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Il racconto degli altri. L'universalismo dialogico di Seyla Benhabib
Intervista a Seyla Benhabib
di Giorgio Fazio, Ottavia Nicolini

Nel suo ultimo lavoro Lei sembra voler delineare i tratti di un modello che si colloca a metà strada tra il multiculturalismo e l’universalismo, un tentativo per altro di estremo interesse nell’attuale dibattito femminista. Partiamo dalla questione fondamentale che attraversa tutto il suo lavoro: cosa è l’identità e quali sono i problemi che questo tema oggi pone alla politica?


Per iniziare con Hegel l’identità è sempre “l’identità dell’identità e della differenza”, in altre parole, l’identità è sempre una categoria dinamica che include la differenza, che include l’altro/a e l’alterità in sè. Io penso che questo principio sia fondamentale anche per il modo in cui noi comprendiamo la cultura. Ciò che ho fatto nel mio ultimo libro I diritti degli altri infatti è articolare una teoria narrativa della cultura secondo la quale la cultura stessa giunge ad identificarsi solo passando attraverso narrative conflittuali e contraddittorie, che contengono sempre un riferimento agli “altri”. Il “Noi” presuppone sempre un “Loro”: c’è sempre un modo in cui “Noi” facciamo le cose che è opposto al modo in cui “Loro” fanno le cose. E’ interessante ricordare che una delle fondamentali differenze tra i Greci e i Barbari è che i Barbari sono “coloro la cui lingua noi non comprendiamo”. “Oi Barbaroi” in Greco significa non quelli che non hanno una lingua e neppure quelli che non hanno una civiltà – come voi sapete i Greci erano molto preoccupati del fatto che i Persiani stavano per distruggere le loro città - ma piuttosto “quelli la cui lingua noi non comprendiamo”.
Dunque io direi: ogni cultura si basa su narrative che articolano differenze, che pensano la relazione tra identità e differenza; se quindi le culture si basano su narrative, il problema della differenza non è esterno ma interno alle culture stesse. In altre parole il dialogo narrativo di ciascuna cultura con l’altra è fondamentale e penso che questa tesi sul modo in cui la cultura si sviluppa, sia di natura tanto filosofica quanto empirica.

Da un punto di vista normativo universalismo significa per me aprire lo spazio di quello che io chiamo universalismo interattivo, che è la condizione di possibilità delle varie risignificazioni prodotte dall’essere umano e la condizione per comprendere che esiste una realtà dialogica, che è tanto individuale quanto collettiva. In molta tradizione filosofica occidentale noi abbiamo una rivendicazione di universalismo che implicitamente tenta di escludere l’alterità: se l’uomo è l’animale razionale – logon echon – dove si colloca la linea di confine tra ragione e natura, mente e corpo, razionale e non razionale, uomo e donna? Dove collochiamo questa linea divisoria, chi sta dentro e chi sta fuori? Se noi prendiamo tutte le definizioni dell’umano come on logon echon, come l’animale che parla, cosa accade al femminile della specie che la tradizione ha considerato incapace di ragionare benché in grado di parlare? Se la donna sembra non essere capace di ragionare allo stesso modo dell’uomo, allora sembra più legata alla sfera della natura. Dunque, la questione dell’universalità automaticamente conduce alla problematica della differenza tra i generi e tra le culture.
Per me in ogni caso una tale critica all’universalismo non si risolve né in una posizione relativistica o scettica, né in una demistificazione decostruttivista. Ciò che più mi interessa è la possibilità di pensare l’universalismo in modo dialogico e interazionale, di pensarlo cioè come un’ idea regolativa, come un progetto che viene costruito attraverso la nostra narrativa e la narrativa del sè e dell’altro/a. Di conseguenza, il compito dell’universalismo è quello di permettere che l’altro/a racconti la sua propria narrativa, e per noi di arrivare ad una comprensione reciproca.
Io sono una kantiana, per questo credo si debba avere un rispetto universale per l’altro, come essere che ha la possibilità di essere fine in se stesso. Ma il rispetto che io ho verso l’altra come essere capace di essere un fine in sé significa anche che io devo ascoltarla, che ho l’obbligo di ascoltare la sua narrativa e capirla nei suoi propri termini. Ora, questo è molto difficile sia da un punto di vista psicoanalitico che culturale perchè le narrative dell’alterità ci rendono difensivi: tutti noi abbiamo blocchi, rigetti, paranoie e fantasie. Sfortunatamente, questo è esattamente quanto sta avvenendo in tutto il mondo, dove si assiste ad un momento di grande paranoia culturale da parte di molte culture: più tutti i nostri mondi di vita si incontrano, e meno siamo capaci di comprenderci tra di noi. In ogni caso, è questo il nostro compito: dobbiamo lottare tra il comprenderci e il non-comprenderci, il dire e il ridire.

