), per afferrare un frutto o per attraversare un fiume, tale uso strumentale è sempre confinato a quel particolare tipo di bisogno e di situazione. La sua funzione viene raramente estesa da un individuo a un’analogasituazione: essa non diviene mai strumento di un’azione possibile. Tale osservazione ci permette di giungere al punto che Costa considera fondamentale. Anche se dotato di «coscienza primaria» o di «memoria a lungo termine» (G. Edelman, Il presente ricordato, 1989, Rizzoli, Milano, 1991), nel suo rapporto con l’ambiente circostante, l’animale rimane ancorato al qui e ora di una situazione reale, preso nella morsa di un presente da cui non può mai sfuggire per accedere come fa l’uomo alla dimensione del possibile. Ma tale dimensione è proprio quella che caratterizza in modo più peculiare l’esperienza umana, il suo singolare modo di rapportarsi al suo essere e al mondo, la sua singolare modalità di agire. Una cosa presente nel mondo umano è un ente proprio perché la sua realtà presente è circondata da un «alone temporale» che gli assegna un significato e una funzione al di là del momento presente. Tale funzione è oggettivamente esistente nel mondo al di fuori di ogni coscienza e psiche individuale, ma essa ha senso soltanto per un tipo di soggettività che si progetta e agisce in relazione alle possibilità concrete che gli sono offerte dal mondo e non in rapporto a un’astratta attività intrapsichica di riflessione. In conclusione, la dimensione del possibile dischiude all’uomo quella struttura storico-temporale-modale che trova completamento e «totalizzazione» nella possibilità ultima che è rappresentata dal pensiero della morte. Senza entrare qui in temi fin troppo noti, prendiamo per valida l’analisi della differenza antropologica fornita da Heidegger, aggiungendo soltanto un fatto banale – suggerito da Plessner e precisato in seguito da Gehlen – che la rende tuttavia incontrovertibile: l’essere umano è l’unico animale che è consegnato a se stesso in un modo («eccentrico») tale da avere bisogno di identificarsi (totemicamente) con l’altro animale per sapere come agire (in gruppo o individualmente); da aver bisogno di identificarsi (metafisicamente) con l’intelletto archetipo di Dio per sapere come pensare (per convincersi per esempio a seguire in modo inderogabile le leggi matematiche, il principio di causalità o di non contraddizione); da avere bisogno di riflettere a se stesso in analogia con quel prodotto in cui si reifica la sua azione – la macchina – per poter sentirsi invulnerabilmente «felice» (cfr. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. I, München, Beck, 1956). Cosa che fornisce terreno fertile alle comiche elucubrazioni di Woody Allen e alle cupe speculazioni dei teorici cognitivisti dell’«I.A. forte».
Ma passiamo alla seconda parte del libro, ovvero al parlare. Tutto il problema consiste ora nel capire che cosa renda possibile quella «struttura possibilitante» traversata dall’esperienza del tempo e consumata dalla morte. Fin dalla prima parte, Costa sembra alludere al fatto che il linguaggio gioca in tale struttura un ruolo fondamentale, poiché addirittura la struttura manuale d’esperienza, che condiziona l’uso funzionale dell’utensile, sarebbe secondo Heidegger una concrezione linguistica: «la mano è uno strumento per parlare, e solo un essere che parla, cioè che agendo esprime significati, può dunque avere le mani». Affrontando in tal modo il tema del linguaggio ci si espone però a un altro rischio – un rischio in cui incorre il neokantismo linguistico di Cassirer e buona parte del linguistic turn contemporaneo, di matrice analitica ma anche saussuriano-strutturalista. Il pericolo consiste secondo Costa nel finire per credere che i significati intramondani che il linguaggio esprime o manifesta siano essi stessi «effetti di linguaggio», che essi si sovrappongano a un caos di sensazioni privo di una struttura prelinguistica di senso, che essi ottengano un’identità e si coagulino in unità soltanto grazie alle schematizzazioni e segmentazioni ritagliate nell’esperienza sensibile dal linguaggio. Tale credenza conduce inevitabilmente a un relativismo