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Pensare dopo Auschwitz. Nel centenario della nascita di Levinas
Intervista a Silvia Benso
di Cristina Guarnieri

1) Pensare dopo Auschwitz è uscito nel 1992. Professoressa Benso, il Suo libro è stato pionieristico in Italia e, probabilmente, in Europa. La letteratura allora esistente era soprattutto di provenienza americana: forse per una difficoltà avvertita dal vecchio continente, una sorta di rimozione della colpa?

Esistono vari motivi per spiegare la mancanza di una riflessione filosofica su Auschwitz nel suo centro geografico di accadimento. In Europa inizia abbastanza tardi, e, anche se forse spiace dirlo, molto spesso è occasionata da domande sul coinvolgimento del pensiero di Heidegger con il nazismo, e dalla conseguente questione se ci sia qualcosa, nel pensiero heideggeriano e per estensione europeo, che si presta naturalmente a progetti totalitari. Lontano dai confini europei, invece, la riflessione su Auschwitz inizia indipendentemente da Heidegger, anche se, come in Europa, l’interrogarsi teologico è all’inizio più diffuso di quella filosofico.
Storicamente, molti degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto si trasferirono in America, i più fortunati prima o durante l’accadere di Auschwitz, altri, reduci, subito dopo. È quindi abbastanza naturale che la riflessione su un evento che aveva interessato, nei suoi aspetti più drammatici, soprattutto loro, iniziasse dai soggetti vittime proprio a partire dai nuovi paesi in cui si trovavano a vivere. Certamente negli anni in cui uscì il mio volume in Europa si aveva ancora, e forse lo si ha anche adesso, quando l’indifferenza non prende il sopravvento, un certo giusto pudore a parlare dell’Olocausto. Forse per ragioni di colpa. In fondo le generazioni che hanno vissuto durante gli anni del nazismo sono tutte un po’ colpevoli, anche se non sempre direttamente, e una fenomenologia della colpa assume tratti interessanti, accomunanti vittime e carnefici. Ma la difficoltà a riflettere su Auschwitz in Europa era dovuta anche, temo, ad un certo senso di arroganza, ad un desiderio di voler ricominciare dopo Auschwitz non da Auschwitz ma da zero, facendo tabula rasa di ciò che era accaduto in precedenza—dar vita ad un inizio nuovo senza colpe dei padri da portarsi appresso. Di qui il fastidio, la cocciuta indifferenza rispetto a tutto ciò che riguardava il passato. Non so se, alla fin fine, il distanziamento geografico e il dilazionamento temporale fossero dovuti prevalentemente a rimozione o altro (per esserci rimozione bisogna forse, almeno a qualche livello, riconoscere la colpa); mi sembra evidente però che alla distanza geografica ha dovuto corrispondere una distanza temporale, ed oggi il tema di Auschwitz è diventato un luogo di riflessione filosofica abbastanza comune anche in Europa.
Rimane comunque difficile affrontare tale tema filosoficamente in maniera diretta, perchè di fronte ad un evento di male così grande abbiamo tutti le nostre giuste remore, le nostre esitazioni, il nostro timore di farne un nuovo evento speculativo, e così di strumentalizzarlo, di trasformarlo in puro oggetto di discorso, da ultimo di esercitare una nuova ulteriore violenza. Una volta che si decide di parlare di Auschwitz, rimane il problema fondamentale di come parlarne. Io stessa non sono arrivata ad affrontare questo tema in maniera diretta, cioé a partire dall’ebraismo, da Auschwitz, o da un senso di colpa. Ero interessata al problema della violenza nella storia, ed Auschwitz mi sembrò il caso più eclatante di violenza programmata, consapevole, deliberata. Così mi sono ritrovata a lavorare sul tema dell’Olocausto. Ancora adesso, però, mi sembra che il nucleo fondamentale in Auschwitz sia quello non della colpa ma della violenza, e che la scommessa ancora attuale sia quella di come affrontare, ed evitare, la violenza nella storia.

2) Nel Suo libro Lei prende le mosse da una forte posizione di Adorno: «Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte» (Dialettica negativa p.12). Qui, come Lei fa notare, si stabilisce un’analogia sconcertante tra prassi dello sterminio di massa, di cui Auschwitz è il modello, e il pensiero occidentale, in primis la filosofia kantiana con il suo concetto di autonomia. La Sua tesi è che Auschwitz costituisce un’arché, interruzione del modo di pensare metafisico. E’ ancora di questo avviso?