La critica standard all’universalismo è che l’universalismo è esclusivo, che lascia da parte gruppi di umanità, che è dominante; tradizionalmente, c’è sempre un fondo di verità in tutto questo. Ma l’universalismo compreso in una prospettiva interattiva e dialogica è una specie di telos, una specie di imperativo verso il quale ci possiamo muovere. Da un punto di vista epistemologico questo non significa un impegno verso la trasparenza delle menti. Questa è una critica che è stata spesso rivolta ad i miei lavori e a quelli di Habermas, sui quali ho basato molte delle mie teorie. La critica sostiene che queste teorie si sviluppano a partire dal presupposto di una mente idealistica e trasparente a se stessa. Ma il consenso, sottolineo, non è un idillico stato di unione, è piuttosto una forma di dialogo che comprende sia la comprensione che l’incomprensione. Come sostiene Richard Rorty, il punto è portare avanti la conversazione, perchè è soltanto attraverso questa che abbiamo la nostra unica occasione per continuare a chiarire le incomprensioni e lasciar sorgere nuove domande. E’ un principio regolativo quello di lasciare che la narrativa dell’altro/a e dell’alterità sia parte della conversazione. Ho sviluppato la cornice filosofica di questa teoria in “Situating the Self” pubblicato in Inglese nel 1992 (Routledge, Kegan and Paul), e su questa cornice ho basato le analisi più politiche in “The Claims of Cultures” (Le Rivendicazioni dell’Identità Culturale), e The Rights of Others. Come voi potete vedere questa cornice filosofica è stata certamente ispirata da Habermas con il quale ho studiato, ma è anche molto vicina al lavoro di Paul Ricouer e io sto scoprendo la mia vicinanza a Ricouer sempre di più con il passare degli anni.

Mi piacerebbe continuare ad approfondire questa tematica collegandola ai suoi studi su Hannah Arendt. Nel suo libro "The Reluctant Modernism of Hannah Arendt" Lei sostiene che, se davvero vogliamo comprendere il pensiero di Arendt, dobbiamo prestare attenzione alle sue due differenti matrici. Una, ovviamente, é quella della filosofia esistenziale tedesca che lei studiò sotto la guida prima di Heidegger e poi di Jaspers; l´altra invece, riguarda il suo essere una donna ebrea, fatto di cui Arendt fece drammatica esperienza. Il quadro da Lei delineato lascia intravedere una sorta di inconciliabilità tra le due matrici in quanto la sola filosofia esistenziale tedesca sembra non essere in grado né di cogliere né di afferrare il problema delle identità culturali, sociali e di genere. Siamo di fronte al lato non visto della Luna da parte di questo tipo di filosofia?


