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Jacques Rancière, Il disaccordo. Politica e filosofia.
Meltemi, 2007

di Dario Gentili

Della stessa generazione di Nancy e Balibar, come quest’ultimo allievo di Althusser, uno dei filosofi della politica attualmente più considerati e influenti a livello internazionale, Jacques Rancière non riscontra ancora in Italia la dovuta attenzione. Soltanto adesso, nonostante sia datata 1995, per merito di Meltemi, è stata tradotta in italiano una delle opere centrali della sua riflessione: La Mésantente. Politique et Philosophie. Nonostante il ritardo, questa traduzione giunge più che benvenuta, essendo Il disaccordo un testo inaggirabile per comprendere la riflessione di Rancière, com’è desumibile dal sottotitolo, Politica e Filosofia, che non nasconde di certo la sua ambizione: interrogare l’essenza stessa del rapporto tra filosofia e politica fin dal suo presentarsi con Platone nella storia occidentale. Fin dalla Prefazione a questo testo estremamente denso, Rancière espone senza sminuirne la portata polemica la sua tesi controcorrente: «Metteremo alla prova la seguente ipotesi: ciò che chiamiamo “filosofia politica” potrebbe anche essere l’insieme di artifici di pensiero attraverso cui la filosofia cerca di farla finita con la politica, sopprimendo uno scandalo di pensiero tipico dell’esercizio della politica. Questo scandalo teorico rappresenta la ragione del disaccordo. Ciò che fa della politica un oggetto scandaloso è il fatto che essa è l’attività che ha, come logica propria, la logica del disaccordo. Il disaccordo tra politica e filosofia ha allora come principio proprio la semplificazione della logica del disaccordo. Questa operazione, tramite la quale la filosofia espelle da sé il disaccordo, si identifica dunque naturalmente con il progetto di fare “davvero” politica, realizzando così la vera essenza di cui la politica parla. La filosofia non diventa “politica” perché la politica è una questione importante, che necessita del suo intervento. Lo diventa perché mettere ordine nella logica della politica è una condizione per definire ciò che è proprio della filosofia.» [pp. 21-22]. Il “disaccordo” è sostanzialmente diverso sia dall’incomprensione che dal fraintendimento: essere in disaccordo non significa non intendersi perché si parla di due cose diverse o si parla due lingue diverse, significa piuttosto avere “opinioni” diverse pur parlando della medesima cosa. Significa comprendersi e tuttavia non essere d’accordo.
     Per Rancière, il disaccordo come fondamento della politica sorge dal torto che scaturisce dall’attribuzione di principio dell’uguaglianza e della libertà al demos greco perché possa accedere alla polis e, al contempo, alla determinazione di tale parte-cipazione come calcolo degli “aventi diritto”. L’organizzazione politica prevede, infatti, la suddivisione per parti del popolo al suo interno, che tradisce proprio la presupposta uguaglianza come principio politico. La logica che divide il popolo tra chi non ha parte e chi partecipa alla comunità politica, a sua volta ancora oggetto di suddivisione, è denominata da Rancière polizia – che deriva non a caso dalla stessa radice di “politica” e andrebbe presa pertanto nel senso più ampio del termine. Se la polizia rappresenta l’aspetto gestionale, organizzativo e contabile della politica, che ne è della politica in quanto tale, della politica che afferma invece il principio di uguaglianza del popolo? Chi rappresenta davvero tutto il popolo, che non partecipa dunque alla ripartizione della polis che la polizia opera e che la filosofia esige per “pensare” la politica e farsi “filosofia politica”? La “parte dei senza-parte”, risponde Rancière: «Il popolo si identifica con il tutto della comunità in nome del torto arrecatogli dagli altri elementi della comunità. I senza-parte – i poveri dell’antichità, il terzo Stato o il proletariato moderno – non possono in effetti ottenere altro se non il niente o il tutto. Eppure è grazie all’esistenza di questa frazione dei senza-parte, di questo niente che è tutto, che la comunità esiste come comunità politica, ovvero come comunità divisa sulla base di un litigio fondamentale, un litigio che riguarda il calcolo delle sue parti ancor prima di riguardare i loro diritti. Il popolo non è una classe tra le altre.» [pp. 30-31]. La parte dei senza-parte non partecipa, dunque, al calcolo delle parti, non è una parte tra le altre, altrimenti non potrebbe rappresentare il popolo nella sua totalità, ma è la denuncia fondamentale che, perché ci sia politica, i conti non tornano.

    

Per comprendere in pieno l’analisi di Rancière bisogna ribadirne un passaggio: perché possano essere espressione del popolo e della politica in quanto tale, “i poveri dell’antichità, il terzo Stato, il proletariato moderno” e ogni parte che nella storia ha fatto della sua esclusione dal conteggio delle parti il principio della propria politica deve rappresentare tutto il popolo, «l’uguaglianza di ciascuno con chiunque, ovvero, in ultima istanza, l’assenza di arkhè, la pura contingenza di ogni ordine sociale.» [p. 36]. Se il tentativo platonico di costituire una repubblica fondata sul logos non ha potuto mettere a tacere le doxai che ne erano escluse e se ogni tentativo di fondazione filosofica della politica ha pur sempre lasciato un resto, una parte non compresa, bisogna comunque evidenziare – Rancière lo fa, ma non siamo sicuri quanto sia disposto a sottoscriverne le estreme conseguenze – che senza torto non si dà politica e che una forma di polizia, che presuma di chiudere i conti con il popolo, è tuttavia necessaria alla possibilità stessa della politica. Allora, forse, se il disaccordo che caratterizza la politica è una “condizione per definire ciò che è proprio della filosofia”, altrettanto la filosofia è necessaria alla politica per determinare di volta in volta, di epoca in epoca, quel disaccordo che invano pretenderebbe di risolvere e quel soggetto politico che se ne fa rappresentante.

PUBBLICATO IL : 05-11-2007
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