Sì, direi di sì. Auschwitz continua per me a costituire un punto di svolta fondamentale per il nostro modo di pensare. Ad Auschwitz si sono viste le aberrazioni, le atrocità a cui le categorie di pensiero sviluppate dall’occidente possono portare, e hanno infatti portato. In questo senso Auschwitz costituisce, o dovrebbe costituire, un compimento e una fine. Per fare degli esempi, non si può più pensare alla libertà nel senso di assoluta autonomia e indipendenza, al soggetto come a colui che si struttura in maniera indipendente dall’alterità, o che considera l’alterità come un mezzo per la propria autoaffermazione, all’universalità come al predominio dell’identico e dell’uguale, alla ragione come guida certa e affidabile per un progresso indiscriminato, al linguaggio come modalità di accesso veritiero al mondo, a Dio come a colui che è in grado di tenere insieme il senso della storia. Auschwitz ha rivelato non solo la menzogna ma soprattutto la violenza di tali concetti. La violenza vista ad Auschwitz però non è puramente concettuale, metaforica. Si tratta di una violenza fisica che elimina sei milioni di persone, di cui un numero altissimo bambini. Tutto ciò costituisce sicuramente un problema morale, riguardante il male radicale manifestatosi nell’evento. Ma si tratta anche di un problema logico e metafisico: Auschwitz rivela la contraddittorietà delle categorie della filosofia occidentale, che sembrano procedere in maniera opposta alle finalità per cui erano state delineate.
Non si tratta qui, sia ben chiaro, di condannarle a spazzatura, in maniera acritica e indiscrimanata. L’occidente ha visto dei momenti di pensiero altissimo, ha sviluppato delle categorie di pensiero che rimangono irrinunciabili—il concetto di persona, il principio di libertà individuale, le nozioni di diritto e di uguaglianza dei diritti, il concetto di rispetto dei diritti umani (e forse anche non umani). Ma Auschwitz pone in questione l’uso indiscriminato di tali categorie, che, se lasciate a se stesse, come quelle di autonomia e di libertà per esempio, divengono deleterie. Si tratta allora di richiamarle, per così dire, alla loro bontà, di decostruirle e orientarle in maniera diversa, ripensandole e riconfigurandole in maniera tale che Auschwitz non si ripeta, come dice Adorno. Levinas cerca di fare proprio questo: ripensa le categorie tradizionali non in senso ontologico, ma etico, e così dà loro un significato nuovo - non al servizio del Medesimo, ma al servizio di Altri. Auschwitz, allora, costituisce non solo una fine ma anche un inizio, l’inizio appunto di un modo di pensare diverso. In questo senso è un arché, ma un’arché che nasce come una frattura, quindi non un’origine solida, piena, non un fondamento metafisico. Auschwitz è un buco nero, una voragine che non si lascia comprendere, ad un tempo dannazione e speranza per il pensiero dell’occidente. Farne un’origine piena, fondante, metafisica vorrebbe dire strumentalizzare Auschwitz e così, ancora una volta, far violenza alle vittime.
Ora, vorrei chiarire come il fatto che Auschwitz costituisca un'arché non implichi per me che esso sia un evento eccezionale, irripetibile, unico, tale da porre in secondo piano altri eventi di violenza, di male, di sofferenza accaduti nella storia prima e dopo Auschwitz. Sarebbe irriverente, persino immorale stabilire paragoni tra forme diverse, o anche simili, di sofferenze. Il male, il dolore sono uno scandalo sempre, comunque e dovunque si manifestino, chiunque sia a perpetrarli o a subirli. Ciò che Auschwitz dovrebbe mettere in luce è proprio tale unicità della vita umana, e quindi di ogni suo sacrificio; ed è proprio per questo che Auschwitz costituisce un unicum; non perché sia un apax, ma perché costringe alla categoria dell’unicum come filtro ermeneutico di interpretazione storica.

3) In questi ultimi decenni, secondo Lei, è cambiato qualcosa nel panorama filosofico e culturale, possiamo dirci liberi dalla metafisica dell’identità che ci ha condotti all’aberrazione dei campi di sterminio nazisti? Auschwitz ha realmente sancito la morte definitiva di ogni pensiero della totalità?

Rispondere affermativamente richiederebbe un ottimismo che, di fronte alla situazione storica concreta, agli eventi che leggiamo sui giornali, costituirebbe una menzogna. No, a livello storico-politico-economico, ma anche culturale, non mi pare sia cambiato molto; si continua a uccidere, gli innocenti continuano a cadere vittime di mali terribili che chiamiamo economia di mercato, sviluppo, globalizzazione, difesa della libertà e della democrazia, religione, razzismo, sessismo, xenofobia, discriminazioni di vario genere, tutti fenomeni che in realtà sono vari volti assunti dalla violenza e dall’imperialismo di un sé cieco nei confronti della vita di altri. Mondo delle idee e mondo dei fatti non procedono come universi separati. Si vedono più volti diversi nelle nostre città, ma dubito che a tale pluralismo etnico corrisponda un vero multiculturalismo diffuso, un rispetto delle differenze profondo e radicato nella popolazione. Anzi, mi sembra che la xenofobia stia prendendo piede, anche alimentata da immagini mediatiche e titoli editoriali che presentano l’altro, il diverso, come un pericolo da cui difendersi, o almeno proteggersi.
Ora, in filosofia si è sicuramente diventati più sensibili a categorie più rispettose dell’alterità, della molteplicità, del pluralismo, della differenza, almeno all’interno di certe tradizioni filosofiche. Tale mutamento di orizzonte e di discorso filosofici è importante, direi fondamentale. Qui mi sembra che Auschwitz abbia insegnato una lezione—dolorosa, tragica, ma proficua. Ma fin tanto che il pensiero non trova un corrispettivo nel mondo della storia e dei fatti rimaniamo a livello di speculazione, che corre sempre il rischio di rimanere astratta. E il pericolo di un altro Auschwitz si ripresenta come uno spettro incombente sulla storia. Il problema è certamente quello, già platonico, della funzione della filosofia nel mondo della polis. Forse ha ragione Levinas, quando dice che della pace si può solo avere un’escatologia, e che funzione della filosofia è disdire continuamente il detto, evitare che il discorso si fossilizzi, mantenere aperte le domande, insomma, in maniera socratica, esercitare una funzione critica, dell’individuo e della società. Ma, almeno secondo Levinas, l’orientamento ad Altri dissolve la separazione netta tra teoria e prassi: essere etici non significa teorizzare l’etica, ma metterla in pratica, fare etica, accogliere l’altro che ha fame e sete. Insomma, forse ai filosofi è richiesto un po’ più di attivismo culturale, politico e sociale. Forse la filosofia, ancora una volta, come per Socrate, come per Platone, deve farsi militante in nome di un’ispirazione critica, di un’aspirazione ad una pace che si può solo dare in forma escatologica. Ricordiamoci che Socrate stava in piazza, in un luogo pubblico, non nel chiuso di una casa. Il contesto accademico, delle lezioni e delle classi è forse il primo luogo, ma non il solo, dove ciò si può mettere in pratica. Già la pedagogia, i metodi utilizzati, i temi affrontati nelle lezioni di filosofia, a vario livello, sono una via per implementare un cambiamento che non è tale se non è radicale. Cioè, se non cambia la vita alla radice.

