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Di quel luogo in cui non piove mai
Intervista ad Ascanio Celestini
di Giulia Frezza, Daniele Mastrangelo, Emanuele Profumi

Ascanio Celestini

L’ultimo spettacolo di Celestini La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico (2005), che è stato creato sulla base di tre anni di ricerca e di raccolta di interviste è emblematico del suo modo di lavorare. Si parte dall’ascolto delle persone che raccontano sempre una storia individuale per poi ri-dire su un palco – ma potrebbe essere anche una piazza o lo stesso manicomio – una storia-memoria che raccoglie le fila di ricordi, pensieri e sogni di molti in un unico flusso di oralità. Celestini debutta con Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini (1998), uno spettacolo sull’immaginario nell’opera di Pasolini, scritto e interpretato con Gaetano Ventriglia; poi porta in scena MILLEUNOBaccalà, Vita Morte e Miracoli e La fine del mondo (1998-‘00) – una trilogia sulla narrazione di tradizione orale. La produzione di Radio Clandestina, spettacolo sull’eccidio delle fosse Ardeatine, creato a partire dal libro L’ordine è già stato eseguito di A. Portelli è la conferma del modo unico di affrontare la creazione teatrale di Celestini. Seguono Cecafumo e Fabbrica (2002) da cui sono stati tratti i libri editi da Donzelli. Nel 2004 alla Biennale di Venezia debutta Scemo di guerra, Roma, 4 giugno 1944 - Premio Ubu 2005 - . Celestini si è dedicato anche a diversi progetti per Radio3, Guerra e Pace, Milleuno e la lettura della vita di Fabrizio De Andrè (2001), oltre a Bella ciao, storie di pace e di guerra (2005).


[n.d.r. nell’intervista che segue si è cercato di conservare il più possibile il linguaggio proprio di Celestini, trattandosi di cosa necessaria alla comprensione dell’autore]

Se è mai avvenuto, quale importanza ha avuto l’incontro intellettuale ed artistico con Pier Paolo Pasolini? In particolare, il suo teatro è stato fonte di riflessione e di confronto?


No, non tanto. Non sono particolarmente appassionato al suo teatro. Mi colpiscono molto alcuni suoi racconti, come quelli pubblicati in “Alì dagli occhi azzurri” o “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”, o anche i primi film come “Il Vangelo secondo Matteo” o “Mamma Roma” e “Accattone”. O le poesie come “Le ceneri di Gramsci”. Il Pasolini più facile, più popolare. Questo è il materiale a cui sono più appassionato. Ho l’impressione che quando Pasolini scrive per il teatro lo faccia come drammaturgo, e per il mio lavoro questo non è particolarmente interessante. Non mi interessano molto i testi teatrali. Faccio una grande fatica anche a leggerli. M’annoio proprio tanto. Non lo capisco il teatro scritto. Non trovo quasi niente del teatro scritto che possa diventà teatro sul palcoscenico! Non solo perché il teatro è performance e quindi la scrittura è in qualche modo la morte dell’oralità della performance, ma proprio perché sento davvero vecchia la scrittura teatrale. Il che è anche abbastanza grave dirlo (sorridendo) per uno che fa teatro, ma in generale anche banale. Che cos’è poi vecchio infatti? “Questo testo è vecchio”, “Questo film è vecchio”…su un sito internet leggevo Elio Petri, un critico, che diceva: “i suoi film sono datati”…ecco molto spesso uno un’opera la si data per inchiodarla al momento in cui è stata fatta, dire che un’opera è datata certe volte è anche un complimento. Invece io temo che il teatro sia davvero vecchio! E quindi la cosa meno interessante per me di Pasolini è proprio il teatro.
Mentre mi interessa molto come fosse dubbioso nei confronti dei media, dei mezzi in generale. Come lui in qualche maniera cercasse, in modo anche forzato, di piegare il cinema, la letteratura, la poesia al suo immaginario. Per questo alcuni racconti come “Mignatta” mi piacciono molto. Persino le sceneggiature mi sembrano scritte in modo interessante, piuttosto che il teatro!

Pasolini fa dire a Pilade, protagonista dell’omonima tragedia dietro il quale si potrebbe celare un suo alter ego : “La più grande attrazione di ognuno di noi è verso il Passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo ed amiamo veramente. Tanto che confondiamo con esso la vita”.

1)Quale importanza ha la riflessione sul passato nei tuoi lavori?

2)C’è un passato con la lettera maiuscola, come per Pilade e Pasolini, nel tuo teatro?

