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Una signora di mio gusto. Elsa Morante e le altre
Interviste in occasione del ventennale della morte
di Ottavia Nicolini

 

Il 25 e 26 Novembre, presso il Teatro Vittoria di Roma, si è svolta, in occasione del ventennale della morte di Elsa Morante, l’ultima tappa di un ampio progetto culturale intitolato “Una signora di mio gusto. Elsa Morante e le altre”. Il progetto, promosso dalle istituzioni Biblioteche di Roma – Assessorato alle Politiche Culturali, Commissione delle Elette del Comune di Roma, ha dato vita a numerosi incontri che si sono svolti per tutto il mese di Novembre, dedicati non solo alla discussione critica delle opere della scrittrice ma anche alla sua divulgazione, mescolando un pubblico di addetti ai lavori con uno meno esperto. Studiose e studiosi della Morante si sono di fatto alternati agli alunni di alcune scuole pubbliche romane che ne hanno messo in scena le opere teatrali e non solo, così come ad attori professionisti è toccato il compito di interpretare brani scelti dalla sua produzione letteraria. Alla Casa delle Donne di Roma inoltre, in un incontro dedicato a “Il senso dell’arcaico femminile e materno nell’opera di Elsa Morante” ha partecipato anche Francesca Comencini con il suo “Portrait di Elsa Morante”.
Così come ci suggerisce il titolo “Una signora di mio gusto”, riprendendo una frase di Menzogna e Sortilegio, primo straordinario romanzo della Morante, il filo conduttore di questi incontri è stata quella che, forse sbrigativamente e con un linguaggio mutuato dall’ordine dei saperi anglo-americani, potremmo definire l’ottica di genere. L’opera di Elsa Morante è stata infatti indagata e discussa a partire dal suo essere stata generata dal corpo, e dunque dall’esperienza vivente che vi si riflette, di una donna.
Secondo quest’ottica, quel giudizio di appartenere alla cosiddetta “scrittura femminile”, pronunciato da un critico letterario contro la Morante, con l’intento di svalutarne La Storia - giudizio feroce che amareggiò profondamente la scrittrice in quanto capace di colpire violentemente le radici profonde dell’esperienza narrativa di una donna - può esser letto come l’espressione di una differenza arricchente piuttosto che come un difetto sminuente. Il fatto che le scrittrici del Novecento abbiano, con la loro produzione artistica, forzato, fino quasi alla rottura, i canoni classici della narrativa tradizionale, osando sia in campo stilistico, sia portando al linguaggio esperienze che fino ad allora furono lasciate nell’ombra perché appartenenti ad una cultura specificatamente femminile, costituisce oggi, a vent’anni di distanza dalla morte della Morante, un dato quasi del tutto assimilato dalla cultura dominante. Ma non per questo meno indigesto.
Tuttavia queste due intense giornate di studi non sono servite solamente a focalizzare alcuni aspetti caratteristici della poetica morantiana, ma hanno avuto anche il merito di lasciare emergere la fitta rete dei rapporti femminili che gravitavano intorno alla Morante, restituendoci vere e proprie parole fra donne. La presenza femminile di una singola infatti spesso si porta con sé tutta una rete sommersa di scambi, ammirazioni, gelosie, affetti e pensieri nei confronti di altre donne. E allora sono circolati i nomi di Simone Weil, che la Morante ha ammirato e letto con estrema attenzione, annotando con cura i suoi Cahiers, di Maria Zambiano e sua sorella Aracoeli, che forse potrebbe aver giocato un ruolo non secondario nella stesura di Aracoeli, di Anna Maria Ortese, etc. Così come, a partire da alcune vere e proprie assonanze, si è cercato di costruire un percorso di confronto e di differenza con altre grandi pensatrici del Novecento. A questo proposito abbiamo intervistato due illustri relatrici, Annarosa Buttarelli, docente di Ermeneutica filosofica presso l’Università di Verona e membro della Comunità Diotima e Liliana Rampello, docente di Estetica all’Università di Bologna e curatrice della rubrica “Ai libri non si resiste” di Via Dogana, rivista della Libreria delle donne di Milano.