4) Lei scrive che «l’altro cui il pensiero identificante nega ogni diritto di cittadinanza è l’ebreo» (p. 17). La teologia della sostituzione cristiana deve essere considerata anch’essa un «fenomeno totalitario che, in quanto tale, va abbandonato» (p. 19)? Oppure in che modo sarebbe possibile una svolta radicale? Il dialogo ebraico-cristiano può contribuire a questa svolta?

Tutto dipende da come si legge il concetto di sostituzione. Vorrei ricordare che la categoria della sostituzione ha un ruolo fondamentale nella delineazione della soggettività etica in un pensatore ebraico quale Levinas, che, senza mai nominare Auschwitz nel corso dell’opera, tuttavia dedica Altrimenti che Essere, il libro in cui la sostituzione viene tematizzata, precisamente alle vittime dei campi della morte e di tutte le forme di odio di un essere umano nei confronti di altri esseri umani. Fondamentale è allora la domanda: che cosa, o chi orienta la sostituzione? Il sé o altri? Mi pare che tutto provenga dalla risposta a tale interrogativo, che capovolge il nostro modo di rapportarci al mondo, alle decisioni, e ai fatti. Se sostituzione significa imporre sé sull’altro al punto di rimpiazzarlo, e in questo senso sostituirlo, allora è chiara la violenza di tale posizione. Se sostituzione significa farsi carico delle esigenze dell’altro così come dall’altro formulate, diventarne portatore, portavoce e testimone, allora la sostituzione è una via praticabile. Insomma, sostituzione come testimonianza, piuttosto che come rimpiazzamento; sostituzione eteronoma, non autonoma.
Ciò significa, però, rinunciare alla pretesa di essere in possesso di una verità che si vuole imporre come unica e assoluta. Da una parte come dall’altra. Non si ha dialogo se ciascuno dei parlanti pensa di avere un accesso privilegiato alla verità. La verità deriva forse invece dal dialogo stesso, forse è il dialogo stesso, in cui ciascuno si sostituisce all’altro nel senso di aprirsi alle esigenze dell’altro e farsene testimone. Il dialogo mi sembra un tema importantissimo in questo mondo in cui le differenze sono presenti, ma non sempre apprezzate. Non solo il dialogo tra cristiani ed ebrei, ma, in questo mondo che ha varcato i confini del Mediterraneo per diventare davvero globale, il dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti, scintoisti, ... atei. Il dialogo interreligioso è particolarmente importante, perché sono proprio le religioni che, in questi tempi di secolarizzazione, manifestano ancora pretese ultime alla verità. Ma ciò è pericoloso, perché è proprio da una verità erettasi ad assoluto che è scaturito Auschwitz.
Ora, sostituzione non significa abdicare la propria identità, ma ricostituirla come identità aperta. È l’esempio di Abramo, che esce dalla sua terra e va, e sul suo vagare fonda la sua nuova identità, l’identità di un popolo stesso. Per rimanere al dialogo ebreo-cristiano, vorrei qui ricordare come nel Vangelo, nella parabola del buon samaritano, che io ritengo fondamentale per il senso di tutto il Vangelo, a chi gli chiede chi sia il mio prossimo, Gesù risponde con una domanda, simile a quella iniziale, eppure di senso invertito. Chi è stato il prossimo di colui che aveva bisogno perché derubato e abbandonato sui bordi di una strada, povero ed affamato come lo straniero, l’orfano e la vedova, le figure bibliche di cui parla Levinas nella sua descrizione dell’altro? Non si tratta cioé di sapere chi sia il mio prossimo, ma di farsi prossimo; che è ciò che Levinas ha in mente, mi pare, con il concetto di sostituzione. Ecco qui un punto di contatto e dialogo tra due religioni, e chiunque osi avventurarsi sul terreno del dialogo a mio parere promuove le chances della pace, cioé del non ripetersi di Auschwitz.

5) Fackenheim scrive che Auschwitz è un «epoch-making event». Questo tremendum rende impossibile ogni storiografia che si fondi sulla concezione del tempo storico come di un continuum. Secondo Lei è casuale che siano stati pensatori di provenienza ebraica a farsi portavoci di una filosofia della storia altra, fondata sul discontinuo, sulla cesura, su una critica serrata al «tempo vuoto e omogeneo» (Tesi di filosofia della storia di W. Benjamin)?

No, direi di no, non è casuale. Ovviamente esistono ragioni bibliche, che poi vanno a formare l’identità religiosa del popolo ebraico; la chiamata di Dio costitusce sempre un’interruzione della routine quotidiana. Inoltre, la storia di Israele, come popolo, non come stato nazionale, è la storia di continue fratture, cesure, distruzioni. Certamente non la storia di un popolo vincitore ma di un popolo vinto, quindi impossibilitato a dare una sua continuità alla storia tramite nozioni quali il progresso, la libertà, l’imposizione del proprio ordine geo-politico-culturale. È inevitabile, penso, che la filosofia della storia di cui ci si fa portatori a livello intellettuale rifletta la propria storia. Dopo tutto, la filosofia è una riflessione a partire dalla vita.
Ciò che mi pare significativo in questa storia altra, alternativa, è però la verità che essa racchiude, e cioé il fatto che la storia, così come la vita, non procede secondo direttive unitarie, continuative, secondo un’unica trama; ci sono invece fili diversi, che si intrecciano, si rompono, si annodano, alcuni continuano, altri non vanno in nessun luogo. E ognuno porta in sé uno spaccato di vita, una verità, un senso, anche se solo agognato.