Sai, io fino ad un certo punto ho pensato che dovessi raccogliere storie legate al passato perché la prospettiva che noi c’abbiamo rispetto al passato ci permette di raccontarlo. Mentre facciamo una gran fatica a raccontà il presente. Banalità anche questa, ma più o meno è così. Però poi non è manco vero del tutto! …io non seguo il calcio, non solo non lo seguo, ma non riesco neanche a seguire le partite…ecco se sento una partita non la capisco proprio, se la vedo più o meno capisco, però se la sento alla radio faccio una fatica immane. Però di fatto esiste la telecronaca, che è un tipo di racconto che serve per dire una cosa che sta accadendo, non una cosa già accaduta, ed è una tipologia di racconto interessante. Perché nel momento in cui c’entrassi dentro un po’ di più di quanto non faccia io, immediatamente visualizzi ad una gran velocità quello che sta succedendo. La radiocronaca è estremamente evocativa, per chi ha i mezzi per riconosce e fruire di questa evocazione. Credo che ci siano poi periodi nei quali sia più importante raccontare, quello che sta accadendo. Sia più importante fa una radiocronaca che un lavoro sul passato e sulla memoria.
Quello che dice Pasolini non è vero in assoluto nel senso che senz’altro per me, per il mio modo di vedere il teatro, c’è un passato al quale ci si rivolge, ma è interessante il presente che ricorda il passato. Quindi è interessante il racconto del passato, il ricordo del passato. Il passato in sé neanche esiste. Mentre invece esiste il racconto presente del passato, che è un racconto che tradisce anche il passato come evento realmente accaduto magari. Che è un presente che inventa totalmente il passato. Proprio qua (siamo al Teatro Ambra Iovinelli, ndr) l’anno scorso è venuto un signore che m’ha detto “sa che il giorno dell’azione partigiana di Via Rasella, io c’ero?” e ha continuato “C’era un finto cieco che gli ha detto: “vai via vai via che mo succede un macello”. Sai in tempo di guerra non stai a pensà se uno c’ha ragione o torto e così me ne so andato e poi ho sentito il botto”. E poi mi fa : “lo sai che quando c’è stato il rastrellamento al ghetto io stavo a Via Monterone che sta dall’altra parte di largo Argentina, ho visto i camion che arrivavano e so scappato pei tetti”…”ma lo sa che quando”…..(ride)…ed è andato avanti così su quattro cinque momenti. La sera ho telefonato a Sandro Portelli (Alessandro Portelli, intellettuale impegnato che si occupa, tra l’altro, di recupero della memoria orale ed ha scritto “L’ordine è stato eseguito” un libro che ricostruisce i momenti drammatici dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, ndr) e gli ho detto: “Ma te risulta che c’era un partigiano che era finto cieco?” e gli ho raccontato di questa persona e dei luoghi in cui era stato presente. A lui non risultava, e gli ho detto :”Questo qua, se andiamo ad indagà stava pure l’11 Settembre a New York!” Questo qua è un modo per inventare il passato, che però è estremamente interessante perché significa che per quella persona quegli eventi c’avevano un peso. Lui ha partecipato a quegli eventi, al mito di quell’evento? Alla storia che è seguita a quell’evento? Non lo so…sia perché c’ho parlato cinque minuti e poi perché uno passa dall’antropologia alla psicanalisi che secondo me non coincidono troppo insomma. L’antropologo può però pensare che quell’evento per lui è stato abbastanza evidente, a prescindere se lui ci fosse o meno realmente. Lui c’è in quell’evento? Lui c’è! Adesso si! Allora no, forse manco era nato o vattel’a pesca! Questa è la cosa che a me interessa. Il passato che è tutto nel racconto del presente a me interessa, anche quello che non è nel racconto.

Se il dramma del personaggio Pilade sembrerebbe quello di essere prigioniero d’un passato ormai finito che continua a vivere come sogno nel suo presente scontrandosi contro la realtà crudele che lo circonda, in “Affabulazione” Pasolini costruisce la figura del Padre a partire dal rapporto con il figlio proprio attraverso il confronto drammatico tra sogno e realtà: rappresentazione e visione della realtà del figlio sono enigmi laceranti per il presente del Padre. E’ un sogno concreto, reale, quello del figlio, che lo rende ansioso di verità indicibili e intime come quella sessuale.

1)La tensione tra sogno e realtà nel tuo teatro è presente?

2)La ricerca della verità passa per questo contrasto, come nel Pasolini di “Pilade” e di “Affabulazione”?