Fin da quando ho scritto, dieci anni fa, "The Reluctant Modernism of Hannah Arendt"1, non ho mai cambiato idea su questo punto. Anzi, sono sempre più convinta che, per comprendere Arendt, sia indispensabile comprendere queste due differenti matrici del suo pensiero. La relazione tra Arendt e Heidegger, come ho scritto nel capitolo 4 del libro e come ho avuto modo di spiegare in occasione del "Festival di Filosofia" di Roma (Maggio 2006), ancora oggi é una fonte di grandi controversie. Io comunque non ne voglio parlare dal punto di vista personale, quanto piuttosto dal punto di vista filosofico. Io penso che Arendt in "Vita Activa" abbia compiuto una revisione del pensiero di Heidegger assolutamente fondamentale. Arendt ha aperto e sviluppato uno spazio che era stato intravisto anche da Heidegger stesso quando ha introdotto la categoria del Mitsein e quando ha affermato che in-der Welt-sein é sempre mit- ein-ander-sein. Mitsein significa che essere nel mondo é sempre essere con altri e che essere con altri é una categoria fondamentale. Si potrebbe dire che, nonostante il fatto che Essere e Tempo sia stato scritto dal punto di vista del Das Man, ovvero del soggetto isolato, il concetto di Mitsein e di intersoggettività é stato messo a tema da Arendt. Arendt in questo é simile a Karl Loewith che scrisse negli stessi anni sulla questione dell´intersoggettività in Heidegger. Ella fu una fra i pochi studenti di Heidegger che prese questa categoria seriamente e che la sviluppò in una filosofia della pluralità, natalità e mondanità (worldness).
La mia tesi é che nel fare questo Arendt abbia anche risemantizzato la nozione aristotelica di praxis (linguaggio e azione), prattein e legein, in una originale filosofia dell´azione e dell´ "intreccio delle relazioni umane". Proprio qui, in questo punto, io colloco il suo fondamentale oltrepassamento dell´ Existenzphilosophie e, come ho già argomentato nel mio libro, é questo movimento oltre la Existenzphilosophie verso l´intersoggettività e il linguaggio che ha anche ispirato Jürgen Habermas e il suo lavoro "Storia e critica dell´opinione pubblica".
Tuttavia, perché non basta dire solo questo? Ciò non é sufficiente perché quando si indaga lo sviluppo del suo pensiero dal punto di vista storico e in maniera sistematica si scoprono altre cose. Dopo aver finito la dissertazione di dottorato su Sant´Agostino - che, inoltre, ho approfondito lo scorso semestre con i miei studenti e che é davvero un testo incredibilmente interessante e sorprendente - voglio dire incredibile se pensiamo che è la una tesi di dottorato di una giovane donna che avrà avuto più o meno 22-23 anni, 25 quando l´ha finita!- subito dopo Arendt comincia a preparare la sua Habilitationschrift, prima che la sua carriera venisse completamente distrutta dall´ascesa del Nazismo, lavorando su Rahel Varnhagen. Ma come e perché Arendt decise di lavorare su Rahel Varnhagen, una figura del romanticismo tedesco, una donna ebrea che ha dato vita ad un Salotto nella Germania di fine ´700, inizio ´800? Questa é una domanda interessante! Io ho sentito dire, ma purtroppo non posso documentarlo, che in effetti fu Martin Heidegger a suggerirle di lavorare su Rahel Varnhagen, idea che in seguito fu appoggiata anche da Jaspers. Il libro su Rahel Varnhagen é un lavoro più letterario che filosofico. Perché Arendt lo scrisse? E come mai portò con sé il manoscritto a Parigi? In effetti il libro non fu immediatamente pubblicato in Germania. La prima edizione risale al 1957 in Inglese; solo nel 1959 in edizione tedesca. Si potrebbe dire che il libro é il risultato della sua lotta esistenziale. Ironicamente Arendt non ebbe per Rahel Varnhagen nessun tipo di rispetto; piuttosto Arendt scelse di mettere a fuoco nella personalità e nella vita di Rahel l´illusione di un certo segmento di ebrei tedeschi - Bildungsburgertum - i quali erano convinti che formandosi una loro personalità attraverso una determinata educazione, avrebbero potuto evitare i paradossi dell´essere ebrei nella società tedesca.
Così come molti hanno già argomentato, l´ultimo capitolo del libro é "proto-sionista" nel senso che sostiene una tesi di non soluzione del paradosso dell´assimilazione. Come ebreo/a si può diventare o parvenue o pariah; e solo il pariah autocosciente può resistere culturalmente e politicamente alla società borghese dominante.
Anche prima dell´incontro con il totalitarismo anti-semitico del 1930, già nel 1926-27 Arendt stava lavorando su Rahel Varnhagen. Con certezza, grazie alla sua biografia, noi ora sappiamo anche che ella era dentro la politica ebraica, che divenne una grande amica di Kurt Blumenfeld, un leader del Sionismo tedesco che cercava di organizzare i giovani studenti tedeschi ad andare in Israele. Essi svilupparono una lunga amicizia e quando Arendt fu arrestata in Germania nel 1933 dalla Gestapo, stava raccogliendo delle informazioni per Blumenfeld sull´esclusione degli ebrei dalle maggiori associazioni professionali tedesche. Conseguentemente, io penso che sia davvero impossibile comprendere Arendt come pensatrice politica senza riflettere sulla sua esperienza all´interno della questione ebraica. In fin dei conti, ella non fu socialista, anche se il suo secondo marito Heinrich Blücher fu un membro della Lega Spartachista, fedele a Rosa Luxemburg. E anche se non fu Sionista, durante il suo esilio a Parigi, lavorò in un´organizzazione incaricata di mandare i bambini ebrei provenienti da tutta l´Europa in Palestina. In questo periodo l´unico tipo di politica che Arendt portava avanti fu la politica degli immigrati ebrei; ella partecipò anche alla Conferenza Mondiale Ebraica. Queste prime esperienze sono dunque cruciali nella sua definizione e in questo senso é impossibile per noi comprendere veramente Arendt senza riferirci a queste due differenti matrici.
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A questo punto però vorrei analizzare l´approccio metodologico da Lei utilizzato nel suo studio su Arendt. Il modo con cui Lei ha interrogato la filosofia di Arendt infatti mi sembra diametralmente opposto alla modalità con cui, ad esempio, Heidegger era solito presentare ai suoi studenti il pensiero e la figura di Aristotele - Aristotele nacque, lavorò e morì. Come mai allora secondo Lei radicare la filosofia di una pensatrice o di un pensatore all´interno di un contesto storico , dentro un corpo, può dare risultati così fecondi per la comprensione e la critica di quel pensiero?