6) Lei critica l’ermeneutica filosofica che continua ad operare all’interno della categoria della continuità. La decostruzione, in quanto pensiero dell’interruzione, della differance, può considerarsi una sorta di correttivo della filosofia di Gadamer?

L’idea di una “fusione di orizzonti” mi preoccupa, perché mi chiedo sempre in che cosa consista tale fusione, se non si tratti, alla fin fine, di un annullamento o per lo meno un affievolimento delle differenze. Preferisco la prospettiva di orizzonti separati, anche se in comunicazione. E poi si dà il problema di quegli orizzonti con cui apparentemente non si ha nulla in comune. È possibile una relazione ermeneutica con essi? La prospettiva della decostruzione mi sembra un possibile correttivo, nella misura in cui l’insistenza è proprio sulla differenza che non accetta di venire ridotta, che sempre riemerge e rimette in movimento fusioni ormai prese per valide e scontate. Insomma, una specie di eterna giovinezza che rivitalizza le rughe della vecchiaia e il suo istinto alla sedentarietà e sedimentazione.
Però anche la decostruzione corre i suoi rischi, che sono quelli della rivoluzione permanente che non consente l’azione stabilizzante necessaria alla vita comune e alla soddisfazione delle ingiustizie; della serietà e gravità della ribellione che diventa protesta fine a se stessa, gioco edificante; insomma, il pericolo dell’estetizzazione, della filosofia come pure della politica. Per questo mi sembra che Levinas, questo pensatore che sulla differenza costruisce un’intera etica, costituisca un importante correttivo alla decostruzione stessa. Non è un caso, penso, che il suo nome compaia sempre più spesso come punto di riferimento costante nelle meditazioni di Derrida, che almeno a partire dal saggio Violenza e Metafisica ha fatto di Levinas uno dei suoi interlocutori preferiti (oltre che uno dei suoi amici più cari). Derrida stesso afferma che non si può decostruire la giustizia. Vale a dire, servono dei punti fermi. L’altro levinassiano è tale punto fermo.

7) Nel Suo libro Lei sembra affidare il compito della redenzione alla parola (p. 87). Il narrare storie è l’esperienza di salvezza? Che ruolo ha il linguaggio nell’economia del ricominciamento? Lei sosteneva che Auschwitz costituisce anche «un’interruzione nel linguaggio» (p. 89). Crede che la svolta linguistica del ventesimo secolo appartenga in modo essenziale al pensiero dopo Auschwitz?

Non so se narrare storie porti direttamente alla salvezza e alla redenzione, probabilmente no, perché allora la salvezza sarebbe facilmente ottenibile. Certamente però il narrare mantiene viva la memoria degli eventi passati, e quindi può costituire, come dice Benjamin, una di quelle piccole porte da cui può entrare il Messia. Ma senza garanzie. Il ruolo della memoria è importantissimo per forgiare un futuro diverso. Parafrasando Benjamin, è con il ricordo dei padri asserviti che si costruisce l’ideale dei liberi nipoti. Il futuro si nutre del suo passato. Rimuovere la memoria del passato è come condannarsi ad un futuro vacuo. Solo che la memoria è labile, un po’ perchè essa stessa debole, incapace di ricordare tutto, un po’ perchè facilmente falsificabile. Il racconto allora aiuta ad arginare questi due rischi, serve a contrastare il revisionismo e l’oblio. Il racconto ha un carattere sovversivo: ci ricorda di altre possibilità. Inclusa la possibilità che le parole stesse abbiano un altro significato rispetto a quello dominante. Sicuramente il linguaggio è importantissimo al ricominciamento. Non si ha ricominciamento senza memoria, ma non si ha memoria senza linguaggio. Però il linguaggio corre anche il rischio di essere vuotezza, chiacchiera, imposizione di un proprio senso al mondo, e quindi da ultimo il rischio è quello del solipsismo del soggetto, di cui era già consapevole Descartes e da cui ancora Husserl fa fatica a liberarsi. Ecco perché non si può privilegiare il linguaggio, ma piuttosto l’esperienza che il linguaggio racconta, l’evento che il linguaggio narra, la persona che nel linguaggio si fa voce e parola. Detto altrimenti, il linguaggio è espressione, ed è ciò a cui esso dà espressione che rimane fondamentale. Il linguaggio è interrotto ad Auschwitz perchè non riesce ad esprimere ciò di cui invece vuole parlare. Siamo senza parole, quelle usate precedentemente non valgono più, perché ciò che è successo vi si sottrae. Vale a dire, il linguaggio non possiede un’esistenza autonoma, serve alla comunicazione e all’espressione. Ecco perché la svolta linguistica del ventesimo secolo mi pare, per certi versi, estranea ad Auschwitz nella misura in cui si focalizza sul linguaggio come se questo avesse un’esistenza a sé. Come se si trattasse di un gioco. Bisogna poi intendersi quando si parla di svolta linguistica. Stiamo parlando della teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein? Della svolta in senso linguistico di Heidegger? Delle varie teorie ermeneutiche? O della filosofia analitica di stampo americano? In nessuno di questi casi, mi pare, il linguaggio si è piegato ad ascoltare la voce delle vittime di Auschwitz, che parla di sofferenza, di dolore, di male.

8) Il 4 aprile Lei ha tenuto una conferenza al Collegio rabbinico di Roma, organizzata da Donatella Di Cesare. In quell’occasione Lei ha parlato della «questione dell’innominabilità» di Auschwitz. La difficoltà di trovare un linguaggio che renda conto di questo male irriducibile, lo sforzo di non ricadere nel linguaggio della tradizione, sottolinea una realtà che a molti continua a sfuggire, ovvero che il linguaggio non è un mezzo neutrale. Ci sono pagine molto interessanti in Pensare dopo Auschwitz in cui Lei affronta la questione della mistificazione nazista del linguaggio quotidiano all’interno dei campi di concentramento. Forse allora il nostro compito è di riflettere sulla non-neutralità del linguaggio?