Ma sai, nei sogni c’è una sintesi che altrimenti non ci sarebbe. Una sintesi molto concreta de un evento che abbiamo vissuto o che stiamo vivendo, in genere che stiamo vivendo. Per esempio c’è mi madre che fa dei sogni notevoli… una volta pure mi moglie, infatti io dico: “ma se abitiamo tutti nello stesso palazzo perché sti sogni non me li faccio io?!” (ride) A me servono per il lavoro, mi servirebbero…perché se li sognano loro? Mia madre c’ha uno strano rapporto con sua sorella, non strano, anzi, un bel rapporto per cui loro si raccontano i sogni. Ti dico, non è che mia madre studia psicanalisi. No. Se li raccontano perché nella loro tradizione familiare c’è sia una presenza delle raccontatrici donne, sia una presenza de donne che vivono in maniera quasi professionale il mondo magico: tolgo, fatto fatture, levano il malocchio, leggono le carte. La capacità che aveva una mia zia, sorella di mia nonna che si chiamava Fenizia e che l’aveva insegnato a Morina (un’altra sorella de mi nonna) che a sua volta l’ha insegnato a mia Zia Bruna che è quella co’ cui parla sempre mi madre (ride). Mia Zia Bruna oggi però essenzialmente fa le carte, non toglie fatture. Però le sa fare, dal punto di vista della loro cultura, in maniera molto chiara e precisa. Non è che si inventano come la zingara della televisione, che mi sa che neanche ci sta più in televisione, né come i santoni televisivi, non l’hanno letto sui libri. L’hanno imparato in famiglia come in famiglia s’impara a fare i tortellini. Come farebbe uno molto bravo, più bravo di Giovanni Rana, che li fa per mangiarli in famiglia. Una capacità professionale che non viene esportata all’esterno del nucleo ristretto. Questa è una cosa che siamo andati perdendo: non esiste più il professionista all’interno del nucleo famigliare. Se uno sa fare bene una cosa al massimo è un hobby, non viene considerata come una cosa seria seria…”si beh lo fa, ma insomma…si rimette a posto i mobili, ma lo fa così, Poi i mobili se l’annamo a comprà, quelli veri. Lui è bravo però”…anche perché il lavoro ci impegna molto di più di prima. E’paradossale ma è così! Il tempo del non lavoro viene considerato sempre un tempo da butta via, dello spreco. Infatti in questi ultimi anni è diventato il tempo del consumo. Per cui quello che fa un lavoro al di fuori del proprio, o lo fa come secondo lavoro per guadagnarti i soldi o lo fa un po’ come hobby o lo fa e non lo fa. Al massimo c’è la musica come hobby quasi da professionista. Ecco loro sono invece proprio delle professioniste, e mia madre racconta sti sogni. Sono estremamente sintetici: sono una sintesi di qualche cosa che lei sta vivendo. Al punto che alcuni sono anche….che ne so…mio padre sta male e mia madre si sogna mia nonna morta nella loro stanza da letto senza letto e che è piegata così con le mani (fa un gesto, ndr) e fa cenno che non c’è il letto. Per mia madre questo significava che mio padre stava morendo. Il letto matrimoniale. Una sintesi precisa. Allora in questo il sogno è per mia madre è quasi il garante di una stabilità: questa cosa che non comprendo mi si chiarisce, almeno attraverso il sogno. Quindi è chiaro a me che anche in questo momento di instabilità io c’ho una stabilità, nell’instabilità. Cioè so che c’è un problema e lo vedo. Certo non lo risolvo, perché poi mi padre è morto…però di fatto vedo il problema, vedo la questione, attraverso l’immagine di un sogno chiarissimo. In questo secondo me il sogno è molto interessante.
Mi viene in mente nell’”Accattone” di Pasolini, quando c’è lui addirittura sceglie il posto dove si deve fa seppellì. Dice: “Sor mae’, ma qua no! Qui c’è l’ombra”(ride)e gli chiede di essere seppellito al sole. Lì è quasi una cosa comica, beh forse comica no, ma ironica. Per esempio in ragazzi di vita la morte è sempre vissuta in maniera estremamente rapida e semplice, chi muore muore, basta. Mi sembra che c’è il personaggio di Amerigo forse…uno dei primi che muoiono in “Ragazzi di vita”…mi pare che è lui che s’è rotto una costola, bucato un polmone, dopo che è crollata una scuola. Quando la madre se mette a piagne e lui dice “ma allora me ne devo proprio annà?!” (ride) “Devo proprio morì?” Allora lui dice : “Oh, dije a quelli della borgata che non s’accorassero tanto!” Ma anche la morte de Genesio in “Ragazzi di vita”, che fece tanto scandalo: Genesio nota nota, poi l’acqua se lo porta via, e nel frattempo il Riccetto, che s’era messo il costume, vede una ragazzetta alla finestra che sta a pulì i vetri e se lo rileva (ride). Niente, poi questo qua viene rincorso dal cane e dai due fratellini e poi more e basta. Anzi li lui lì dice che era più penoso vederlo mori che il fatto che fosse morto veramente.

Comunque c’è un’importanza del sogno nelle cose che tu fai?

Tornando al sogno magari…

Sì, tornando al sogno.
(Ride forte)

C’è un legame tra sogno e morte per esempio?