Lei si sta certamente riferendo alla delicata questione del contesto e, in particolare,al ruolo del contesto nella filosofia. Quanto peso devono avere i dettagli biografici nello studio di un filosofo? Quanto i fatti storici e culturali ci aiutano nella spiegazione dello sguardo di un pensatore? Certamente Heidegger fece parte di quel dialogo oltre il tempo e lo spazio delle grandi menti, anche se non è sbagliato ritenere che ci sia una sorta di hybris nel pensare che la filosofia possa completamente rimuovere la sua propria specificità, che essa sia un dialogo nel tempo e nello spazio sub specie aeternitatis. Mi lasci rispondere alla sua domanda così: prima di lavorare su Arendt scrissi la tesi di dottorato su Hegel ("Natural Right and History: An Essay in Modern Political Thought", Yale University, 1977). I credo, insieme ad Hegel, che la filosofia abbia un´essenza temporale e storica, ma che non possa essere ridotta a questo. Piuttosto, invece, ogni filosofia deve essere auto-riflessiva sulle sue condizioni di possibilità. Questo in fondo è ciò che intende Hegel quando dice che la filosofia è "il proprio tempo compreso dal pensiero" (Prefazione, "La filosofia del diritto"). Ciò significa che noi dobbiamo andare oltre il nostro tempo ma anche lottare per comprendere i nostri tempi.

Anche se Heidegger scrive sulla categoria della temporalità e della storicità mi sembra che egli non le interpreti mai adeguatamente. Questo potrebbe essere la conseguenza dello sforzo da lui compiuto nel differenziare il suo proprio concetto di storicità da quello dello storicismo che, come si sa, si fonda sulla credenza che ogni periodo sia egualmente vicino a Dio. Heidegger si occupò molto di Dilthey. La sezione finale di "Essere e tempo" tratta della Lebensphilosophie di Dilthey. In questo contesto Heidegger prende le distanze da Dilthey, ma nel prenderne le distanze prova a collocare la sua filosofia al di là di ogni riferimento storico. Questo è impossibile però.
Per fare un esempio: non è possibile capire le categorie di Vorhandensein e di Zuhandensein in "Essere e Tempo" senza comprendere che noi ci stiamo già muovendo in un universo tecnologico. Questo non è il mondo della polis; noi siamo già nell´universo della tecnoscienza capace di fare diventare il mondo un oggetto. La questione della tecnica, centrale nella filosofia di Heidegger, è, in fondo, ciò che veramente svela il modo in cui la storicità ha segnato il suo pensiero.