convenzionalista-culturalista – à la Sapir-Whorf o à la Benvensiste – che schiaccia la dimensione semantica del linguaggio sulla dimensione del significante fonetico-sintattico. Oltre a subire una decisiva falsificazione da parte delle ultime ricerche sulla cognizione umana e animale, secondo Costa tale prospettiva contrasta fortemente con l’impianto genuinamente fenomenologico della dottrina heideggeriana, per la quale la funzione fondamentale del linguaggio è quella di riferirsi ad altro, di trascendersi nell’oggetto, di portare a manifestazione un ente che possiede già un significato intramondano, ovvero un uso e una funzione assegnategli da una struttura di rimandi, da una rete di senso, che è già presente oggettivamente nel mondo «prima» che entri in scena il linguaggio (il quale sembra unicamente completare questo processo di costituzione del senso assegnando a tale struttura pratica il carattere della «totalità»). Costa è molto deciso nell’evitare ogni tipo di deriva idealistico-linguistica dell’heideggerismo e nello ristabilire un ordine di fondazione «oggettivo» in cui l’esperire viene prima – logicamente e cognitivamente, ontogeneticamente e filogeneticamente – del parlare. Ci pare tuttavia che l’interpretazione di Costa non sia del tutto convincente, non perché essa si mostri infedele a Heidegger, quanto piuttosto perché, in relazione a tale problema, la «soluzione» di Heidegger non si riesce a «salvare». In altre parole, in relazione al problema del rapporto tra linguaggio ed esperienza la dottrina di Heidegger rivela, a nostro avviso, ambiguità e irresolutezze che interpretate in modo «forte» – cioè con una pretesa di sistematicità e coerenza analoga a quella messa in atto da Costa – producono inevitabili incongruenze. Tentiamo di rilevarne alcune. La prima riguarda la tensione che si genera tra un’istanza che potremmo caratterizzare come «fenomenologico-passiva» e una istanza caratterizzabile come «pragmatico-attiva». Secondo Costa, in Heidegger il linguaggio è chiamato a manifestare l’ente disponendosi verso di esso in modo fondamentalmente passivo e ricettivo, in una sorta di attitudine di «ascolto paziente». La metafora fono-uditiva ripetutamente impiegata da Costa è in questo senso rivelatrice: le cose «interpellano» il nostro linguaggio ed è a «dar voce» alle cose che il linguaggio autentico si deve impegnare. È soltanto il linguaggio (inautentico) della «chiacchiera» che pretende «piegare» le cose a ciò che «si dice», mentre l’enunciazione ermeneutica (autentica) esprime la loro più essenziale articolazione. Per Costa, tuttavia, le strutture di senso in cui si articola l’ente intramondano non sono l’effetto «passivo» di un principio generalizzato di emergenza percettiva analogo a quello («figura-sfondo») evidenziato (in ambito prevalentemente oculare) dalla Gestalttheorie. Fedele alla lettura pragmatica di Essere e tempo, Costa ribadisce che il significato degli enti intramondani è determinato dal loro uso, che la loro essenza è identificabile con la loro funzione, e che il reticolo di rimandi in cui si sedimenta la significatività del mondo è determinato dal commercio interumano con l’ente, ovvero da quell’istanza pratica,e – vorremmo aggiungere – manuale, che era già emersa nell’analisi dell’esperire: l’azione strumentale. Ora, a questa concezione del das Zuhandene (sostantivo coniato da Heidegger, contenente la radice Hand, «mano») – intesa come concezione generale dell’«utilizzabile intramondano» e come modalità prevalente d’accesso alla realtà dell’ente – sono state indirizzate numerose critiche, la più efficace delle quali ci pare formulata da Erwin Straus (cfr. E. Straus, Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria, 1963, a cura di A. Gualandi, Quodlibet, Macerata, 2010, pp. 16 e sgg.). Secondo Straus, l’«officina artigianale» – luogo intramondano in cui si manifesterebbe in modo esemplare la struttura di rimandi dell’azione strumentale – non costituisce affatto il luogo paradigmatico di manifestazione dell’ente, perché un significato emerge anche là dove nell’esperienza non vi è ancora nulla di «utilizzabile», là dove non si può ancora agire o