C’è, ed è anche una cosa della tradizione perché il sogno anzi è ciò proprio grazie a cui puoi metterti in rapporto coi morti. Per quest’idea quasi geometrica del rapporto tra vita e morte. Il giorno e la notte, sembra anche questa una banalità però…la bella e la brutta stagione…però più che altro il sogno non viene visto come il contrario della vita ma come la soglia, qualcosa che sta a metà: dove è possibile ancora ricucire la famiglia orizzontale dei vivi con quella verticale dei morti. Allora nella tradizione mi nonno morto me viene in sogno. (sorride)E’ lui che mi viene in sogno, non è che so io che mi sogno a lui…io stavo li che dormivo ed è lui che è venuto. Tant’è vero che in Eduardo (Eduardo de Filippo, ndr) la storia si muove perché il morto si muove e va nella casa sbagliata. Tutto si gioca su questo: il padre e quello che gioca nel banco lotto che prende i numeri al posto del padre. E lui è sicuro che il padre s’è sbagliato perché gli dice: “Piccerì!” (ride)…” ma che t’ha detto”, “eh, m’ha detto, Piccerì devi giocare questo questo e quest’altro” e quindi dice (divertito) “Ma allora lo vedi che era a me che mi padre me li voleva da?!” e quindi si prende il biglietto e dice “i soldi so i miei, per questo non ti pago”. Per questo il sogno è il momento in cui è possibile ancora ricucì questo rapporto. Secondo me lo è a tal punto che lo è anche quando non lo è più. Forse noi abbiamo un po’ di problemi in questo periodo, ma probabilmente stiamo andando verso una cultura, grazie anche al deperimento della religione cristiano cattolica, cristiana senza Dio. Senza più la questione di Dio come veramente esistente. Quindi io continuo a sogna i miei sogni, come li sogna mi madre, senza che però ci sia un interpretazione metafisica de sto sogno. Per cui anch’io mo sogno mi padre. Per esempio una volta mi so svegliato e ridevo proprio. (ride)Anche adesso mi viè da ride a pensarci. Stavamo davanti al cancello di casa nostra. Il cancello era uno dei posti proprio de mio padre: se si rompeva lui chiamava il fabbro e lo riparavano, anzi se rompeva spesso sto cancello. Lui rimetteva a posto il gancetto, lui lo riverniciava. Aveva un cacciavite in macchina, che mi madre ancora ce l’ha, che serviva per togliere la terra che andava nel buco quando si apriva e chiudeva il cancello. Era un po’ il suo luogo: io me lo immagino molto vicino al cancello. Mio padre stesso è sicuro di aver visto Cocco er pizzettaro, oste della borgata, sul cancello. Di averlo salutato sul cancello. Quando l’ha detto al figlio di Cocco lui gli disse: “Guarda che mi padre è morto”. Mi so sognato mi padre sul cancello che indicava il numero che c’abbiamo sul muretto, il numero civico, il 16. Lo indicava, ed il numero non era 16 ma 47 (sorridendo) lo indicava e a me veniva da ride e dico: “guarda, ma che me sta a pia per culo mi padre, 47 morto che parla??”. Lo guardavo e ridevo. Per cui voglio dire che quel rapporto che abbiamo con i sogni lo possiamo continuare ad avere anche nel momento in cui questi sogni non sono più realmente il tramite con i morti. Anche quando sappiamo che i morti so morti. Per esempio per me, nei miei racconti, è tanto importante Dio, la madonna, Gesù Cristo e i santi, e nel mio uso delle loro storie non c’è nessuna volontà blasfema. Penso che siano dei personaggi strepitosi, che non possono essere lasciati ai preti perché ne fanno un uso veramente discutibile (ride)….cioè voglio dì…Ruini usa Dio per parlà dell’alta velocità…questo mi sembra proprio un uso improprio…Invece Dio è un personaggio straordinario, i santi so bellissimi quando fanno i miracoli, non spolverano insomma (ride)…usiamoli per questo. Visto che non esistono usiamoli nelle nostre storie, nel nostro immaginario, in maniera migliore.

In “Bestia da stile”, opera teatrale esplicitamente autobiografica, il protagonista Jan a dialogo notturno con Novomesky sulle montagne, sostiene: “Questa è indubbiamente una notte non destinata a essere dormita; ci accomuna nell’insonnia, il bisogno di sperare, e il dovere di sperare. Chi non spera è un reietto, ha letto male Lenin, se è un intellettuale; se è un operaio è un modello imperfetto. Siamo agitati dall’incubo della speranza”.
In quale misura il tuo teatro è agitato dalla speranza ?


Vedi come i tempi sono cambiati…dico ‘n’altra frase fatta (ride). So cambiati i tempi, so cambiati so…Pasolini in un intervista famosa che ogni tanto ripassano in televisione lui dice: “io non ho più speranze”. Ecco, oggi il problema non è tanto chi ha o chi non ha speranza, ma in che cosa buona parte della gente spera. A prescindere da quelli che sperano di arrivà vivi alla fine della giornata di lavoro, sperano di arrivare alla fine del mese. Speranze legittime che c’abbiamo tutti. Le aspettative che aveva la gente molto tempo fa so molto diverse da quelle che abbiamo oggi. Perché secondo me abbiamo perso quel rapporto tra consumo e produzione. E’ un po’ lì il problema. Prima, se andavamo a comprà la pasta sapevamo però anche come si faceva la pasta: a casa mia se comprava la pasta però mi nonna pure faceva la pasta. Se la fa lui perché la fa buona mi piace e me la compro al negozio e mi risparmio la fatica di farla a casa io, però anch’io se voglio la faccio. In più anche se io non la so fare, per dire, la pasta (invece io me so imparato a farla! Ride e rivolgendosi a noi dice “aho! Nun ce vo niente! Porca miseria voi ve immaginate chissà che…infatti me so stupito)….per esempio i tortellini, non li so fa, mi vengono storti…mi moje è più brava…ma so come se fanno, vedo l’oggetto, so come si consuma ma so anche come si produce. Produzione e consumo so un’unica cosa. Sono due realtà legate all’oggetto, che è quello che conta poi. Ma se lo svincolo dalla produzione ed è solo un oggetto de consumo, io ho perso una parte fondamentale dell’identità di quell’oggetto. Nel rapporto con il futuro e con la speranza, soprattutto nei confronti del futuro, abbiamo perso questo rapporto. Non ci sentiamo più costruttori del futuro, ma soltanto consumatori del futuro. Per ciò speriamo che domandi possiamo guadagnare gli stessi soldi che abbiamo oggi così da potermi ricomprare il televisore se questo servisse. Ma a mala pena so come si guadagnano i soldi! Non so manco com’è fatto un televisiore, per me l’importante è che sta là e che c’ha quei pixel, che ne so io, quel contrasto. Quello so io! Se so che il televisore ha un contrasto cinquemila a uno, penso che è grosso, che è forte quel televisore. Se vedo un televisore che ce l’ha cinquecento a uno penso: “ma che è? ‘Na scatola der tonno?!”. Perché per contrasto mi serva per potermi immaginare quale sarà l’immagine dello schermo televisivo, non è che dico: “questo è stato fatto dagli operai del Cile, dall’Argentina dove hanno riattivato una fabbrica”. Non so niente della produzione, solo del consumo! Oggi la maggior parte della gente ha delle speranze, ma sono speranze sulle quali non possono assolutamente mettere le mani. Quando c’era questo rapporto tra produzione e consumo, potevamo dì: “Spero che il prossimo anno ci sia il bel tempo, che il campo mi dia tanta frutta e verdura”. Lì le mani ce le potevo mette! Era una speranza che mi costruivo anche, oggi che devo sperà? Veramente giusto il tempo…