È un compito importante; nella misura in cui il modo della relazione sociale e intersoggettiva è la comunicazione, questo diventa anche un compito fondamentale. Il linguaggio non è né neutro né neutrale. Il linguaggio rivela, ma mistifica anche. È la differenza tra sofistica e filosofia, retorica e dialettica, propaganda ed educazione. Discriminante è il proprio impegno nei confronti della verità. Non si può separare l’uso del linguaggio dal soggetto che ne fa uso e, anche se questo può risultare problematico, dalle intenzioni che si vogliono mettere in atto. Si è parlato molto di crisi del soggetto. Non si tratta, mi pare, di abbandonare la soggettività, che rimane essenziale onde poter mantenere all’opera concetti quali quelli di responsabilità, sostituzione, accoglienza, ma di abbandonare un certo tipo di soggetto che ha pensato di poter dar forma al mondo usando il linguaggio di cui egli stesso si avvaleva. C’è un sogno di onnipotenza nell’idea che Adamo dia un nome alle cose. Certo Adamo dà un nome alle cose, ma, per fare un esempio recente, quello che un certo Adamo nord-americano nomina una difesa della libertà e della democrazia, un altro Adamo iracheno nomina un sopruso, una prevaricazione, e una difesa di interessi imperialistici. Gli esempi si possono moltiplicare. Non si tratta qui semplicemente di relativismo del linguaggio e delle visioni del mondo, ma del fatto che un linguaggio puro non esiste; il linguaggio è sempre coinvolto nella storia, compromesso, e le parole non fanno che rivelare una verità parziale—di parte, ma anche in parte, nel senso che il senso ultimo sfugge al linguaggio, che ne intercetta solo aspetti particolari, determinati, finiti. C’è sempre di più (o di meno) nelle parole di ciò che esse a prima vista rivelano. Ecco perché la dimensione dell’ascolto si fa essenziale: non solo l’ascolto di chi parla, ma anche delle parole e dei modi con cui il parlante parla, balbetta o, a volte, non parla affatto. L’ascolto dei silenzi, delle pause, delle interruzioni che sono carichi di significati, a volte benigni a volte maligni.

9) In questi ultimi anni Lei si è occupata di Levinas, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Qual è la Sua interpretazione circa il rapporto tra linguaggio, etica ed ospitalità che sta alla base del suo pensiero filosofico?

Per Levinas il volto dell’altro con cui ha inizio l’etica è, essenzialmente e fondamentalmente, espressione—invito, appello, comando, supplica, insegnamento. È tramite il linguaggio che il sé e l’altro instaurano quel rapporto di prossimità senza riduzione (dell’altro al medesimo o del medesimo all’altro) che costituisce propriamente l’etica. Quindi, si potrebbe dire che il linguaggio è etica. Levinas ha delle pagine molto belle, in Totalità e infinito, sul carattere interrelazionale del linguaggio. Il linguaggio non nasce in solitudine, nasce invece dall’esigenza di comunicare un mondo all’altro, di mettere il proprio mondo in comune, di esporlo alla possibilità della conferma o della smentita. In questo senso, il linguaggio è già iscritto nell’etica intesa appunto come il “campo” della possibile relazione intersoggettiva. Il linguaggio allora è donazione; non donazione di senso, Sinngebung, ma donazione di sé all’altro e, forse, dell’altro a sé. Donazione che richiede un’accoglienza. È Derrida a sottolineare come Totalità e infinito costituisca un immenso trattato sull’accoglienza. Tale affermazione mi trova concorde. Il linguaggio è accoglienza, accettazione, riconoscimento dell’esistenza dell’altro, anche quando si fa insulto o minaccia. Accoglienza che si fa poi risposta—così nasce il dialogo, o la sua mancanza.
Quando penso al linguaggio in Levinas, però, non posso fare a meno di pensare, o almeno di avere il sospetto, che per lui il linguaggio non sia linguaggio delle parole (orali o scritte), ma linguaggio dei gesti, dei fatti. La dimensione della corporeità, dell’incarnazione, del pensiero incarnato è fondamentale in Levinas, come emerge chiaramente in Altrimenti che essere soprattutto a proposito del tema dell’affettività, ma come è evidente anche in altri luoghi della sua filosofia allorché, ad esempio, Levinas si lancia in analisi fenomenologiche incomparabili. In un’intervista, Levinas afferma che l’espressione “Apres vous!” con cui si apre la porta allo sconosciuto e lo si invita a passare per primo è già momento etico. Ma cos’è propriamente etico in quest’espressione verbale? Certo non le mere parole, perché dire “apres vous!” e poi passare per primi non è etico affatto. Ciò che costituisce l’etica è invece il riconoscimento dell’altro che avviene non solo a livello verbale, ma anche e allo stesso tempo a livello concreto, fattuale, corporeo. L’altro va avanti prima di me, io lo lascio passare, lo antepongo a me. In questo senso l’etica di Levinas possiede una forte componente politica, sociale, economica, nel senso che richiama ad una diversa distribuzione dei beni e delle sostanze, degli averi materiali e non solo spirituali. E allora anche l’ospitalità diventa una questione di giustizia, economica prima di tutto—ospitalità nei confronti di chi non ha casa, lavoro, patria, famiglia, permesso di soggiorno. Insomma, la portata rivoluzionaria dell’etica di Levinas mi sembra andare ben oltre il linguaggio o le parole con cui ci esprimiamo, ed è ancora tutta da esplorare.