non si sa ancora parlare. Possiamo per esempio affermare che un «oggetto naturale» come la luna non ha alcun senso percettivo perché non ha alcun uso e funzione concreti nel nostro commercio quotidiano con l’ente (oppure che l’acquisisce soltanto quando diviene un «oggetto culturale»)? E possiamo sostenere che per un bambino di 13 mesi, che ascolta la mia voce, segue l’indicazione della mia mano e grida entusiasta in direzione dell’aereo che traversa il cielo con un boato, quell’oggetto che vola non ha alcun significato perché non ne comprende pienamente ancora l’uso e la funzione? In altri termini, vi è un processo di «stratificazione del senso» in cui l’agire ha un ruolo sicuramente importante, ma per il quale l’agire – istituzionalizzato addirittura in usi e funzioni intersoggettivi – non costituisce affatto l’istanza «prima» o predominante di donazione del senso (di un «senso» a cui, come a uno «strato attivo originario», verrebbe a sovrapporsi uno «strato passivo secondario» filtrato dall’ascolto, espresso dalla voce e articolato dal linguaggio). Affermare questo significherebbe non vedere che il processo di costituzione-stratificazione del senso è fin dall’inizio un processo plurale intrecciato in senso intermodale. Esso è un processo in cui il «puro sentire» uditivo e oculare (ma anche il sentire gustativo e olfattivo, più direttamente connesso con le strutture «limbiche», emotive, filogeneticamente «primitive», del nostro sistema cerebrale) s’interseca costantemente con quello intenzionale-attivo veicolato dalla mano, dallo sguardo e dalla voce. In conclusione, nella sua pretesa di prendere definitivamente distanza da ogni «teoria della conoscenza» (inclusa la dottrina husserliana della coscienza e della costituzione intenzionale), Heidegger sembra dimenticare che per agire in senso pieno nel mondo, per assegnare una funzione a un oggetto e impararlo a usare, l’essere umano deve avere già appreso molte cose: innanzitutto a coordinare il proprio occhio con la propria mano e con la propria voce (la quale, sotto la guida interiore e silente dell’orecchio, fa e produce un gran numero di «cose» ancor prima di parlare). Egli sembra inoltre non sapere che è proprio in questa relazione intermodale – in cui la voce-udito gioca una funzione di mediazione essenziale, grazie alla sua natura duplice (al contempo attiva e passiva, materiale e intenzionale, intersoggettiva e individuale) – che viene a radicarsi quella «prosopopea verbale» e «proposizionale» grazie a cui l’uomo «fa parlare» il mondo per poterlo percepire come una realtà oggettivamente stabile (A. Gehlen, L’uomo, 1940-50, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 281 e sgg.). Come dimostrano ricerche psicologiche e neurocognitive più recenti (cfr. A. Gualandi, L’occhio, la mano e la voce, in www.giornale­difilosofia.net.), è infatti in questa relazione intermodale peculiare – molto meno rigida e predeterminata istintivamente di quella animale – che viene a radicarsi la dinamica metaforico-comunicativa fondamentale che ci permette di caratterizzare l’uomo come l’essere che ha bisogno di «animare antromorficamente» il mondo per poterlo oggettivare. Ma tale dinamica ci permette anche di definire l’uomo come l’essere che ha al contempo bisogno di identificarsi «circolarmente» con la «realtà esterna» – ovverosia, nelle diverse epoche storiche, con Dio, con la macchina o con l’animale – per poter pensare a se stesso come a un «qualcosa di stabile». Bisogna inoltre aggiungere che «stabilità» non equivale immediatamente a «occultamento» della realtà umana più essenziale: la temporalità. Solo per qualcuno che percepisce con un certo grado di stabilità il mondo esteriore e interiore, esistono infatti temporalità e storia. Anche Heidegger, del resto, sarebbe probabilmente d’accordo nell’affermare che il linguaggio contribuisce in modo determinante a strutturare in modo stabile tale «ek-statica instabilità», esonerando l’essere umano dalla pressione continua dell’«attimo presente»: dalle tensioni, impulsi e bisogni che nascono dal «qui ed ora» della sensazione, ma anche dall’evanescenza e caducità intrinseca al suo divenire.
