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Jacques Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità».
Bolatti Boringhieri, 2003

di Dario Gentili

Finalmente è tradotto in italiano Force de loi, il testo che raccoglie le due conferenze, Dal diritto alla giustizia e Nome di Benjamin, tenute da Derrida negli Stati Uniti nel 1989 e nel 1990; a Nome di Benjamin sono aggiunti dei Prolegomeni e un Post-Scriptum, che Derrida ha scritto appositamente per la pubblicazione del 1994 in Francia. Scriviamo “finalmente” in quanto fin da subito Force de loi ha sollevato un forte clamore e un certo imbarazzo; in particolare, è Nome di Benjamin che ha attirato l’attenzione di chi con il pensiero di Walter Benjamin ha una assidua frequentazione. Infatti, Nome di Benjamin rappresenta un contributo volutamente e consapevolmente polemico nei confronti di uno scritto in particolare del filosofo berlinese, Zur Kritik der Gewalt del 1921, che Derrida analizza e commenta con grande acribia, per dimostrare la fondatezza della questione di fondo con cui inizia e termina il suo saggio, radicale e sicuramente controcorrente rispetto alla più ovvia e diffusa interpretazione del pensiero benjaminiano: «Cosa avrebbe pensato Benjamin, o almeno quale pensiero di Benjamin è virtualmente formato o articolato in questo saggio (ed è anticipabile?) riguardo alla “soluzione finale”?» [p. 88]. La questione è estremamente delicata perché, con “soluzione finale”, Derrida intende proprio il progetto nazista di sterminio di massa degli ebrei. Considerando che Benjamin stesso è ebreo ed è morto suicida per non essere consegnato ai nazisti, che i suoi scritti hanno sempre condannato senza mezzi termini la “barbarie” del nazismo e chiunque minimamente accettasse ogni compromissione con le sue premesse ideologiche, sarebbe fin troppo facile liquidare il testo di Derrida sussumendolo sotto la categoria letteraria del pamphlet. Eppure, Nome di Benjamin è troppo complesso e argomentato per essere una semplice provocazione; a scanso di equivoci, il filosofo francese non sostiene affatto che Zur Kritik der Gewalt, anche solo per un fatto cronologico, teorizzi la soluzione finale così come il nazismo l’ha concepita. L’intenzione di Derrida è molto più sottile: distinguere il più chiaramente possibile la sua “decostruzione” dalla concezione benjaminiana della “distruzione”, accomunata senza una dovuta giustificazione alla Destruktion di Heidegger, utilizzando come criterio di valutazione proprio la “soluzione finale”, “il peggio” come Derrida anche scrive. Dunque, sia chiaro, Zur Kritik der Gewalt non può trattare e non tratta della soluzione finale, eppure la concezione che vi è esposta non escluderebbe una deriva di quel genere; citiamo la conclusione del libro, dove Derrida sembra difendere non soltanto la teoria della decostruzione da paternità che non riconosce, ma anche la sua stessa originalità: «Ma se vi fosse un insegnamento da trarre, un insegnamento unico fra gli insegnamenti sempre unici dell’omicidio, foss’anche singolare, fra tutti gli stermini della storia (poiché ogni omicidio individuale e ogni omicidio collettivo è singolare, dunque infinito e incommensurabile), l’insegnamento che potremmo ricavarne oggi, e se lo possiamo lo dobbiamo fare, è che dobbiamo pensare, conoscere, rappresentarci, formalizzare, giudicare la complicità possibile fra tutti questi discorsi e il peggio (qui la “soluzione finale”). Ciò definisce ai miei occhi un compito e una responsabilità di cui non ho potuto trovare traccia né nella “distruzione” benjaminiana né nella Destruktion heideggeriana. È il pensiero della differenza fra tali distruzioni da un lato e un’affermazione decostruttrice dall’altro che mi ha guidato in questa lettura. È questo pensiero che la memoria della “soluzione finale” mi sembra dettare». [pp. 142-143].