Come ha ripetutamente sottolineato, la cultura è sempre qualcosa di dinamico e aperto che si costituisce attraverso un processo continuo di differenziazione e mediazione con l’altro. Negli ultimi anni tuttavia assistiamo nella sfera pubblica all’incremento di slogans e politiche identitarie: come spiegare questo fenomeno sociale e quali sono i pericoli collegati?

Se assumiamo il principio che “l’identità è l’identità dell’identità e della differenza” e comprendiamo la natura costitutiva dei differenti progetti dell’identità, diventa molto importante osservare come le culture vengano spesso ascritte in prima istanza ad un linguaggio essenzialista, per dividere le persone tra di loro piuttosto che riunirle. In particolare, in un momento in cui il mondo si unifica, economicamente e tecnologicamente, non si è sviluppata né un’etica né una cultura cosmopolitica; al contrario, la tendenza dominante è quella di erigere sempre più frontiere. Perché sta accadendo ciò? Questa non è una domanda filosofica ma di carattere sociologico. Perché nel momento in cui sono cresciute così tanto la comunicazione tra le culture e la velocità con cui noi possiamo raggiungerci, assistiamo anche ad un crescente antagonismo tra le culture? Una delle ragioni è l’accelerazione dell’esperienza nello spazio e nel tempo. Come tutti noi sappiamo, la cultura è essenziale per definire chi noi siamo come esseri umani, essa ci forma attraverso il nostro linguaggio, la nostra crescita, il nostro habitus. Molti di noi nel mondo di oggi sono membri di più di una cultura, abbiamo culture locali, culture etniche, culture transnazionali, culture di genere etc. Tutto questo è parte di noi. Però, a causa dell’intensificarsi dei contatti nello spazio e nel tempo, più veniamo a trovarci insieme, come in un aeroplano, e meno siamo in grado di comunicare. L’aeroplano è una splendida metafora per ciò che sta accadendo nel mondo intero: siamo sempre seduti accanto a stranieri ma non abbiamo tempo per una reale intesa, una Verständigung, una comprensione comunicativa. Di conseguenza ogni cultura ricorre ad una grande immagine elettronica dell’altra, ed in questo contesto è facile parlare in termini di immagini, caricature, riduzioni, perchè la civiltà tecnologica ci spinge insieme, senza darci abbastanza spazio per capirci realmente l’uno con l’altro. In un aeroplano hai bisogno di 6 o 8 ore per iniziare una conversazione e….che tipo di conversazione puoi avere?! Ci avviciniamo tra di noi velocemente, senza essere capaci di comprenderci. Aprirsi e comunicare realmente con l’altro è qualcosa che ci minaccia, perchè ci sono aspetti dell’altro che ci fanno paura e non ci piacciono; ma per iniziare realmente il progetto della comunicazione non c’è possibilità di evitare il dialogo, sebbene questo sia esattamente ciò che noi stiamo facendo. Siamo piuttosto costantemente gettati l’uno vicino all’altro negli aeroplani; diventiamo stranieri globali: è questo il dilemma sociologico e questo spiega perché l’idea di un clash of civilization è divenuto cosi popolare; perchè esso in fondo corrisponde a qualche nostra esperienza vissuta.

Lei attribuisce un’importanza fondamentale alla nozione di auto-identificazione. Secondo lei l’identità deve essere sempre il risultato di processi di auto-narrazione, non il frutto di processi di identificazione sociale gestiti dall’alto, come tali intrinsecamente autoritari. Come può questo principio costituire una guida per risolvere la controversia accesasi negli ultimi anni nella teoria politica, tra – come ha felicemente riassunto Nancy Fraser – il paradigma del riconoscimento e quello della redistribuzione?