Il problema dell’enunciazione verbale e proposizionale ci conduce infine alla seconda difficoltà che vorremmo mettere in luce. La dottrina del linguaggio di Heidegger ci impone secondo Costa di fare una differenza netta tra un uso giudicativo-proposizionale, asservito alla funzione di sussunzione concettuale, e una funzione più originaria e autentica, identificabile con l’«enunciato ermeneutico», non assertivo e non proposizionale. Enunciati ottativi, imperativi e in senso lato performativi, appartengono in modo più originario alla nostra forma linguistica di vita e Heidegger, in modo diverso e tuttavia complementare a Wittgenstein, ha il merito di avere portato alla luce tale originarietà. Il privilegio assegnato alla forma proposizionale (S è P), è dovuto secondo Heidegger a uno scadimento del linguaggio nella dimensione dell’inautenticità, a una riduzione dell’istanza umana del linguaggio alla sua componente comunicativa, informazionale, cibernetico-computazionale. Ridurre il linguaggio umano alla sua funzione assertiva, alla «vero-funzionalità», significa aprire la strada alla concezione cognitivista che lo svilisce a un semplice «calcolo di verità»; significa equiparare il linguaggio umano a un «linguaggio-macchina»; significa identificare lo spirito umano con un software implementato su un hardware naturale. Profeticamente consapevole dei pericoli incombenti sulla contemporaneità, Heidegger sarebbe giunto a privilegiare una dimensione del linguaggio diametralmente opposta: quella inerente a quel momento aurorale, donatore di mondo, che è celato nel più profondo di ogni proposizione, e che spetta alla parola poetica di riportare alla luce (sull’opposizione tra enunciato ermeneutico e proposizionale cfr. M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger,Quodlibet, Macerata, 2005, pp. 114 sgg.). Senza addentarci in tale tematica ontologico-poetica, permettiamoci alcune rapide osservazioni. Innanzitutto bisogna osservare che dal punto di vista dell’ontogenesi del linguaggio non è affatto scontato che gli enunciati ottativi e imperativi siano più originari di quelli assertivi. Se si considerano le prime fasi di acquisizione del linguaggio, emerge piuttosto una sorta di «indistinzione originaria» in cui le differenti modalità illocutorie di un enunciato sembrano tutte «virtualmente» comprese. Il proto-enunciato assertivo Wau-wau weg» («il cane è andato via») per un bambino tedesco di diciotto mesi è infatti altrettanto originario del proto-enunciato imperativo «Wau-wau da» («cane vieni qua»): prova ne è che, cambiando il contesto enunciativo (la presenza o l’assenza del cane o la sua prossimità-lontananza), il proto-enunciato assertivo diviene imperativo, e viceversa. E il quasi-enunciato, ancor più originario, «mamma» può esprimere sia il desiderio (ottativo) di veder comparire la madre che la gioia (assertiva-esclamativa) di percepirla (cfr. E. Tugendhat, Vorlesungen zur Einführung in die sprachanalytische Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M, 1976, pp. 213, 333, 367). Ma anche ammesso che tale primato degli enunciati non-assertivi sia difendibile – come vorrebbero i seguaci del secondo Wittgenstein, che interpretano in senso fortemente «pratico» la nostra «forma di vita» linguistica – tale primato non ci mette affatto al riparo dallo scadimento «tecnologico-naturalistico» del linguaggio. Gli «enunciati d’azione» sono infatti stati fin da sempre il terreno di elezione della concezione comportamentista del linguaggio (concezione che da Skinner, Bühler e Quine, risale fino a Gorgia, se si presta fede a quanto