Intervista a Annarosa Buttarelli
Università di Verona, membro della comunità Diotima

In questa intervista vorrei ripercorrere, procedendo per brevi tappe, il suo intervento intitolato: “Elsa Morante e Carla Lonzi: un incontro mancato?”, intervento davvero interessante in questo tentativo di confronto fra due grandi pensatrici del Novecento. Partirei allora proprio dal romanzo La Storia di Elsa Morante, chiedendoLe se, e come, sia possibile rintracciare una concezione della storia all’interno del romanzo e che ricadute abbia.


La Storia è un romanzo molto complesso, probabilmente anche più misterioso di quanto si sappia ancora leggere. E tuttavia lì ci sono alcune piste di lettura della storia che la Morante propone in maniera sufficientemente chiara. La prima è questa: che la Storia (quella con la S maiuscola) mangia vive tutte le storie singolari (quelle con le s minuscole), quelle che si possono raccontare tra esseri umani, le vite diciamo. E non solamente le vite singolari degli esseri umani ma anche le vite di tutto ciò che è presente sulla terra in una forma non umana, ovvero animali, vegetali, paesaggi, etc. Il secondo punto è il fatto che, sebbene la Storia sia fatta non si sa bene da chi, essa è comunque fatta secondo la figura della violenza, nella sua forma estrema che è la guerra. Questo comporta che la Storia, finché dura, e non si sa fin quando durerà, sarà sempre una Storia di violenza.
Elsa Morante allora ci fa vedere che, assieme a questa violenza che è come un fiume che travolge tutto, ci sono i cosiddetti esclusi, coloro che vivono vicino a questo fiume ma in un mondo parallelo al di là dell’argine, in mezzo a quei terreni che oltretutto si allagano più facilmente, che vengono travolti quando il fiume tracima.

La tematica dell’esclusione è allora un tema caro tanto alla Morante quanto alla Lonzi…Come si possono avvicinare queste due riflessioni?

Io ho cercato di fare questo [avvicinamento] non arbitrariamente ma proprio perché Carla Lonzi parla esplicitamente della Morante nel suo diario Taci anzi parla: diario di una femminista, registrando, in quegli anni, l’uscita del La Storia, il romanzo della Morante. Ma Carla Lonzi non lo riesce a leggere e, come dimostrano le numerose annotazioni, fa più di un tentativo nel proseguire la lettura. Ma, evidentemente, c’è qualcosa che le procura una specie di ripulsa. Io allora ho cominciato a pensare il perché di questa ripulsa visto che il tema dell’esclusione potrebbe far pensare che loro parlino della stessa cosa. Ma in realtà si vede abbastanza bene che l’esclusione di cui parla Carla Lonzi è un’esclusione privilegiata. Forse è quasi un’autoesclusione. La Lonzi parla delle donne, naturalmente, mentre la Morante parla sia di donne ma anche di altri esclusi.
Mettere in conflitto ed in cortocircuito questo primo elemento è stato molto interessante. Infatti se per la Morante dopotutto l’escluso è una vittima sacrificale, una specie di Cristo piccolino o, meglio, di tanti Cristi scesi in terra tutti destinati al sacrificio, contrariamente per la Lonzi l’esclusione è una risorsa. Ed è una risorsa che non prevede alcun sacrificio. Anzi prevede una specie di eccellenza in quanto le cose che accadono si possono vedere da una visuale discosta. L’esclusione quindi può produrre un di più d’intelligenza. Ed è proprio questo che lei sta seguendo. Sicuramente questa diversa concezione dell’esclusione rimane un elemento di conflitto forte tra le due pensatrici.

La concezione dell’esclusione nella poetica della Morante però mi sembra che possa anche fare riferimento al post-umano. Non le sembra questo un tratto molto attuale?