10) In una nota al Suo libro Lei suggerisce che «la filosofia di Levinas, elaborata intorno alla nozione centrale del ‘volto’, costituisce una critica radicale alla genericità e universalità dell’indistinto […] si costituisce dunque come possibile risposta ad Auschwitz» (p. 46). Vorrei che ci chiarisse meglio in che misura, secondo Lei, il pensiero di Levinas, interpellato dal «grido silenzioso dell’orfano e della vedova» (p. 124), rappresenta un pensiero a partire da Auschwitz e dopo Auschwitz.

Levinas stesso dice che il suo pensiero si è sviluppato all’ombra del presentimento e della memoria di Auschwitz. Mi sembra che questa affermazione contenga in nuce il senso della sua filosofia. Auschwitz ha annullato l’altro. Levinas elabora una filosofia dell’altro, a cui poi dà il nome di etica. Si è spesso detto che Levinas è il filosofo dell’etica. Per me Levinas è il filosofo della soggettività, di una soggettività costituita in relazione ad Altri. Fin dai suoi primi saggi, lo sforzo è quello di ritrovare un’esperienza di trascendenza del soggetto, cioé un momento in cui il soggetto sia in grado di sfuggire a se stesso, e di incontrare, senza riduzioni o sottomissioni, un altro da sé. In questo senso Levinas è un filosofo appartenente alla tradizione di pensiero francese inaugurata da Descartes. Solo che, e non è un “solo che” da poco, nel frattempo c’è stato Auschwitz che, non dimentichiamolo, ha toccato Levinas in prima persona. E allora, dopo Auschwitz, la via tracciata da Descartes non è più percorribile, bisogna pensare ad un modello nuovo di soggettività, un modello incarnato, che risponde e si fa carico delle domande—di spazio vitale, di cibo, di ospitalità—poste in maniera inderogabile dall’altro. Non un altro generico, indefinito, e perciò assimilabile, sussumibile in una categoria (lo straniero, l’ebreo, il terrorista, l’omosessuale, il diverso), ma l’altro nella sua identità e unicità inalienabile e inesprimibile se non in un volto: Altri, e gli occhi di Altri che parlano, pongono in questione, interrompono, chiedono, supplicano e comandano.
Non si dimentichi però che, in tutto questo discorso innovativo, la struttura formale per il modello di alterità levinassiano è rintracciata proprio in Descartes, l’origine tematica di quella filosofia del soggetto che per altri versi ha dato vita all’aberrazione manifestatasi ad Auschwitz. È la terza meditazione cartesiana, con il suo concetto di dio presente nel soggetto come un’idea che va al di là del suo ideato, ad offrire a Levinas la struttura della costituzione di Altri. In questo senso Levinas tiene insieme ciò che Auschwitz non permetterebbe più di tenere insieme; solo che lo fa in maniera diversa, lo declina in una direzione imprevista ma richiesta, esigita da Auschwitz. Non si dà più soggetto, eppure si dà ancora soggetto, ma si tratta di una soggettività etica, non totalitaria ed ontologica. Frattura e continuità, interruzione e memoria. Auschwitz, prima e dopo.

11) In Violenza e metafisica Derrida sostiene che Levinas non sia riuscito a trovare il linguaggio “giusto” in Totalità e infinito. Poi Levinas scriverà Altrimenti che essere. Crede che sia riuscito a tracciare quella che Lei chiama un’ermeneutica dell’ascolto? Ha trovato le parole…?

Totalità e infinito è un libro scritto nel linguaggio della tradizione. Per questo è più facile da seguire, da capire, perchè ci parla il linguaggio a cui siamo abituati. In fondo, ci richiede meno attenzione, meno ascolto. Io penso che Levinas abbia preso sul serio la critica di Derrida, e che in qualche modo Altrimenti che essere costituisca la risposta a tale critica. Certamente Altrimenti che essere è un libro più difficile, e una difficoltà fondamentale ha a che fare proprio con il linguaggio ivi impiegato. Un linguaggio fatto di iperboli la cui natura metaforica non è del tutto chiara e accertata (penso ad esempio all’uso del concetto di maternità), di ripetizioni—in un certo senso, un linguaggio poetico, che evoca più che argomentare, che suggerisce ma senza esplicitare. Un linguaggio molto poco filosofico, che spiazza chi invece del linguaggio filosofico, logico, argomentativo ha fatto la propria insegna. A questo punto si apre però tutta la questione, non ancora completamente esplorata, della funzione dell’arte per e in Levinas, e più in generale la questione del rapporto tra linguaggio artistico e linguaggio filosofico. Ritorniamo così al tema, letterario, del racconto. Sì, forse Levinas, con questo linguaggio che propriamente filosofico non è, è riuscito a dar vita ad un’ermeneutica dell’ascolto. Costringe il lettore ad andare oltre il significato delle parole a cui siamo abituati; costringe ad ascoltare con nuove orecchie, ad ascoltare di più, e forse meglio. In fondo l’ermeneutica dell’ascolto richiede pratica, esercizio. Leggere Altrimenti che essere costituisce un esercizio in questo senso; è una lettura impegnativa, non da poco. In essa si è costantemente posti di fronte ad un disdire il detto—ciò che è stato appena detto, ma anche ciò che la tradizione ha detto, fissato in termini che sono diventati patrimonio scontato del vocabolario filosofico.

