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AA.VV., Paradigmi. Rivista di critica filosofica 1/2008.
Franco Angeli, 2008

di Valentina Martina

Cogliamo l’occasione per salutare con piacere la ripresa dei lavori della rivista Paradigmi, che uscirà con cadenza quadrimestrale. Ecco i temi dei prossimi numeri: 2008/02, a cura di R. Egidi, Wittgenstein, Rileggere le Ricerche; 2008/3, a cura di M. Failla, L’itinerario filosofico di Gadamer. Fascicoli previsti per il 2009: a cura di Carla Bazzanella, La forza cognitiva della metafora; a cura di Roberto Pujia e Francesca Ervas, Teorie della traduzione; a cura di Giacomo Marramao e Elio Matassi, La sfida della responsabilità.

 

Il numero di Paradigmi, dedicato alla filosofia del lavoro, si presenta in una nuova veste editoriale e raccoglie contributi di studiosi italiani e stranieri, volti a prestare particolare attenzione a come si presentano oggi le nuove forme di lavoro. Una di queste è la cosiddetta categoria di "lavoro informale" che comprende il lavoro familiare non retribuito, il lavoro indipendente, il lavoro nelle imprese con pochi dipendenti e costituisce lo spunto per affrontare diversi temi, come la disuguaglianza del lavoro tra Nord e Sud, l’urgenza di un reddito di base per tutti, il lavoro immateriale. L’informale, definito da Serge Latouche in uno dei saggi della rivista “categoria-contenitore”, non è da considerare in quanto opposto al formale, piuttosto come una categoria che getta luce sul profilo che assume lo status del lavoro al giorno d’oggi. La categoria dell’informale è basata sul “reciproco intreccio di settori sociali ed economici paragonabili a quelli che caratterizzano la gestione domestica”, oppure che coinvolgono gli artigiani o i venditori ambulanti o le microimprese. Attraverso questa categoria, il lavoro, quale attività specificamente umana, è presentato non tanto a partire dalla logica della specializzazione professionale, quanto dalla diversità e dall’imprevedibilità. Sono proprio queste le caratteristiche basilari che costituiscono il lavoro informale e che se da un lato favoriscono l’inserimento di donne, migranti e giovani nel mondo del lavoro, dall’altro molto spesso ostacolano un certo livello di organizzazione sociale del quale gli stessi lavoratori avrebbero bisogno, se si vuole evitare la diffusione di orari di lavoro massacranti, la diminuzione del reddito per mancanza di strumenti di tutela o di difesa, lo sviluppo di comportamenti sleali nei singoli ambiti professionali.
Come suggerisce Ulrick Beck, si potrebbe far riferimento, per dar conto dello status attuale del lavoro, alla categoria della fragilità, in base alla quale il lavoro informale sembra innanzitutto essere svolto dai gruppi ai margini della società. Tuttavia “persone che lavorano con orario flessibile si possono trovare in tutte le categorie sociali, tra coloro che sono sia altamente, sia scarsamente qualificati, soprattutto fra le donne ma sempre di più fra gli uomini. Di conseguenza, il lavoro flessibile e i rischi che ne derivano attraversano tutte le categorie sociali”(p. 23). La fragilità del lavoro ha a che fare con un’ulteriore questione, relativa alla distinzione fra lavoro necessario (materiale) e lavoro esplorativo (cognitivo), distinzione messa ben in evidenza da Rullani, che si affaccia nel dibattito attuale e che coinvolge i cambiamenti del lavoro inteso come attività dall’epoca pre-moderna ai giorni nostri. Il lavoro cognitivo, immateriale, sebbene abbia sostituito il lavoro materiale dell’artigiano o dell’agricoltore, che “doveva svolgersi entro binari prestabiliti da leggi necessarie (naturali) che lasciavano ben poco spazio all’immaginazione e alla sperimentazione del nuovo” (p. 77), non ha ancora del tutto abbandonato quell’idea convenzionale di lavoro, legata alla fatica e alla necessità. Pertanto la questione decisiva, per quel che riguarda la presenza crescente del lavoro cognitivo, è come gestire la diversità stessa di questa tipologia lavorativa che si allontana dalla logica della materialità e della necessità; come svilupparla e come farla fruttare nei contesti lavorativi e sociali. Sarebbe infatti auspicabile che le ormai sempre più frequenti figure del lavoratore autonomo, del Knowledge worker e più in generale dei lavoratori atipici, scontrandosi con la necessità di investire su se stessi e sulle proprie capacità, creino un connubio fra “capitalismo personale e condivisione sociale”, detto in altri termini tra il lato oggettivamente sociale e quello soggettivamente individuale del lavoro.
Il dominio crescente dell’informale nell’ambito lavorativo, che porta a una soggettività spiccata del lavoro e che va oltre le tradizionali distinzioni tra Nord e Sud del mondo o tra poveri e benestanti, testimonia come la creazione del lavoro non rappresenta più un fattore decisivo per la crescita occupazionale, proprio come l’occupazione stessa non è l’unico aspetto per dar conto dei livelli di reddito e di sicurezza nell’ambito lavorativo. Mettendo in luce queste caratteristiche ambivalenti del lavoro, nel corso della rivista, vengono sollevate alcune questioni che coinvolgono i governi di molti Paesi europei che devono affrontare la situazione di insicurezza lavorativa. Occorre sostenere i costi della crescente povertà con un elevato livello di disoccupazione, oppure accettare livelli di povertà alti a favore di una disoccupazione inferiore?
L’aspettativa di riuscire a trovare un lavoro ben pagato in un’epoca di occupazione parziale, precaria e di disoccupazione è diventata nel corso del tempo sempre più utopistica. Proprio per questa ragione si rivela urgente il reddito garantito, idea che incontra delle difficoltà per essere applicabile e per poter essere del tutto condivisa. Frequentemente, infatti, si pensa che se esistesse il reddito garantito, molte persone riceverebbero una quantità di risorse sufficienti per vivere, indipendentemente dal lavoro. Comunque, il reddito garantito non elimina tutti gli incentivi a lavorare e non implica nemmeno che gli individui siano liberi di non lavorare. Il reddito garantito non ci priverebbe del desiderio di lavorare, né farebbe venire meno l’obbligo di prestare il proprio tempo per i servizi utili alla comunità. Come il sistema previdenziale, il reddito garantito è una proposta sensata, in quanto è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per migliorare le condizioni della nostra vita. Bisogna infatti riconoscere che servono forme di tutela non solo contro le incertezze dell’età avanzata, ma anche nei confronti della perdita della sicurezza lavorativa in tutte le età.
Attraverso un’indagine formulata da un punto di vista sociale ed empirico, da un lato, e filosofico dall’altro, l’obiettivo della rivista è individuare le possibili condizioni che favoriscono il terreno fertile in cui si possa definire il profilo attuale dell’attività lavorativa. In un’epoca dominata dal lavoro informale, solo considerando il lavoro nel contesto del capitalismo personale, e non dell’individualismo, la logica degli investimenti personali (intesa nei termini del lavoro della conoscenza) s’innesta nei contorni sociali dell’economia, recuperando così il senso collettivo del lavoro e della produzione. Occorre, pertanto, che le rappresentanze sociali e la politica favoriscano lo sviluppo delle condizioni sociali del self-employment, nella vasta cornice del mondo del lavoro, piuttosto che considerarla obbligatoriamente una categoria atipica, anormale e, per questo, precaria.

PUBBLICATO IL : 10-11-2008
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