Io preferirei usare il termine non umano in quanto sia la Lonzi che la Morante chiaramente ancora non sono su questo confine del postumano a cui si è arrivati adesso. Sono però all’interno di una discussione che ha a che fare con degli orizzonti molto attuali. Tutte e due, è vero, ed è la cosa più importante che si può vedere nel conflitto tra le due attribuiscono un carattere non umano alle donne. Però mentre la Morante ha idea che il non umano sia un non umano dell’innocenza animalesca, degli animali, dei semplici, degli umili, insomma di uno stato quasi ridotto all’assenza totale del pensiero, la Lonzi invece vede il non umano delle donne nel loro non partecipare all’umano codificato.


Intervista a Liliana Rampello
Università di Bologna, Libreria delle Donne di Milano.

In questa giornata di studi lei ha cercato di avvicinare Elsa Morante a Virginia Woolf, cercandone i punti in comune. Mi sembra che un punto fondamentale, emerso nel corso del suo intervento, riguardi la differenza tra la figura del letterato e quella del poeta. Come l’hanno articolata queste due letterate? E sono arrivate a conclusioni in qualche modo vicine?

In Elsa Morante la definizione è molto netta così come chiarissima è la sua distinzione fa tra il letterato, ovvero colui che si occupa di letteratura guardando alla sua esperienza, al suo successo e alla sua visibilità nella logica di quella che per la Morante è la “pseudo-cultura”, e cioè la cultura di una società che mangia tutto quello che stai dicendo traducendo direttamente in merce anche gli eventi e gli avvenimenti, e il poeta che è proprio colui che “si occupa di tutto quello che accade fuorché di letteratura”. Questo pensiero intanto resta sempre attuale perché significa stare vicino alla vita, a quella stessa vita che accade a tutti noi. Significa inoltre essere capaci di parlare con chiunque e a chiunque, e soprattutto di imparare da chiunque.
Anche nella Woolf è possibile rintracciare questo stesso pensiero che però in lei diventa non solo una lotta contro l’intellettualismo. In Al faro tutto questo è rappresentato in un modo straordinario attraverso la differenza tra Mrs. Ramsay e Mr. Ramsay. Quest’ultimo infatti persino negli occhi guarda sempre lontano i cieli dell’astrazione ed è sempre preoccupato dei concetti, di riuscire a spiegare che cos’è un tavolo quando non siamo davanti a un tavolo, quando non abbiamo esperienza del tavolo. C’è allora un grande conflitto della Woolf contro gli intellettuali che non nasce solo dal fatto che lei non ha studiato nelle grandi Università. La sua non è invidia, ma proprio l’idea che l’intellettuale raggeli il sapere vivo dell’esperienza. Inoltre, a differenza della Morante, nella Woolf è chiarissima la dimensione di relazione fondamentale tra donne. E quindi lei continuamente ragiona sulla non distinzione tra la grande donna e la donna comune; non perché non sappia che ci può essere una grande scrittrice o una grande artista e ci può essere la donna comune, quella il cui lavoro non si vede mai in quanto le cene sono state servite, i figli sono andati a scuola, e nulla della sua opera sembra restare, ma perché questo rapporto è fondamentale per entrambe. La donna comune perché sa che il valore della sua esistenza c’è ed è visto e la donna grande perché è in rapporto con questa catena continua dei saperi femminili che riesce a sapere qual è la materia vera di cui deve parlare, cioè la vita stessa. A questo riguardo ci sono tantissimi esempi possibili. Sempre in Al Faro Lily Briscoe traccia l’ultimo segno sul suo quadro perché ha finalmente imparato la lezione della signora Ramsay, la quale era una donna comune, una madre che aveva dato semplicemente una cena. Tutto quello che infatti la signora Ramsay fa, in Al faro, è di preparare la grande cena che chiude la prima parte del romanzo. Ma l’artista impara proprio da lei. Questo scorrere di saperi è molto evidente nella Woolf e non solo nei testi politici ma soprattutto nei romanzi, come ho sostenuto nel libro che ho scritto sulla Woolf. Io infatti considero Virginia Woolf una grande pensatrice in quanto è stata una grande artista, non al posto di, né tanto meno in opposizione a . Il primato è dell’artista: in quanto è stata una grande artista è riuscita anche ad avere grandi pensieri. Infatti i suoi saggi politici sono sostanzialmente solo due, Una stanza tutta per sé e Tre Ghinee. Ma in realtà tutto quello che lei dice nella forma saggistica è stato sperimentato nel vivo della creazione artistica.
C’è un rapporto tra i romanzi e i saggi in queste due grandi scrittrici molto interessante perché appunto sono entrambe due grandi artiste. Come ha già detto la Morante, l’arte è una forma di conoscenza del mondo, non qualcosa che possiamo avere o non avere. Noi moriamo senza l’arte. Se dunque l’arte è una forma di conoscenza del mondo, allora io credo che il sapere vada cercato nell’opera e il discorso saggistico, nella Morante molto più limitato, nella Woolf vastissimo, sia comunque una riflessione su quel primum che è l’invenzione romanzesca. E’ una prossimità molto interessante che riguarda molte delle scrittrici del Novecento.