A noi sembra che in Pasolini la lotta contro la rassegnazione è legata ad un doppio binario: da una parte il rancore contro l’ipocrisia della nuova società capitalista rispetto a quella passata, e dall’altra la continua denuncia contro il nuovo potere che la sostiene.

1)E’ possibile fare del teatro una medicina contro l’ipocrisia e il potere della “società dei consumi”?

2)E in che senso si può parlare d’impegno per il tuo teatro, ovvero in che modo si può rintracciare una volontà educativa o politica nel tuo lavoro?


Nel teatro non è che c’è una volontà politica: chi fa teatro fa politica! Se stasera viene gente a vedere lo spettacolo non sono mica i miei compagni di classe, e ci incontriamo per una cene e possiamo dire quello che pensiamo. E’ un atto pubblico, ed il fatto stesso che lo è, è politica. Chi dice: “il mio teatro non è politico”, fa politica più de me! Chi va a raccontare le barzellette fa politica. Lo sa Berlusconi che racconta barzellette. Il teatro è politica. Caso mai bisogna avere la responsabilità di agire di conseguenza. Una medicina però no! So che adesso più che creà consapevolezza bisogna creà conoscenza. Allora se io racconto delle storie, e in queste storie il mio giudizio è legato più al fatto che le racconto che non al giudizio che metto nella storia che sto raccontando, che esprimo in maniera esplicita. Poi certo, se parlo del manicomio l’ho fatto perché lo preferisco al parlare dei cancelli. Però non credo che sia una medicina, per niente! Non credo nel valore delle medicine, neanche di quelle normali. Credo che sia proprio un esercizio, una maniera per rimettere in moto il meccanismo della cultura, quello sano per cui la cultura è un tessuto, un insieme di relazioni, la maggior parte delle quali tu neanche comprendi direttamente, ma che comunque senti, che percepisci e sai che ci stai dentro. Ho preso per un po’ di tempo degli antibiotici, perché c’ho un buco qua (indica la bocca), m’hanno tolto un dente. Mi ci metteranno una vite, un perno, e ho preso l’antibiotico per un po’ di tempo. Ma so che l’antibiotico non me fa niente. Cioè che se il problema è che c’ho un batterio qua dentro, mi devono togliere il pezzo e poi….la medicina vera, quella considerata vera normalmente in occidente, è una medicina che non cura. Cioè cura nel momento in cui ti prendi cura del paziente: se ho problemi di stomaco lo risolvo anche con le medicine. Ma sostanzialmente lo risolvo con uno stile de vita che cambia. Allora io non intervengo mai con una medicina. Se sei uno che arrota i coltelli non poi pensà che ogni volta che te taji te metti un cerotto.

Nel suo “Manifesto per un nuovo teatro” per definire cosa intende per nuovo teatro Pasolini scrive: “esso non nasconde di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese, saltando completamente l’intera tradizione recente del teatro della borghesia, per non dire l’intera tradizione moderna del teatro rinascimentale e di Shakespeare”. E aggiunge che esso sarà un “teatro di parola”, dove il pubblico assisterà alle rappresentazioni “più con l’idea di ascoltare che vedere” e che “ci sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto più critico che rituale”.
Quanto si avvicina al tuo teatro un teatro che prima di tutto è “dibattito, scambio di idee, lotta letteraria e politica, sul piano più democratico e razionale possibile”?