12) Le figure levinasiane dell’orfano e della vedova chiamano in causa il problema della sofferenza umana. La seconda parte di Pensare dopo Auschwitz è dedicata alla questione della teodicea. Lei analizza le varie risposte che sono state date a tale problema (sofferenza vicaria; eclissi, colpevolezza o morte di Dio, etc.), giungendo ad elaborare un concetto di Dio debole, profugo, in esilio, privato dell’attributo di onnipotenza di cui lo aveva rivestito la teologia razionale. Un Dio che si ritrae – secondo il movimento dello tzim-tzum luriano – affidando all’uomo la responsabilità di ricongiungerlo alla sua Shekinah. Quando Levinas parla di una passività più passiva di ogni passività, di una responsabilità anarchica anteriore ad ogni iniziativa, un debito che precede qualunque contrazione di colpa preliminare, mette in crisi tutta una serie di paradigmi filosofici e teologici di cui sembra difficile, se non impossibile, potersi disfare…

Ma non si tratta di disfarsene. Si tratta di scoprire in tali paradigmi filosofici, in tali concetti, implicazioni diverse, risonanze nuove eppure già là. Ancora una volta, si tratta di disdire, di rimettere in movimento termini che si sono irrigiditi, che sono diventati mortiferi. Per questo nel mio libro si parla sì di un Dio debole ed impotente, ma come di uno dei vari aspetti del volto di Dio: il volto che ci si rivela in questi frangenti di male radicale. Per quanto riguarda Levinas, io non credo che egli inventi niente di nuovo. I concetti nominali a cui fa riferimento sono quelli della tradizione classica: sé e altro, il bene, l’etica, la giustizia, la responsabilità, la creazione, Dio, la pace, la violenza. Quali nuovi concetti, a parte forse quello di volto, che però è un’immagine per esprimere un concetto tradizionale seppur non frequentato, quello di Altri, vengono introdotti da Levinas? E tuttavia il contenuto di tali concetti assume una forma nuova. Piuttosto che inventare, Levinas semplicemente si richiama ad una tradizione che, nella storia della filosofia occidentale, è presente, seppur in margine, ed è presente proprio nella tradizione che parla greco (o le lingue derivate). Ricordiamo ancora una volta l’idea di Dio in Descartes come struttura formale dell’alterità. O il tema del soggetto, nella cui difesa sia Totalità e infinito che Altrimenti che essere sono stati scritti. O pensiamo a come anche i filosofi da Levinas più criticati, quali Hegel, Spinoza, Plotino, persino Heidegger, vengano poi riabilitati in qualche loro aspetto. Se vogliamo, Levinas legge la tradizione greca, le sue categorie concettuali, con chiavi di interpretazione ebraiche. Nel far ciò, apre entrambe le tradizioni a prospettive finora forse inosate; in ogni caso, mette in contatto le due tradizioni. Il “nuovo inizio” che Levinas vuol forse far valere non è unilateralmente greco, come nel caso di Heidegger. Ma non è nemmeno del tutto ebraico, dato che Levinas non smentisce mai il carattere greco della filosofia. Si tratta di un senso molto genuino di conversazione tra due parti in cui l’apporto di ciascun dialogante viene salvato ma senza essere conservato nel suo aspetto iniziale. Si tratta di declinare, come si declinano i nomi greci, latini o tedeschi, non di eliminare. Ciò che causa la declinazione non è una necessità interna ai concetti, ma un loro contatto con l’altro. Non dimentichiamo che il titolo di una delle opere principali di Levinas non è Totalità o infinito, ma Totalità e infinito. È la natura di tale “e” (“e” della prossimità, direi io) cha va forse indagata.

13) Il concetto centrale nella teologia dell’impotenza divina è il fatto che Dio spinge all’impegno nel mondo. Qual è la Sua posizione in merito al nesso tra responsabilità umana e impotenza divina?

Il richiamo alla responsabilità umana è la conseguenza necessaria dell’impotenza, o meglio debolezza, divina. In quest’epoca di secolarizzazione, di ateismo, ma anche e allo stesso tempo di intransigenza e fanatismo religiosi, mi sembra che tale richiamo alla responsabilità umana costituisca un fattore di emancipazione dell’essere umano, di crescita, di raggiugimento della maggiore età, di rafforzamento, ma anche di dialogo tra prospettive diverse. È troppo facile, troppo comodo, ma anche infantile delegare, imputare a Dio la ragione per le proprie azioni, siano esse buone o cattive, così pure come aspettarsi da un fantomatico Dio onnipotente la soluzione ai problemi del mondo. Non è Dio che vuole o fa la guerra, siamo noi. Vogliamo la pace, facciamoci operatori di pace. Vogliamo un mondo più giusto, lavoriamo per la giustizia. Dove tutto ciò si verificherà, là ci sarà Dio. Ma il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con l’altro, e rispetto all’altro io sono sempre chiamato in causa in prima persona, non per interposta persona quale può apparire appunto la divinità. Sono io che ti nutro, non Dio; sono io che ti uccido, non la volontà di Dio, che appare piuttosto come un vantaggioso schermo dietro a cui nascondersi. Sta a noi, alle nostre forze, al nostro coraggio salvare (o perdere) il mondo; il “ritiro” del Dio onnipotente dalla scena del mondo rende il nostro compito più arduo (niente consolazioni facili o reti di sicurezza su cui ricadere), ma anche il nostro merito più grande nel momento del successo—o la nostra colpa più grave nel momento del fallimento. Insomma, l’indebolimento di Dio è un elemento di umanizzazione. Tale indebolimento della presenza divina è anche un elemento che rende forse possibile un ritorno di Dio, o a Dio, come colui che dà un senso ultimo al mondo. Un teologo protestante che ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione filosofica grazie all’insegnamento del mio maestro Ugo Perone, e cioé Dietrich Bonhoeffer, anche lui morto vittima dei campi di concentramento nazisti, parla di un riportare Dio al centro del villaggio ma in una dimensione di pienezza, non di vuoto o di bisogno. Dio non può essere un tappabuchi per le nostre incertezze, le nostre mancanze, uno schermo per i nostri desideri di potere altrimenti inattuati. Viviamo la vita in pienezza, nella completa responsabilità delle nostre azioni, come se Dio non ci fosse, e lo ritroveremo là, nella sua debolezza, come un centro di gioia, di generosità, un sovrappiù capace di arricchire un senso che è già là nelle nostre esistenze perché tale senso l’abbiamo già creato noi. Allora avremo sia l’essere umano che Dio. Non credo al rapporto gerarchico, ma a quello di collaborazione tra essere umano e Dio. Leggo in questo senso anche il tema cristiano della kenosis di Dio.