Zur Kritik der Gewalt: già il titolo dello scritto di Benjamin esige una precisazione fondamentale. Come sottolinea Derrida, la traduzione francese e inglese, e quella italiana aggiungiamo noi, rende Gewalt con “violenza”: il significato del termine tedesco Gewalt non si esaurisce completamente in violenza, perché Gewalt indica anche l’autorità legittima. E il termine “critica” deve essere inteso nel senso kantiano; in sintesi, il testo benjaminiano si propone di considerare a quali “condizioni di possibilità” la violenza è espressione legittima di una autorità; ancora più precisamente: è possibile una giustizia che non si legittimi esclusivamente attraverso l’utilizzo della “forza di legge”, che non debba necessariamente ricorrere alla violenza per affermarsi? Sempre kantianamente, con il termine Gewalt, Benjamin cerca anche di definire una idea di Gewalt “pura”, l’unica per la quale si può parlare di una “vera” giustizia, di una autorità senza violenza. Come è nel suo stile, Benjamin procede escludendo tutti quei rapporti in cui la giustizia deve ricorrere alla violenza per affermarsi; prima di tutto, egli esclude il rapporto mezzi-fine, che caratterizza sia il diritto naturale che il diritto positivo: quello giustifica la violenza dei mezzi con la giustizia dei fini, questo garantisce la giustizia dei fini con la legittimità dei mezzi. Tuttavia, il diritto positivo ha escluso la violenza dal proprio sistema solo apparentemente: non può evitare che il singolo individuo si appelli al proprio diritto naturale di ricorrere a mezzi violenti in vista di scopi che il sistema giuridico non contempla. Con tale analisi, Benjamin vuole evidenziare che l’autorità di nessun diritto positivo è in grado di escludere completamente la violenza: la violenza fa parte del diritto stesso in quanto suo gesto di fondazione e vi trova legittimazione al suo interno come “violenza conservatrice”. Il diritto ha bisogno della violenza per sussistere: la violenza che fonda il diritto non sparisce con la riconosciuta autorità del diritto positivo istituito, ma il diritto afferma la propria autorità ricorrendo alla violenza che ne garantisce la conservazione contro ogni violenza potenzialmente fondatrice. Derrida evidenzia molto accuratamente che la violenza fondatrice e quella conservatrice non si contrappongono, ma il loro polemos rappresenta il movimento stesso del diritto, che, fondandosi su una autorità derivata dalla violenza, deve costantemente ricorrere a questa per confermare la propria legittimità. Tuttavia, per Derrida, come emerge in Dal diritto alla giustizia, proprio l’inquietudine intrinseca al diritto, il suo essere una rappresentazione sempre in opera della giustizia è il fondamento stesso della democrazia; dunque, nella critica del sistema rappresentativo e nella nostalgia di una presenza “pura” della giustizia, Derrida riconosce l’affinità del saggio benjaminiano con il “peggio”, la “soluzione finale”. In effetti, Benjamin definisce l’indecidibilità del rapporto tra posizione e conservazione come ciò che è “guasto nel diritto”: nessun diritto può rappresentare la giustizia. Tuttavia, la questione non si risolve semplicemente con l’accogliere Benjamin nella tradizione rivoluzionaria; certo, in Zur Kritik der Gewalt, come in altri testi benjaminiani, non mancano sferzanti giudizi contro il parlamentarismo ed effettivamente Benjamin è in compagnia anche di Carl Schmitt nel criticare la Repubblica di Weimar, come Derrida non manca di ricordare più volte, ma tale compagnia all’epoca era molto ben nutrita. Comunque, Derrida riscontra nei giudizi più radicali dell’epoca contro il parlamentarismo una sostanziale affinità: «Il discorso di Benjamin, che si sviluppa allora in una critica del parlamentarismo della democrazia liberale, è dunque rivoluzionario, di tendenza marxista, ma nei due sensi del termine “rivoluzionario”, che comprende anche il senso reazionario, quello di un ritorno al passato di una origine più pura. Questo equivoco è abbastanza tipico e ha alimentato molti discorsi rivoluzionari di destra e di sinistra, in particolare