Lei ha assolutamente ragione nel sostenere che la possibilità di sviluppare narrative di identificazione dipende non solo da processi culturali, ma anche dalle strutture socio-economiche di potere. Chi ha il potere per parlare? E a nome di chi parla e perchè? Chi ha il potere di articolare un’identità in pubblico per un gruppo di persone e perchè? La questione del controllo sulle narrazioni è profondamente connessa alla distribuzionbe socio-economica nella società, perchè la marginalizzazione economica significa anche la mancanza di potere nel definire ed identificare se stessi. E’ assai interessante che molti lavori delle origini della storia della working class e del movimento delle donne parlino degli “invisibili che diventano visibili” o del “dare voce alla maggioranza silenziosa”. “Dare voce” ed “emergere dall’invisibilità” sono sempre i nomi di battaglie di gruppi marginalizzati, come poveri, lavoratori, donne, gente del terzo mondo che reclama voce in pubblico.
La redistribuzione, che è il fine della giustizia socio-economica, può essere parimenti compresa quindi come la chance di avere un eguale accesso ai mezzi per autodefinirsi; la possibilità cioè di avere non solo un uguale accesso ai mezzi del reddito e del potere, ma anche ai mezzi che consentono di articolare una definizione di sè. Penso che Nancy Fracer abbia rielaborato bene questo concetto quando ha evidenziato come la giustizia abbia sempre due facce: la redistribuzione e il riconoscimento. E’ interessante notare che gli elementi di questa nozione possono già essere trovati nell’opera di John Rawls.
Rawls parla infatti dei “beni primari”, come reddito, potere, accesso e opportuità, intendendo con essi quei beni che noi vogliamo, che ciascuno di noi può volere. Tuttavia tra essi egli include anche le basi del rispetto di sè. Nella mia prospettiva il rispetto di sè implica necessariamente la narrazione di sè, dal momento che non possiamo avere rispetto per noi stessi se non abbiamo anche la capacità di raccontare la nostra propria narrativa.
Questo è il punto sul quale la tradizione kantiana liberale e la tradizione kantiana che proviene dalla Teoria Critica si trovano d’accordo. L’unica differenza che io vedo – che ho tentato di chiarire nel mio ultimo lavoro - è che il linguaggio del riconoscimento al momento attuale non è sufficientemente fondato sulle narrative e sui discorsi. Si è attestato sul paradigma hegeliano, nel quale giocano un ruolo maggiore gli aspetti psicologico-morali, mentre io vorrei spingere il linguaggio del riconoscimento in misura maggiore nella direzione della narratività. Se non includiamo questa dimensione infatti, come possiamo sapere che il riconoscimento è stato raggiunto? Le lotte sociali sono anche lotte per narrazioni pubbliche. Per questa ragione ho preferito lavorare nell’etica comunicativa con un paradigma della narratività, più mediato linguisticamente, piuttosto che ricorrere alla nozione di riconoscimento, sebbene tra i due paradigmi sussistano interessanti momenti di convergenza.

Lei sostiene che il modello della politica deliberativa non può essere confuso con il modello della politica liberale, come per esempio quello rawlsiano, che della politica liberale costituisce una sorta di paradigma. La differenza fondamentale può essere vista nella differenza di significato e di ruolo che in entrambi gioca la sfera pubblica. Perchè secondo lei è il modello della politica deliberativa il migliore approccio per comprendere e risolvere i problemi legati crisi dello stato-nazione e ai processi di globalizzazione?