Per quello che lui dice rispetto alla parola s’avvicina. M’avvicino a quest’idea del teatro non tanto perché il mio sia teatro di parola, ma quanto per il fatto che è un teatro dove non vedi gli oggetti ma le immagini. Legato più all’evocazione che alla descrizione. Detto questo, c’ho un amico critico che me dice: “Nooo tu in questi ultimi spettacoli sei molto più descrittivo, (divertito) persino didascalico, fai i gesti”. Si, si, però a volte le cose la fai e poi cerchi di capì che hai fatto perché sennò diventi il critico de te stesso, anzi neanche, l’ideologo del tuo teatro. Questa è una cosa anche un po’ triste, perché veramente diventi un po’ isolato nel tuo teatro e nel tuo modo de pensà. Perché prima pensi alla giustificazione de quello che farai, e poi cerchi de farla in maniera che sia giustificabile alla luce de un’ideologia che sta a monte. Però certo io credo che oggi sia fondamentale nel teatro lavorà soprattutto sull’evocazione. Per interrompere quel disastro tra l’oggetto della produzione e l’oggetto del consumo, dobbiamo assolutamente fa un salto in avanti e toglie de mezzo gli oggetti. Guardà immediatamente alla nostra percezione degli oggetti, alla nostra capacità de costruirli attraverso l’immagine. Per vedere sia la magagna, quello che non funziona, sia invece quello che ci serva realmente. Allora se io parlo del “caffè gavazza crema e gusto” noi ci capiamo perché c’è la pubblicità, c’è il coso, c’è Bonolis e l’altro amico suo come si chiama (ride)…con la voce da tostapane…Ma che c’entra il caffè? Li stanno in paradiso, c’è un attore che fa S. Pietro e che sale in mezzo alle nuvole, e poi alla fine c’è il caffè. Allora prima cosa noi ci dobbiamo prendere l’oggetto, non l’oggetto caffè ma l’oggetto pubblicità. Devo poter capire che la pubblicità è una cosa che funziona sempre come una specie di gita turistica: prendi lo spettatore e lo porti in gita nel caffè Lavazza, poi lui se ne torna a casa e il caffè gavazza rimane a te. Per questo è anche una fregatura la pubblicità: è una cosa che ti sta davanti agli occhi e poi finisce. Non è mai tua. A tal punto che se io dico: “il caffè Lavazza è una merda” non lo posso dire, ed è giusto che non lo posso di! E’ giusto…infatti non lo mettete mi raccomando (risate generali). Oppure mi scuso immediatamente anzi con la Lavazza, perché è assolutamente ‘na cosa da denuncia. Io lo dico come esempio, perché io bevo il caffè Lavazza, ma non è il caffè Lavazza che bevo: io compro il caffè Lavazza ma quando arriva nelle mie tazzine è semplicemente caffè. Il caffè Lavazza continua ad esse de proprietà del signor Lavazza, se esiste. E’ questa la fregatura del prodotto: una volta io compravo il caffè che piaceva a me e basta! Invece oggi compro il caffè Lavazza, gli do i soldi per il caffè Lavazza, io prendo il caffè e Lavazza rimane in negozio, anzi manco c’arriva, rimane a casa di Lavazza. Questa è la cosa terribile: se tu mi vendi un mito, allora dammelo porca miseria! Dammelo com’era un volta: me vendi il mito delle streghe con un racconto e allora io la riracconto: è mia e poi diventa pure tua e pure de quell’altro. Invece me vendi il caffè e me dai solo il caffè, non me lo dai Lavazza?! Me dai il caffè e poi posso dì che è buono, che fa schifo, ne posso parlà, io stesso divento Lavazza. Allora da una parte dico che bisogna ricongiungere il prodotto al nodo produzione-consumo, rimetterli insieme. Il mito c’ha un senso se è legato anche ad un oggetto, se c’ha una sua presenza anche concreta. Sennò non può rimanere nelle mani loro, porca miseria! Sennò è una fregatura! Quindi ci dobbiamo riprendere il mito e la parte impalpabile dell’oggetto, e dall’altra vedere che oltre il mito, l’oggetto che arriva dentro la mia tazzina, c’è anche la produzione dell’oggetto che sta da un’altra parte. Oggi sta molto lontano perché magari sta dall’altra parte del mondo. L’elastico è tirato molto ma c’è sempre, perché li lo fanno e qui se lo bevevo. Però se il caffè non lo tostano più sotto casa mia ma in Cina, non lo posso prendere come qualcosa che non viene tostato ma che si beve solamente.

E’indubbio che nel tuo teatro viene messa al centro la forza della parola, qual è il motivo di questa scelta e quale il senso della parola ‘civile’ nella tua arte?

Io parlo come parlo io e lavoro su quello. E’ chiaro che in scena uso un altro linguaggio…ma manco tanto alla fin fine. Non penso né alle parole che dico né a come le dico. Penso alla storia che immagino. Dire che è elitario non ha nessun senso. Pasolini stesso diceva, una volta passato a film come “Canterbury” (I Racconti di Canterbury, ndr) le “mille e una notte” (Il fiore delle mille e una notte, ndr), “Salò” (Salo e le 120 giornate di Sodoma) diceva che faceva film per un élite e quando gli si chiedeva se li stava facendo per gli intellettuali lui diceva “No, per un’altra élite che anzi possibilmente, diceva, non abbia fatto neanche la terza elementare oppure quelli che hanno una cultura ad livello altissimo” Forse oggi non è più tanto così perché gente che ha fatto la terza elementare la potresti andà a trovà a Piazza Vittorio….ma neanche! Perché poi loro hanno studiato più de noi. La cultura è una cosa che dobbiamo oggi totalmente ricostruire, o meglio, che tutta una società dei consumi, per dì ‘naltra etichetta, ha talmente rimescolato, distrutto e ricostruito, che alla fine io dico o buona quella. Non vado a recuperare una cultura che mi sembra migliore di quella presente, ma perché non risponde a nessuna delle nostre necessità. Allora dico, la cultura che mi viene proposta oggi è quella del caffè Lavazza? Bene! Me prendo quella! Me ne va bene una qualunque di cultura, l’importante è che ci posso mettere le mani sopra! Cerco di rivolgermi a più persone possibili, che non credo facciano parte più dei gruppi.

E per farlo?

