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Mario De Caro, Azione.
Il Mulino, 2008

di Giulia Piredda

L’agile volumetto che la collana Lessico della Filosofia edita da Il Mulino dedica, affidandolo a Mario De Caro, al tema dell’azione, ha il pregio di esibire un fruttuoso connubio tra interesse storico e analisi concettuale. In parte dovuta alla funzione assegnatagli – offrire una panoramica storico-teorica degli studi filosofici sull’azione – e in parte caratteristica dell’autore stesso, la trasversalità tra storia e teoria è senza dubbio un aspetto distintivo di questo libro. Il suo principale merito sta nel rappresentare una guida di qualità nell’intricata e sfaccettata riflessione sull’azione, da Platone ai giorni nostri. L’organizzazione del libro riflette il duplice interesse tematico e storico: la divisione in capitoli e paragrafi risponde a un criterio contenutistico ma ogni paragrafo rispetta al suo interno l’ordine cronologico.

Nel primo capitolo – Azione e metafisica – si disegna il complesso paesaggio storico-filosofico delle relazioni tra il dominio dell’agire e quello dell’essere. La tradizionale subordinazione filosofica dell’agire all’essere, che informa l’occidentale primato delle virtù intellettualistiche e contemplative, deve aspettare il pensiero classico tedesco, nella figura di Goethe, per essere letteralmente ribaltata (“In principio era l’azione” è tradotto l’incipit evangelico nel Faust). Le virtù pratiche vengono inoltre riscattate da artisti e scienziati rinascimentali italiani. Infine, il primato del dominio pratico sulla teoria è punto cardine del pragmatismo statunitense di fine Ottocento. Il carattere non disinteressato dell’indagine teorica sfocia poi nel contemporaneo relativismo concettuale difeso da Hilary Putnam. Inquadrati così i rapporti tra essere e agire, il secondo capitolo si occupa della declinazione umana del concetto di azione, che dà origine al problema della libertà, cui De Caro ha già dedicato un’opera edita da Laterza. Qui, il libero arbitrio va inteso come problema metafisico riguardante la libertà individuale concepita in senso astratto (da non intendersi, insomma, nelle sue declinazioni politiche, morali o sociali). Le condizioni di possibilità della libertà così intesa, da reperire rispettivamente nei concetti medievali di “libertas spontaneitatis” e “libertas indifferentiae”, sono l’autodeterminazione dell’agente e la possibilità di fare altrimenti. Del resto, il fattore che mette a rischio la libertà dell’agente ha assunto nella storia diverse forme: dalla necessità cosmica della filosofia antica alla provvidenza e preveggenza del Dio cristiano, fino alle minacce derivanti dal sorgere della nuova scienza nel Seicento e dall’affermarsi di visioni deterministiche e causalistiche del mondo. È soprattutto sulla versione secolarizzata del problema del libero arbitrio, incentrata sul rapporto tra libertà e determinismo, che si concentra l’attenzione di De Caro. Non mancano però riferimenti alle declinazioni del problema appartenenti al mondo antico o al pensiero cristiano.

Terzo e quarto capitolo sono dedicati rispettivamente all’ambito etico e politico, di evidente rilevanza per la trattazione dell’azione. Nel primo vengono illustrate le diverse risposte fornite dall’etica normativa alla questione circa la natura e l’individuazione delle azioni moralmente buone. Grande spazio viene concesso, nel quadro delle risposte deontologiche, alle specificità dell’etica kantiana, legata anche alla particolare concezione dell’uomo come capace di generare nuove catene causali, all’origine della soluzione del libero arbitrio proposta dal filosofo tedesco. Non manca una panoramica delle posizioni utilitaristiche, con la differenza rawlsiana tra utilitarismo dell’atto e utilitarismo della regola. Infine, è interessante la riscoperta di Hume come sostenitore di un’etica della virtù: approccio che, con le sue radici aristoteliche, sembra vivere una renaissance anche in autori contemporanei come Elizabeth Anscombe, Martha Nussbaum e John McDowell.

Il quarto capitolo ripercorre le principali concezioni della specificità dell’agire politico: dal capostipite individuato in Machiavelli, che ha il merito di sganciare l’azione propriamente politica dai vincoli religiosi e morali, passando per la caratterizzazione schmittiana del politico come descritto dalla coppia amico/nemico, fino all’elevazione compiuta da Arendt della vita activa come ambito privilegiato di realizzazione e costruzione dell’identità umana.   

L’ultimo capitolo – Azione e intenzionalità – è dedicato alla branca della filosofia analitica nota come teoria dell’azione, definita come un’analisi concettuale a priori intorno ad alcuni temi cardine della riflessione sull’azione, come il nesso tra intenzione ed azione e il rapporto tra spiegazione causale e intenzionale. Elizabeth Anscombe e Donald Davidson sono i due campioni di questo approccio. La teoria dell’azione considera le azioni individuali e il loro nesso con l’agente che le compie: in questo senso è centrale la definizione di azioni intenzionali, intese da Anscombe come quelle azioni per le quali è possibile esibire ragioni. Per Davidson, d’altronde, ogni azione, in qualche sua descrizione, è intenzionale, nel senso che può essere descritta facendo riferimento agli stati intenzionali dell’agente che l’ha compiuta. Situata al crocevia tra semantica e ontologia, la teoria dell’azione si è recentemente affrancata da disciplina esclusivamente concettuale e filosofica e si è incontrata con le riflessioni provenienti da psicologia e scienze cognitive. Nel capitolo vengono affrontati i dibattiti intorno alla definizione delle intenzioni come stati mentali particolari, da tenere distinti da desideri e credenze, e al rapporto tra intenzione ed azione intenzionale, dominato dalla cosiddetta “Simple View”, secondo cui le azioni volontarie presuppongono da parte dell’agente un’intenzione di agire in quel modo. Infine, viene discusso il rapporto tra spiegazione causale e spiegazione intenzionale, tra cause e ragioni, che vede contrapporsi la concezione wittgensteiniana delle ragioni come legate concettualmente ma non causalmente alle azioni agli argomenti davidsoniani a favore della visione causalistica delle ragioni. Si comprende bene come dietro questi dibattiti vi siano questioni che oltrepassano il dominio della filosofia dell’azione per sfociare nella filosofia del linguaggio e della mente.

Nelle sue centoquarantotto pagine, insomma, Azione riesce a condensare un insieme eterogeneo di materiale talvolta resistente al dialogo. Pur con i necessari tagli e selezioni, si rivela un libro assolutamente gradevole da leggere, con un ottimo apparato bibliografico pronto a guidare chi voglia saperne di più.

PUBBLICATO IL : 10-11-2008
@ SCRIVI A Giulia Piredda
 

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