Il progetto della politica deliberativa si muove su diversi livelli: tanto su un livello filosoco quanto su un livello istituzionale. In questo secondo livello ho lavorato per sviluppare un dialogo tra le due tradizioni del kantismo – quella rawlsiana e quella della teoria del discorso.
La maggiore difficoltà del modello rawlsiano tuttavia è che esso si fa portatore di un concetto di ragione pubblica che impone un ideale regolativo troppo rigido, che contempla un momento soltanto della sfera pubblica. Per Rawls infatti, la ragione pubblica è concepita in ultima istanza sul modello del modo di ragionare dei giudici nelle corti costituzionali. La sfera pubblica nel modello rawlsiano non è una sfera in un senso sociologico e la ragione pubblica concerne solo il piano della giustificazione, non quello della strutturazione. Non sono soddisfatta da questo modello e penso che debba essere pensata un’articolazione più ampia delle differenze tra posizioni pubbliche e debba essere concepita una maggiore interazione tra queste e, da una parte la sfera pubblica e dall’altra la ragione pubblica. La questione fondamentale è che nel modello rawlsiano tutte le differenze e le diversità sono comprese essenzialmente in termini di diversità tra Weltanschauungen, tra visioni del mondo. Ciò perchè la maggiore preoccupazione di Rawls è quella di distinguere verità teologica e verità politica: per lui, la linea cruciale è tra religione e politica, tra verità confessionale e principi civici. Naturalmente ho un rispetto assoluto per questo progetto; esso è fondamentale per ogni società democratico-liberale, tuttavia il tipo di diversità e distinzione di cui io mi sono occupata è differente da quello pensato nel modello rawlsiano.
Ci sono differenze di genere, etnicità, linguaggio, cultura e nazionalità. Queste differenze possono qualche volta essere inscritte in visioni del mondo e possono essere determinate da queste ultime, qualche volta tuttavia possono non esserlo. Per esempio, l’Islam contemporaneo ha una visione del mondo unica? Gli islamici migranti in Europa condividono una comune visione del mondo? E se non la condividono, come possiamo ancora parlare di differenze culturali? Alcuni islamici praticano la clitoridectomia, altri la condannano. Alcuni combinano matrimoni, altri rigettano questa pratica. Alcuni rispettano il velo, molti altri dalla Turchia, l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia lo rifiutano.
E’ di questo genere di differenze che la politica deliberativa deve occuparsi.
Molte teorie pluraliste della democrazia vedono gli agenti politici come portatori di interessi e di preferenze già formati, come dei giocatori che si siedono ad un tavolo da gioco semplicemente per scambiare le loro fiches. La democrazia viene compresa così come una semplice contrattazione o aggregazione di interessi. Certamente queste sono dimensioni della democrazia. Tuttavia la democrazia deliberativa si concentra fondamentalmente sulla rinegoziazione, sulla discussione, sulla riapertura della questione degli interessi; tutte deliberazioni che non sono esogene ma endogene al processo democratico.
Io intendo l’interesse nel senso di Hannah Arendt, cioè come inter-esse, come qualcosa che esiste tra di noi. Il problema che subito viene posto è se un tale modello di democrazia deliberativa non esiga troppo dalla democrazia, se è vero che la politica ha a che fare fondamentalmente con la contrattazione e con la negoziazione. Facciamoci però una domanda: quali sono le unità di misura della contrattazione e della negoziazione? Su cosa si contratta? E, chi è che contratta? Se la democrazia fosse semplicemente basata sulla contrattazione e sulla negoziazione, senza alcun appello in qualche senso al bene pubblico, allora i perdenti del gioco perderebbero ogni fiducia in essa e non crederebbero di poter vincere al prossimo round.
Non resterebe loro che abbandonare il tavolo da gioco. Non è questo ciò che accade sotto le condizioni estreme della corruzione e della dittatura? La gente spegne, abbandona il gioco della democrazia. In altre parole, ci deve essere una fede condivisa che le regole del processo democratico siano esse stesse eque, nel senso che indichino interessi comuni e un imparziale punto di vista, dalla cui prospettiva ognuno ha uno stessa quota. Se le regole sono così distorte che io sono sicuro di perdere sempre, allora perchè dovrei continuare a giocare? Non posso avere scelta: posso solo essere oppresso, sfruttato e forzato a giocare. Dopo però non possiamo più permetterci di parlare di democrazia, dobbiamo piuttosto parlare di dittatura.
In breve la democrazia è fondata su principi etici, che trascendono tutti i giocatori e fanno segno verso un bene pubblico.
Tornando al punto iniziale: può la democrazia deliberativa risolvere tutti i problemi della globalizzazione e dello stato nazionale? Io non penso questo. Alcuni problemi della globalizzazione devono essere risolti tramite lo sviluppo di istituzioni internazionali, istituzioni di governance globale – non governo globale – e questo è il nuovo lavoro che ho cominciato a fare.