Per farlo cerco il più possibile di parlare una lingua comprensibile da tutti. Lo faccio come lo fa Maurizio Costanzo (Famoso presentatore e giornalista televisivo, ndr), va bene anche quello….voglio dire non Costanzo in particolare…va benissimo anche quella lingua. Se lui è comprensibile va bene! I programmi di Maria De Filippi, vanno bene anche quelli! La maggior parte della gente pensa in quella maniera, pensa quelle cose? Me vanno bene anche quelle! Solo che non possiamo lasciare le storielle d’amore e gli inciuci a Maria De Filippi, perché ne fa un uso improprio, volgare. Li prendo proprio come fa lei, con le stesse persone, però con consapevolezza di quello che stiamo facendo, questo è un modo civile o politico. Me rivolgo a tutti perché non me rivolgo a tutti, ma alle singole persone. Per me il rivoluzionario non lo trovi più tra gli operai, molti votano per Berlusconi, oppure per il centro-sinistra che non ci capiscono niente manco loro! Non li trovi in una categoria piuttosto che in un’altra, ma li trovi porta a porta…ops!(Ride)…casa per casa voglio dì! Uno per uno, ed è giusto che sia così, perché l’idea marxista, leninista che la fabbrica è il fulcro della rivoluzione perché li se crea una coscienza era una bestialità, perché si prendevano tante persone diverse, co un modo di vedere il mondo diverso, co una lingua diversa, venivano messe tutte insieme perché erano operai. In questa maniera se creano le istituzioni totalizzanti: i matti, i carcerati, i delinquenti, l’operai. C’è un bel libro, curato da Renato Curcio, chiamato “L’azienda totale” sui lavoratori nei supermercati…mi moje lavora all’IBM, è uguale insomma! Categorie, categorie, categorie, dove dentro ce stanno le persone. Coi malati di mente questo è sensazionale no? Perché il problema de buona parte delle persone che vengono considerate matte è proprio un fatto de perdita de contatto con la propria identità, tu je la cancelli definitivamente se dici che so tutti uguali: tutti semi agitati, tutti nello stesso padiglione…grazie al cazzo che diventano tutti semi agitati davvero! Allora l’élite? Già non mi rivolgo a Shakespeare nel mio teatro perché penso che con lui non si possano afferrare alcune cose: mi sembra molto più interessante raccoglie le storie della mia vicina di casa. Tra cent’anni continueremo poi ancora a legge Shakespeare e la mia vicina de casa sarà morta come me e non se ne parlerà più, né de me né de lei. Però tra cent’anni ci sarà un altro che fa teatro e un’altra vicina de casa altrettanto interessante che gli servirà come strumento in quel momento. Se devo piantà un chiodo nel muro, me serve un martello e me serve mo! Non me serve una bella plafoniera…è più bella la plafoniera del martello! Ma a me me serve proprio il martello. Poi si, domani me potrete dì che c’è un bell’aggeggio che pianta i chiodi nel muro. Ma a me quello me serviva, quello c’avevo, e ho piantato sto chiodo. E’ anche un modo molto artigianale de fa arte.

Con l’ultima entriamo un po’ nello specifico…

(facendo un sospiro ironico) Aaah finalmente (risate)!

Nel tuo raccontare la voce popolare e l’improvvisazione teatrale si mescolano e si presuppongono, quale responsabilità c’è nella costruzione immaginaria che tu operi a partire dalla tradizione orale? E, in secondo luogo, cos’è cambiato da “Cecafumo” alla “Pecora nera” su questo terreno?

(Grossa risata, risate generali) Gajarda! Ammazza! Beh, è cambiata. Andavo a raccoje storie, perché pensavo appunto alla fiaba come ce la raccontava Calvino, il catalogo dei destini che possono darsi un uomo e una donna. E’ tutto vero. Bello e tutto vero. Oggi credo che ho un’esigenza diversa: credo sia più importante andà a raccoglie storie dei lavoratori dell’Atesia che stanno dietro casa mia. Resta però che quando scrivo ‘na storia la sua struttura è più simile alla struttura delle fiabe che non del dramma elisabettiano o del nuovo cinema americano, perché probabilmente io così so fa le cose. Però oggi non c’avrei più tempo de andà a raccoje le fiabe. A un certo punto uno comincia a pensà che forse ci sono delle cose che so più urgenti. Per altro a me sembra che ci sia una carica straordinaria nell’immaginario che noi ancora non abbiamo capito che ci appartiene. Cioè io sento parlà uno della Roma, non capisco niente ma è entusiasmante!…pure le altre squadre, eh?! Però della Roma magari…(risate)No scherzo, non so neanche i nomi dei giocatori. I lavoratori precari raccontano delle storie strepitose oggi: perché il precariato oggi dietro c’ha un immaginario straordinario. Secondo me quindi non solo è urgente raccoglierlo perché c’abbiamo proprio bisogno di capì che cosa sta succedendo, perché, come il discorso del caffè Lavazza c’abbiamo bisogno non solo dell’oggetto, ma il mito, la persona che l’ha fatto e tutta la sua storia per intero. Non esiste l’uomo Lavazza, che compra il caffè Lavazza. Esiste però la persona che compra prodotti altro mercato. In qualche misura ad un certo punto tu appartieni….poi anche lì, diventando un’élite intellettuale diventa una cosa un po’ fricchettona, o un po’ schizzinosa, un po’ radical chic! si direbbe. Però quanto meno a un certo punto se cominci a vedere che sul caffè Uciri (ride) che fu il primo caffè che fece l’altro mercato, ti viene detto chi è che lo fa, quando poi compri i caffè Lavazza, oppure quando come me compri i succhi de frutta della serie Select, selezione di vari supermercati riuniti sotto quest’etichetta, per capire dove li avevano fatti lo capivi un po’ contorta perché c’erano due luoghi de produzione (a Salerno e a Ravenna), e se c’era la C o se c’era la A cambiava, era complicato….