fra le due guerre. Una critica della “degenerazione” (Entartung) come critica di un parlamentarismo impotente a controllare la violenza poliziesca che gli si sostituisce, è certo una critica della violenza sulla base di una “filosofia della storia”: messa in prospettiva archeo-teologica, cioè archeo-escatologica che interpreta la storia del diritto come una decadenza (Verfall) dall’origine. Non c’è bisogno di sottolineare l’analogia con alcuni schemi schmittiani o heideggeriani». [p. 118]. Ci sembra che Derrida in questo passaggio tenda a interpretare un po’ troppo semplicisticamente l’argomentazione benjaminiana sulla scorta di “alcuni schemi schmittiani o heideggeriani”, piuttosto che evidenziare la peculiarità del discorso di Benjamin rispetto a tali schemi o al modo in cui Derrida schematizza il pensiero schmittiano o heideggeriano: la “degenerazione” di cui scrive Benjamin non consiste tanto nella decadenza dalla presenza alla rappresentazione, dalla presenza originaria della giustizia alla sua rappresentazione nel diritto, quanto, al contrario, nella decadenza dalla rappresentazione alla presenza, dalla rappresentazione del diritto, come tale sempre soggetta alla critica, all’illusione o inganno della presenza. L’analisi di Derrida è ineccepibile nell’attribuire al diritto lo statuto della rappresentazione, eppure scavalcare il piano della rappresentazione per affermare la “pura” presenza della violenza, in cui questa si mostra direttamente e non si rende disponibile alla critica è la vera degenerazione. Derrida finisce per intendere la critica della rappresentazione del diritto come il presupposto per il ritorno a una origine caratterizzata dalla semplice e diretta manifestazione della giustizia. Invece, proprio perché è una rappresentazione, l’ordinamento giuridico è soggetto alla critica, proprio perché è fondato sulla Gewalt assume quella consistenza e quella concretezza per essere rifondato. È sulla scorta di tali riflessioni che in Zur Kritik der Gewalt s’inserisce la critica del parlamentarismo, che tanto irrita Derrida. Nell’interpretazione che Derrida fornisce dell’argomentazione benjaminina sul parlamentarismo, questo è il momento terminale del declino (Verfall) dalla violenza originaria e originante alla rappresentazione del diritto: «La perdita di coscienza non sopraggiunge per caso, né l’amnesia che ne segue. Essa è il passaggio stesso dalla presenza alla rappresentazione. Un tale passaggio forma il percorso del declino, della degenerazione istituzionale, il loro Verfall. […] Ecco come [Benjamin] deplora il Verfall della rivoluzione nello spettacolo parlamentare: “Se vien meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade (verfällt)”. Il primo esempio scelto è quello dei parlamenti di allora». [p. 119]. Derrida legge questo passo benjaminiano nel senso che, quando un sistema politico s’illude di poter liquidare la presenza della violenza mediante la rappresentanza, esso è destinato a decadere nel momento in cui si manifesta una nuova Gewalt: è il caso sia dello Stato di polizia che della rivoluzione. Nonostante che il testo benjaminiano in certi passaggi possa giustificare una tale interpretazione, pensiamo che possa essere valida anche un’altra versione. Ricordiamo che Gewalt non significa soltanto violenza, ma anche autorità legittima e la mera forza diventa autorità se ha la capacità di farsi riconoscere dagli altri in quanto legittima: nella rappresentazione giuridica che la Gewalt pone c’è la consapevolezza che essa è soltanto legittima, è soltanto un mezzo in vista di uno scopo, la giustizia, da cui resta distinta e, quindi, sempre sottoposta alla verifica e alla critica.
