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La nuova sfera pubblica nelle cittą globali
Intervista a Saskia Sassen
di Giorgio Fazio

Saskia Sassen insegna sociologia all'Università di Chicago e alla London School of Economics in qualità di 'Visiting professor'. Considerata fra i teorici di spicco della società dell'informazione, la Sassen ha acquistato fama e prestigio con il libro 'Global city' (1991). Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo: Guests and Aliens (1999), Globalization and its Discontents (1998), 'Losing Control? Sovereignty in an Age of Globalization' (1996). I libri della Sassen sono stati tradotti in tre lingue. Fra i libri tradotti e pubblicati in Italiano ricordiamo: 'Città globali' Utet, Torino,1997; Fuori controllo, Il Saggiatore, Milano,1998; 'Migranti, coloni, rifugiati. Dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa', Feltrinelli, Milano, 1999. Attualmente la Sassen sta completando il libro 'Cities and their Crossborder Networks'. Fra i progetti di ricerca che sta portando avanti ricordiamo il progetto 'Governance and Accountability in a Global Economy.'


L’impressione che si è ricevuta in occasione di manifestazioni come quella del 15 febbraio 2003 contro la guerra americana in Iraq è di essersi trovati di fronte a nuove forme di agire collettivo, difficili da inquadrare in consolidate categorie di analisi. Al di là del dato numerico e del carattere internazionale della protesta, ciò che sorprende ogni volta è che mobilitazioni di questo tipo proteste si giocano quasi completamente al di fuori dei tradizionali canali di mediazione politica. Partiamo allora da questo dato che è quello più evidente : qualcosa nei vecchi canali di mediazione politica non funziona più e qualcosa di inedito sembra prenderne il posto. Quali sono le caratteristiche dei nuovi movimenti e perché i vecchi canali di mediazione politica sembrano essere entrati irrimediabilmente in crisi?

Il successo dei vecchi canali di mediazione politica era legato all’esistenza di realtà sociali determinate e a possibilità concrete di trasformazione, ma il mondo ha subito un’accelerazione e una trasformazione radicale negli ultimi venti anni. Non è che partiti e sindacati abbiano commesso errori o siano responsabili di colpe, è semplicemente che hanno perso il loro terreno di radicamento. Il sindacalismo in particolare ha fatto uscire il sistema capitalistico da una fase di accumulazione primaria e lo ha costretto a confrontarsi con istanze sociali e principi di giustizia. Il risultato è stato un orientamento generalizzato verso politiche economiche keynesiane, che paradossalmente sono state proprio quelle che hanno permesso al sistema capitalistico di rimanere in piedi. Negli anni questo progetto però ha perso progressivamente terreno e possibilità di riuscita su scala nazionale. Adesso, potremmo dire, ci troviamo di nuovo in una fase di accumulazione primaria del capitalismo, con problemi enormi di redistribuzione; il problema però è che mancano ancora chiare strategie e soggetti definiti all’altezza della società globale.
Un secondo fattore di crisi lo collegherei alla esplosione degli immaginari politici avvenuto negli ultimi anni. Le interdipendenze provocate dalla globalizzazione hanno prodotto l’effetto di scomporre l’universo politico in una molteplicità di vettori e di direzioni prima impensabili. Il fatto che oggi anche chi non viaggia può accedere ad un rete mondiale di informazioni e contatti, provoca un rimescolamento di immaginari che ridimensiona simboli e riferimenti del passato. Anche se i valori possono essere comuni - estensione dei diritti fondamentali, giustizia sociale, etc.- l’effetto di questo processo è che le forme empiriche che oggi assumono le proposte politiche variano moltissimo. Alcuni si impegnano per l’ambiente, altri contro la tortura, altri con il movimento gay. Ed è una diversità per certi versi irriducibile. Siamo così catapultati in una realtà in cui il nostro progetto non appare più l’unico progetto politico. In una battuta potremmo dire che ciò che è successo è che ciascuno di noi ha perso la propria innocenza politica.
Un terzo fattore di crisi della politica tradizionale potrebbe essere individuato a mio avviso nel fatto che la perdita di potere dello stato nazionale crea più cinismo. Venendo a mancare quella forza agglutinante al centro rappresentata dallo stato nazionale, che offriva anche un orizzonte di cambiamento reale, si è persa in molti la stessa fiducia di poter trasformare lo stato di cose esistente. Nel ceto politico questo ha significato in molti casi la concentrazione sulla mera lotta per il potere.