Senti ma c’è una responsabilità comunque tra la tua improvvisazione e il l’ascolto che tu fai della tradizione orale, cioè c’è un legame…

Scusa è che ero entrato nel vivo del discorso (ride)….

Non c’è problema, anzi

Senz’altro si. Quando cercavo de capì che cosa voleva dì Propp quando scriveva “Morfologia della fiaba”, che sarebbe “Morfologia della fiaba de magia” perché parla dei racconti de streghe, de magia. Appena aperto sto libro sembrava ‘na cosa incomprensibile, nell’edizione nuova c’è anche un foglietto con tutti i numeri (ridendo) che parla del teorema de Pitagora con le funzioni, da diventà matti. Invece poi leggendo te rendi conto che non è altro che una maniera per parlare, anche in maniera semplificata, del nostro modo de raccontà ‘na fiaba de magia. La funzione non è altro che una traduzione semplificata di quello che normalmente facciamo quando raccontiamo le fiabe de magia. E’ certo che c’è un eroe, che può esse un cane parlante o un albero parlante. Un vecchietto, una vecchietta, un principe. Ci sarà sicuramente una mancanza iniziale che lo mette in moto, così che quando cominci a capire che cosa voleva dire Propp, alla fine dici: “E vabbè! Lo sapevamo tutti!” Così se fa ‘na fiaba! Tant’è vero che poi partendo dalle funzioni ci puoi fa dei giochini che noi facevamo pure coi bambini a scuola: cambiamo l’eroe, cambiamo la mancanza iniziale, non è più la principessa che ride ma è il frutto sugli alberi, l’eroe però rimane lo stesso, come il luogo, il viaggio, il viaggio iniziatico il viaggio all’altro mondo come lo facciamo? Verso il bosco oppure gli facciamo attraversare il mare?…quello che cerco de raccoglie dalla tradizione popolare, ma anche dall’oralità come la utilizziamo noi oggi eh, perché oggi è fortemente cambiata l’oralità, oggi la gente vede la televisione, ha un’altra idea dell’immagine. Due aeroplani arrivano sulle Twin Towers de New York la gente sta la sotto e dice “E’ come un film!”. Sarà cambiato qualcosa, no? Come ci lavoro? Da una parte tengo conto di questo bagaglio straordinario che è appunto ciò che ho capito delle strutture proprie alla stradizione orale, dall’altra parte tengo conto dell’oralità: de mia madre che parla, de te, del mio vicino de casa. Gli spettatori se ne accorgono! Tant’è che me vengono sempre a raccontà fatti: uno una volta s’è fermato per strada, in macchina, s’è fermato e m’ha detto: “te devo raccontà sta cosa, questa la poi raccontà” e me l’ha detta. Effettivamente era ‘na bellezza. Per cui voglio dì, tutto questo funziona perché c’è l’improvvisazione. Perché se procedessi esclusivamente da un testo scritto imparando a memoria le parole, me l’ha detto pure un’infermiera de un ospedale de su che era arrivata un’ora in ritardo perché nun je partiva la mucca: “Aoh! Mica farai come quelli che s’emparano le cose a pappagallo, e poi ripetono a pappagallo” m’ha fatto. Io gli detto: “se figuri signora non faccio così!”. Però je volevo dì: “Ma il teatro è così però!”. Questo teatro non funziona più: la signora de Venezia se ne accorge che quello s’è imparato a memoria quelle cose! Una volta ho visto uno spettacolo: “Il giardino dei ciliegi”, c’era ‘na finestra che se moveva così (fa il gesto della finestra con le mani), piano piano, tr tra tra tr tra tr tr tra tr per cinque minuti. Poi alla fine usciva il personaggio tr tra tr tr tra e Bom! Sbatteva la finestra (ride) Caspita bello ma? Che me voi fa crede veramente che…? Già me voi fa crede veramente che…già devo crede che quelli so ciliegi, in quello spettacolo erano betulle, ma a parte questo…non importa perché era la Russia. Già me voi fa crede che quelli so tutti russi, che quello parla, che quello entra quando quello esce, che è giorno che è notte, che fa freddo che fa caldo, che stamo in Russia, che stamo alla fine dell’800 o all’inizio del ‘900, mo me voi pure fa crede stava a sbatte la finestra?

Quindi c’è una responsabilità nei confronti della verità e del rapporto col pubblico?

Il teatro è verità! Quello che succede sul palcoscenico non la storia che racconto io. Quella che racconto io po esse vera e po esse inventata. Ma che io sto veramente sul palcoscenico, su questo non ce piove…se ce piove piove anche sul palcoscenico… (risate generali).

PUBBLICATO IL : 17-06-2006
@ SCRIVI A Giulia Frezza, Daniele Mastrangelo, Emanuele Profumi
 
Tema
Per una lettura di Pier Paolo Pasolini
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