La Gewalt che presume di essere immediata manifestazione della giustizia e non semplice mezzo per fini giusti è definita da Benjamin mitica. Per Benjamin, il mito è in generale una categoria filosofica ed ermeneutica che ricorre ogni qualvolta l’ordine predominante è quello della rappresentazione. L’intenzione di Benjamin consiste nello svincolare la giustizia dalla petizione di principio secondo la quale fini giusti possono essere conseguiti attraverso mezzi giusti, in cui la giustizia è necessariamente dedotta dai mezzi che sancisce il diritto. Dunque, la violenza s’impone ogni volta che la giustizia è rappresentata come quell’universale a cui la singolarità e la contingenza della situazione devono necessariamente essere sussunti; Benjamin ribadisce il legame inscindibile tra Gewalt e rappresentazione, soprattutto nel senso che si determina un rapporto di potere se la giustizia è ridotta a rappresentazione di uno scopo universale, valido per ogni situazione particolare: dietro ogni definitiva e compiuta presenza immediata della giustizia si nasconde sempre e soltanto la rappresentazione delle logiche di forza che ogni fondazione del diritto presuppone. Violenza mitica è semplicemente la definizione che Benjamin deduce dal confondere la fondazione di una rappresentazione sempre particolare e provvisoria del diritto con l’immediata manifestazione della giustizia. L’interpretazione di Derrida procede lungo una traccia ormai segnata: certamente la violenza che fonda il diritto è mitica in quanto è la rappresentazione di una logica di dominio, tuttavia la Gewalt che pone il diritto non si perde nell’atto della fondazione, ma resta in ogni sistema giuridico come violenza conservatrice, un’ambiguità che denuncia la logica di dominio dietro ogni presunta rappresentazione della giustizia. Ogni rappresentazione della giustizia nella forma del diritto è un “privilegio dei re, dei grandi e dei potenti”, correttamente sintetizza Derrida, ma egli non procede oltre, non ne deduce che la Gewalt, proprio perché può fondare soltanto una rappresentazione, espone alla critica il diritto scaturito dal privilegio dei potenti: «Gli esempi di quest’ambiguità (Zweideutigkeit) si moltiplicano, la parola ricorre almeno quattro volte; c’è quindi ambiguità “demoniaca” di questa posizione mitica del diritto che è nel suo principio fondamentale una potenza (Macht), una forza, una posizione di autorità e dunque, come suggerisce Sorel stesso, che Benjamin sembra qui approvare, un privilegio dei re, dei grandi e dei potenti: all’origine ogni diritto è privilegio, una prerogativa. In quel momento originario e mitico, non c’è ancora giustizia distributiva, nessun castigo o pena ma soltanto “espiazione” (Sühne) piuttosto che “retribuzione”» [p. 127]. Che sia il principio del potere e della forza a decidere sulla rappresentazione sembra assodato, tuttavia il problema che la trattazione della violenza mitica espone consiste nel fatto che questa non agisce sulla rappresentazione storica del diritto, dove la giustizia distribuisce e retribuisce pene e privilegi seppure non secondo un principio di uguaglianza, ma agisce direttamente sulla nuda vita, la vita naturale non ancora storica. Forse a nessun altro luogo come in quello concernente la nuda vita si addice il sottotitolo di Forza di legge: il “fondamento mistico dell’autorità”. L’autorità che la Gewalt mitica fonda pretende una maggiore originarietà rispetto a ogni diritto storico particolare, pretende di essere giusta in quanto non rappresentabile e come tale esente da ogni possibilità di critica: la violenza mitica opera come destino, direttamente sul vivente colpevole semplicemente perché vive, agisce sulla creatura e non sull’uomo storico e sul cittadino. Questo è un passaggio cruciale per esplicitare la nostra critica non tanto all’analisi quanto alle conclusioni di Derrida: non ci sembra ci sia in Benjamin alcuna nostalgia di un’origine precedente all’affermarsi del diritto, nessuna auspicabile presenza da riconquistare contro la violenza della rappresentazione. Prima della rappresentazione e del diritto non c’è la nuda vita esposta alla violenza indiscriminata del destino; prima del diritto non c’è la presenza della giustizia; prima della storia non c’è alcuna origine, nessun “fondamento mistico dell’autorità”. Il destino in quanto espressione della Gewalt mitica è già una forma diritto, espressione dell’autorità degli dei sugli uomini, e la concezione stessa della sacralità della nuda vita è un prodotto storico.