sostiene A.P.D. Mourelatos, Gorgias on the Function of Language, in «Philosophical Topics, Vol. XV, N. 2, 1987, pp. 135-170). E nella concezione cibernetico-biologica del linguaggio, l’informazione può altrettanto bene essere interpretata come un ordine o come un’istruzione proveniente dall’ambiente. È per tale ragione infatti che, come Costa ben intuisce, i due estremi opposti dell’animale (preprogrammato dall’evoluzione naturale) e della macchina (preprogrammata dall’ingegnere) si ricongiungono nella concezione dell’essere umano proposte da un certo cognitivismo e da una certa etologia (cfr. F. Cimatti, Il senso della mente, Boringhieri, Torino, 2004, cap. 1 e 2). Opporre inoltre l’«enunciato ermeneutico» all’enunciato assertivo-proposizionale, significa rendere in ultima istanza impossibile il discorso stesso della filosofia. Affermare infatti come fa Costa che: «Con l’uso predicativo del linguaggio il discorso si sclerotizza, e diviene possibile parlare senza comprendere quello che si dice» significa infatti incorrere in un’evidente contraddizione performativa poiché questo enunciato filosofico ha un’innegabile struttura assertivo-predicativa. Più fruttuoso sarebbe affermare che ogni proposizione cela in sé una dimensione comunicativa che le teorie corrispondentiste della verità – irretite dalla forza di stabilizzazione oggettiva che è connessa con ogni proposizione assertiva – tendono a oscurare (cadendo in una sorta di ipostatizzazione fattuale o di illusione trascendentale proposizionale). Come riconobbe Straus, ogni proposizione assertiva cela infatti una struttura comunicativa che ci permette di interpretarla come «una risposta a una domanda tacitamente intesa» (cfr. E. Straus, Der Mensch als ein fragendes Wesen (1953), in Id., Psychologie der menschlichen Welt, Springer, Berlin, 1960, pp. 317). Essa cela una struttura intersensoriale che la funzione di indicazione-interpellazione, espressa dal «nome», e la funzione di ascolto-ricezione, espressa dal «predicato», sono in grado di interiorizzare metaforicamente nell’accordo di verità interno alla proposizione, esonerando l’occhio e la mano da ogni ulteriore «azione». Più di altre metafore filosofiche, le «metafore ermeneutiche» di Heidegger – metafore dell’ascoltare e dell’interpellare, del «dar voce» e dell’intendere emotivamente – paiono evocare questa struttura comunicativa e metaforica che «nasce e vive» nel più profondo di ogni proposizione (cfr. M. Gardini, op. cit., pp. 122 sgg., 162 sgg. ). Ma come ebbe a osservare una volta Gehlen, bisogna anche riconoscere che, grazie alla «stupefacente produttività linguistica» di Heidegger, tale metaforicità comunicativa, e la differenza antropologica in cui essa si radica, finiscono per «svaporare» nella differenza ontologica e nella sua accattivante metaforicità poetica. Cosa che ci conduce a obliare un fatto importante: la carenza istintiva extra-specifica, che determina l’apertura dell’essere umano nei confronti dell’ambiente, ci induce a «proiettare» sul mondo esterno l’istinto interumano (intra-specifico) più persistente: l’istinto di comunicare. Un «istinto» che pare disporci nei confronti della «voce dell’Essere» in un’attitudine di ascolto paziente.

* Questo testo costituisce una versione modificata e ampliata della recensione apparsa in "Intersezioni", n. 2, agosto 2008.
Rif. Vincenzo Costa, Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger, di Alberto Gualandi, in "Intersezioni", n. 2, agosto 2008, pp. 345-349, ISSN : 0393-2451

PUBBLICATO IL : 21-06-2010
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