14) Come Dio è in esilio, così anche noi siamo già sempre esiliati, desideriamo «un paese nel quale non siamo mai nati» (p. 36). Non c’è origine, non c’è mai un a casa propria, una patria. La relazione del faccia a faccia non annichila la distanza, è desiderio che va verso un’alterità assoluta, inanticipabile. Quali difficoltà pone un pensiero che tenta di pensare l’assenza d’origine?

Non sono sicura di voler parlare di un’assenza di origine. Il rischio dell’assenza di ogni origine mi pare sia quello di un vuoto che o risucchia, come nel nihilismo più duro e puro, o legittima ogni posizione e bandiera, come nel relativismo più spinto che impedisce ogni giudizio di valore e quindi ogni condanna delle ingiustizie del mondo, o rende possibile l’autoerigersi di certe verità, che verità non sono, a valori assoluti in mancanza di ogni elemento stabile—l’origine appunto—su cui fondare la propria resistenza a tale sopruso. Insomma, nihilismo, relativismo, e fanatismo mi sembra siano risultati possibili dovuti ad una stessa mancanza di origine. Preferirei parlare, invece, di un’origine che si disorigina, per così dire, cioè che continuamente si erode per ricostituirsi, riconfigurarsi, ricrearsi in forma nuova, diversa, inanticipabile, incontrollabile, in risposta anche a sollecitazioni esterne, altre. Un’origine che non si costituisce mai come una patria o una fissa dimora, e che perciò delegittima ogni tentativo nazionalista di un tracciamento di confini, di barriere, di stati. Non c’è un dentro e un fuori, che a loro volta rendono possibili inclusioni ed esclusioni, marginalizzazioni, e discriminazioni. Ovvero, se di confini si può parlare, sono confini che sono già subito extraterritoriali, aperti all’alterità e al diverso perché l’origine è già sempre altrove. In questo senso, siamo in esilio perché l’origine è in esilio, sempre ospite, sempre in balia della generosità e dell’ospitalità altrui. A noi non resta che ripetere tale gesto di ospitalità, nella possibilità che, nel nostro gesto di accoglienza, chi ospitiamo sia proprio chi ci costituisce: l’origine.
Negli ultimi anni ho riflettuto molto, anche per motivi strettamente personali, sul tema della maternità come possibile categoria filosofica, cioè non biologica e capace di operare in maniera trasversale rispetto ad ogni questione di sesso e genere. È forse proprio il concetto di maternità, e di corpo materno, che può dare utili indicazioni, che in questa sede rimarranno necessariamente sommarie, riguardo al concetto di origine che ho in mente. Senza voler glorificare il concetto di maternità, mi pare però di poter dire alcune cose in proposito. Certamente il corpo materno è l’origine primigenia e essenziale di ogni individuo, anche quando di tale origine non si ha conoscenza perchè l’origine rimane innominabile e innominata; e tuttavia, tale origine, che pure esiste in ogni caso, sconosciuta o no, anche quando la si conosce rimane inappropriabile, sempre oltre, sempre già persa, incapace di ergersi a dimora permanente; unico modo di riconquistarla è di ripeterla, in una ripetizione che però non può essere esattamente la stessa, e che tuttavia prosegue una trama antica di ospitalità e generosità. Elemento che mi pare oltremodo interessante in questo modello di origine è il fatto che la sua natura è, fin dall’inizio, interrelazionale, cioè marcata nella sua stessa identità costitutiva dalla presenza dell’altro. Non c’è madre senza prole, così come non c’è prole senza madre, e la figliolanza, con i suoi bisogni e desideri, costringe ad una continua ridefinizione del concetto di madre, incapace così di riposarsi in una configurazione fissa. Si ha così un’origine senza origine, che vive di un tempo senza tempo (quando si diventa infatti madri? Con la nascita della figliolanza? Con il concepimento? Con il desiderio di maternità? E quando si finisce, se si finisce, di essere madri?), in un universo in cui spazio e tempo si fanno interscambiabili (spazio fisico occupato da un ventre che lievita con il passare del tempo, scansione del tempo che avviene secondo la crescita spaziale del feto), senza confini fissi, dove fuori e dentro diventano concetti vaghi (quel feto che è estraneo, altro rispetto al corpo della madre eppure cresce al suo interno), dove la circolazione libera eppure regolata degli elementi fluidi, invece che lo scambio economico dei solidi, delle sostanze, diventano la regola del benessere, materno e filiale.
L’identità etnica ebraica si è definita, almeno durante un certo periodo della storia, secondo discendenze matrilineari. È stata, secondo la lettura che ne ho dato nel libro da cui abbiamo iniziato quest’intervista, la legge dell’identità, la cosidetta legge del padre, padrone e patriarca, a contribuire in maniera determinante all’accadere di Auschwitz. Forse allora una delle direttive su cui ricominciare un pensiero del dopo Auschwitz potrebbe essere quella di un pensiero della madre, pensiero materno, pensiero della maternità, pensiero dell’ospitalità e dell’accoglienza che si fa dono all’altro. Dono di vita, non di morte, perché, come ricorda Hannah Arendt, la vita è non per morire, ma per vivere. Ma è solo, a questo punto, una suggestione e un suggerimento—una via di ricerca, forse.

PUBBLICATO IL : 29-11-2006
@ SCRIVI A Cristina Guarnieri
 

 
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