Ulteriore prova del fondamento storico di ogni autorità è la tematizzazione benjaminiana della violenza divina, che si contrappone alla violenza mitica non perché più originaria dell’origine mitica, ma in quanto effettivamente storica. Derrida stesso ne sintetizza chiaramente il carattere: «La violenza divina è la più giusta, la più effettiva, la più storica, la più rivoluzionaria, la più decidibile o quella che decide di più. Ma, in quanto tale, essa non si presta ad alcuna determinazione umana, ad alcuna conoscenza o “certezza” decidibile da parte nostra. Non la si conosce mai in se stessa, “come tale”, ma soltanto nei suoi “effetti”. I suoi effetti sono “incomparabili”». [p. 132] La violenza divina è “giusta” non perché originaria, non perché pone un fondamento “mistico”, non rappresentabile, a cui dover tornare mediante la rivoluzione ad esempio, ma in quanto produce effetti “incomparabili” per l’uomo. La violenza divina è storica; storica è anche la violenza mitica, ma solo in quanto l’esercizio della critica ne ha svelato, dietro il presunto “fondamento mistico”, il potere e la forza come suo unico principio; invece, la violenza divina è immediatamente storica, inscritta direttamente nel tempo storico, è la storia stessa in cui l’uomo è immerso e in cui si costituisce in quanto uomo. Dunque, la critica della violenza è la premessa della violenza rivoluzionaria, che rompe la continuità del potere rappresentato dal diritto e pone un nuovo inizio, senza precedenti, una possibilità per l’uomo di farsi portatore dell’immediata manifestazione della violenza divina? Sembrerebbe la conclusione attesa fin dall’inizio del saggio, ma, come scrive Derrida, «nelle ultime righe si recita un nuovo atto del dramma o un colpo di scena». [p. 131] Prima di tutto, la violenza rivoluzionaria non è la violenza divina per un motivo essenziale: la violenza divina è irrappresentabile, quindi neanche la violenza rivoluzionaria ne può essere la rappresentazione; piuttosto la violenza rivoluzionaria è possibile, non deve giustificarsi di fronte a nessun fondamento d’autorità, né tanto meno davanti al diritto, ma anch’essa non può essere invocata a manifestare la giustizia pura. E, allora, di chi è la firma che la violenza divina pone sulla giustizia, si domanda Derrida: «Essa firma, quest’ultimo indirizzo, e vicinissimo al nome di Benjamin, Walter. Ma essa nomina anche la firma, l’insegna e il sigillo, nomina il nome, e ciò che si chiama die waltende. Ma chi firma? È Dio, il Tutt’Altro, come sempre. La violenza divina avrà preceduto ma anche dato tutti i nomi. Dio è il nome di questa violenza pura – e giusta per essenza: non ce ne sono altre, non ce n’è alcuna prima di essa, e davanti alla quale essa debba giustificarsi. Autorità, giustizia, potere e violenza sono tutt’uno in lui» [p. 134]. Ecco, definito chiaramente da Derrida, il “fondamento mistico dell’autorità”: l’unica autorità è Dio, Dio è prima di ogni rappresentazione umana della Gewalt in quanto ha “dato tutti i nomi” prima che l’uomo potesse nominarli. La creazione di Dio precede ogni creazione umana, tra cui il diritto, che è destinata inesorabilmente alla decadenza (Verfall) in quanto non può attingere a un fondamento che resta sempre “altro”. Secondo Derrida, è ancora alla divina violenza che governa (waltende) che Walter si affida in quanto singolo che non crede alla capacità umana di realizzare la giustizia. Che sia fatta la volontà di Dio: senza esagerare potrebbe essere questa la conclusione dell’interpretazione derridiana di Zur Kritik der Gewalt, da cui emergerebbe un pensiero anti-illuminista, impolitico, irresponsabile, ambiguo e, dunque, potenzialmente “complice con il peggio”. Stiamo esagerando? Leggete allora la conclusione di Derrida stesso: «Ciò che, per finire, trovo più preoccupante, anzi insopportabile in questo testo, anche al di là delle affinità che mantiene con il peggio (critica dell’Aufklärung, teoria della caduta e dell’autenticità originaria, polarità fra linguaggio originario e linguaggio decaduto, critica della rappresentanza e della democrazia parlamentare, ecc.), è in fondo una tentazione che lascerebbe aperta, e in particolare ai sopravvissuti o alle vittime della “soluzione finale”, alle sue vittime passate, presenti o potenziali. Quale tentazione? Quella di pensare l’olocausto come una manifestazione ininterpretabile della violenza divina […]». [pp. 141-142] Al di là dell’utilizzo eccessivamente disinvolto della terminologia benjaminiana, che tuttavia è ben lungi dall’eludere un certo carattere evocativo, Derrida dimentica nelle sue conclusioni che nessuno può arrogarsi il privilegio di farsi rappresentante della violenza divina, nessun uomo, gruppo, epoca storica o altro, tanto meno i nazisti: “non è altrettanto possibile, né altrettanto urgente per gli uomini, stabilire se e quando la pura violenza si sia realizzata in un determinato caso”, scrive lo stesso Benjamin. Ciò deve sempre rammentare la critica della violenza, che dunque è filosofia della storia, che denuncia l’infondatezza di ogni rappresentazione che si presenta nella forma dell’autoritarismo e del dominio. Le conclusioni di Derrida non rendono giustizia alla sua stessa analisi, sono troppo segnate dal riferimento a una teoria della caduta o del declino (Verfall), che egli fa derivare da quella che definisce matrice schmittiana e heideggeriana.

PUBBLICATO IL : 07-02-2005
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