A questo proposito mi viene in mente come Il mondo salvato dai ragazzini sia un romanzo difficilmente catalogabile nei generi classici, come a testimonianza di questo primum costituito dall’invenzione romanzesca…

Un altro discorso ancora potrebbe essere la fuoriuscita dai generi. Il fatto che fosse la Morante a decidere cosa possa essere un genere letterario, come lo si possa definire e che tradizione possa avere è in parallelo ma, in un’altra forma, identico nella Woolf. Sono tantissime le volte in cui la Woolf afferma che si deve leggere seguendo il proprio piacere senza seguire nessun altro insegnamento, che non si possono costruire le storie della letteratura così come lo fa l’accademia. Pensiamo, ad esempio, a cosa fa della biografia: le tre grandi biografie della Woolf sono Flush, Orlando e Roger Fry. In Flush il punto di vista è messo negli occhi di un cane, Orlando è per trentatré anni uomo e poi donna, vive attraverso quattro secoli... E’ il continuo scarto, l’irrisione e la derisione del genere biografico. Anche lei ha trasgredito sempre il limite del genere. Anche lei quando fa critica letteraria in prima persona mai e poi mai si sogna di catalogare le opere secondo classificazioni tradizionali. E infatti ha un’idea della letteratura grandissima, parte ovviamente della figura del lettore comune, in cui ritorna questa possibilità che chiunque abbia accesso alla narrazione, perché narrare le storie è un’attività fondamentalmente umana e chiunque le può quindi ascoltare. Sia la Morante che la Woolf sono grandi pensatrici in quanto grandi artiste. Se infatti noi ne cerchiamo il senso ultimo, il concetto o la categoria allora non riusciremo mai a capire il percorso che hanno fatto poiché non stiamo come loro vicino all’esperienza ma, diversamente, astraiamo.

E astraendo e catalogando si perde qualche cosa…

In parte in “Sul romanzo” la Morante sembra smentire quello che dico perché a un certo punto afferma che essendo i romanzi delle opere di pensiero allora evidentemente qualsiasi buon lettore può ridurlo a quel pensiero o a quel concetto. Ma secondo me anche lì, anche se ci devo riflettere meglio, non sta parlando del lavoro filosofico così come la tradizione ce lo consegna, ovvero come un lavoro proprio sugli universali...

Come ultima domanda vorrei ritornare su un aspetto biografico della vita di Elsa. Non crede che il fatto che la Morante non finisca l’Università possa aver inciso su questo suo tratto anti-intellettualistico?

Ma quando succede questo probabilmente c’è anche un’assenza di desiderio verso quel sapere perché chi è così bravo a fare ciò che vuole è chiaro che avrebbe potuto fare anche quello! Evidentemente a un certo punto non lo ha più desiderato. Con quanta consapevolezza non sappiamo. Magari la consapevolezza è venuta molto dopo nel tempo. Però sicuramente le scelte hanno sempre un senso, anche quelle che sembrano più direttamente determinate da una contingenza. Quando persistono in personaggi di questo calibro allora hanno tutte un senso

PUBBLICATO IL : 27-12-2005
@ SCRIVI A Ottavia Nicolini
 

 
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