Come, secondo Lei, l’Unione Europea può diventare un modello per queste nuove politiche su scala mondiale?

Esistono tre possibili scenari futuri per l’Unione Europea.
Una prima possibilità è che l’Unione Europea serva come modello di un “cosmopolitismo costituzionale”a livello mondiale e che sempre più stati, che hanno aderito ai criteri di Copenaghen, ne siano inclusi, a prescindere che si trovino o no geograficamente in Europa.
Un'altra possibilità è che il modello europeo sia imitato da gruppi di stati in regioni differenti e che ci sia una condivisione di sovranità e una suddivisione di autorità e funzioni sotto e sopra il livello dello stato. Ci sono regioni nel mondo che potrebbero essere candidate per questo: vedo l’America Latina come possibile prossimo candidato e non mi sorprenderebbe affatto se fosse la prima regione ad emulare il modello di sovranità post-nazionale dell’UE. Un'altra unità regionale potrebbe essere quella centrata attorno alla Turchia e le repubbliche post-sovietiche. Se la Turchia non viene ammessa nell’UE, rafforzerà la sua relazione con repubbliche pre-sovietiche come Azerbaijan, Kazakhstan e Kirgizistan. Temo questo sviluppo perché incoraggerebbe il nazionalismo regressivo turco e staccherebbe la Turchia dal progetto occidentale. Come ex-cittadina turca non celebro affatto questo progetto.
La terza possibilità è che nelle condizioni dell’attuale stato di crisi globale, questi modelli non abbiano alcun successo; l’Unione Europea potrebbe conseguentemente dissolversi sotto il peso delle sue contraddizioni e potrebbe continuare uno stato globale di conflitto di basso livello.
Certamente, l’attuale amministrazione statunitense con George W. Bush sta facendo il suo meglio per creare uno “stato globale di emergenza” con la sua propaganda sulla “guerra globale al terrore”

E’ molto importante ora come ora, lavorare attivamente per rafforzare le istituzioni multilaterali, per sviluppare strutture pubbliche di governance globale, partecipando alla riforma delle Nazioni Unite e creando una sfera pubblica tanto europea quanto transnazionale.
Queste istituzioni rappresentative a livello globale dovrebbero essere costruite senza seguire modelli pre-esistenti. Come sappiamo, le Nazioni Unite incorporarono la contraddizioni tra la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 da un parte e il principio della sovranità nazionale dall’altra, in virtù del quale gli stati violano i principi fondamentali della Dichiarazione. Benché la Carta delle Nazioni Unite limita la guerra ad atti di auto-difesa, nozioni come quella di “guerra preventiva” hanno minato la Carta e introdotto l’unilateralismo nella politica mondiale. Il problema è che oggi giorno gli Stati Uniti hanno il governo più anti-cosmopolita, più regressivo e sovranista che ci sia mai stato nella memoria recente! Sto sperando ancora che in Europa le forze progressiste ritornino e che l’Europa possa offrire un modello per il futuro, anche se devo ammetter che al momento l’ UE non ha la volontà né l’interesse di assumere un ruolo di leadership a livello mondiale ed è troppo appesantita dalle sue stesse contraddizioni. Quindi, il rafforzamento delle Nazioni Unite, allargando il Consiglio di Sicurezza a nuovi membri e dando all’ Assemblea Generale più autorità nel controllo delle truppe di peace-keeping sembra essere la migliore soluzione in questo momento. Forse, dovremmo dar vita ad un’ assemblea globale dei popoli, che rappresenterebbe direttamente non gli stati ma le popolazioni del mondo, molto più sulle linee del parlamento europeo. Questo favorirebbe la creazione di una sfera pubblica mondiale – una sfera di opinione sebbene non di decisione. In questo modo, possiamo essere capaci di superare o per lo meno di migliorare alcune delle contraddizioni dell’attuale sistema di stati, sebbene siamo destinati a vivere con questi ancora per lungo tempo.

(Traduzione dall'inglese di Ambra Gallina)

PUBBLICATO IL : 30-11-2006
@ SCRIVI A Giorgio Fazio, Ottavia Nicolini
 

 
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