Se le forme del politico invalse nelle democrazie novecentesche sembrano entrare in crisi, come effetto a catena una sorte analoga sembra subire lo spazio che ha rappresentato per certi versi l’interfaccia del politico novecentesco, cioè ciò che è stato nominato dalla categoria moderna di opinione pubblica.


Il concetto di opinione pubblica ha subito negli ultimi anni un mutamento profondo che ne ha snaturato il senso originario. E’ diventata sempre più una nozione strumentalizzata. Oggi serve per lo più al potere economico-politico e ai mass-media per controllare la società e immunizzarla da ogni sua autentica dinamica pubblica.
Al contrario il concetto di sfera pubblica continua a conservare a parer mio la sua validità e può servire a nominare dimensioni dell’accadere sociale ben vive, anche se dislocate rispetto agli spazi tradizionali della dinamica politica e sociale. Nei miei studi ho tentato di mostrare come un nuovo fronte di attivazione della sfera pubblica sia individuabile paradossalmente proprio nei luoghi in cui concretamente passano i processi di globalizzazione capitalistica, cioè nel tessuto urbano delle cosiddette città globali. Queste città, circa una quarantina nel mondo, sono attraversate da due dinamiche opposte ma legate da una dialettica interna. Da una parte esse sono lo spazio dove il capitale globalizzato, elettronico, elusivo, assolutamente privato, diventa il nuovo motore di aggregazione, ridisegnando gli spazi stessi della riproduzione sociale. In questo senso anch’esso assume una valenza politica. Ma per altro verso è in questo stesso spazio urbano che tutta l’amalgama crescente di persone esclusa da quei processi, le fasce della popolazione povera, i migranti, ma anche i gay, i queers, e più in generale tutta la gente che è fuori dai canali di riconoscimento ufficiali, trova la possibilità di diventare forza sociale. E questo si badi ad un livello che apparentemente è pre-politico. Io li chiamo i processi del “fare presenza”, cioè i processi attraverso i quali queste persone si riconoscono, vis à vis; e non in vista del potere, ma semplicemente come soggetti investiti dalle stesse dinamiche di emarginazione, imparando a cogliere gli uni negli altri analogie e ricorsività.
E’ chiaro che questo concetto di sfera pubblica ha poco o nulla a che vedere con quello di opinione pubblica.

Lei sta dicendo cioè che lo spazio del politico viene a riconfigurarsi perché oggi coinvolge fenomeni che prima venivano relegati nella mera sfera dell’informale, del privato. Rimane il problema però di capire come da queste forme di riaggregazione primaria si possa risalire alla costruzione di nuovi soggetti, in grado di produrre progetti e intervenire concretamente nella sfera delle decisioni.

E’ molto importante prima di tutto sottolineare il fatto, come lei diceva, che oggi assume una valenza politica anche la semplice rivendicazione della propria condizione esistenziale nella sua irriducibilità. Le madri de majo in Argentina non sono semplicemente cittadini che lottano per i propri diritti; tutto il senso della loro battaglia sta appunto nel presentarsi non come soggetti politici, ma come madri, e come madri dei desaparecidos chiedono giustizia. Questo vale anche per i gay, e per tutti i movimenti di questo genere.
E’ chiaro comunque che l’esigenza di forme di sintesi esiste.
Il forum di Porto Alegre è già una prima ricerca in questa direzione da parte di soggetti che non si sentono rappresentati, questo come ho già detto è molto importante.
Ma dobbiamo considerare un terzo aspetto, per me molto importante. Con qualche riserva io considero la categoria di moltitudine utile, a costo di depurarla dal suo carattere di astrattezza e soprattutto dalla sua tendenza a ghettizzare i fenomeni che intende descrivere. Mi sembra che riesca a nominare qualcosa, cioè il fatto che ci sono oggi tre miliardi di persone nel mondo completamente out, fuori da ogni canale di integrazione sociale. Beh, se noi entriamo in questo immenso mondo sommerso, scopriamo che ci sono già lì dentro micro-infrastrutture politiche che lavorano creando prime forme di sintesi e sovrapposizioni. Sono quelle che io chiamo “le pratiche degli esclusi”. Sono punti di partenza da cui si può cominciare a tessere reti. Trovo decisivo la funzione che in queste pratiche ha il narrare, il raccontare le proprie piccole esperienze di rivendicazione di diritti, perché questo permette ad altri di riconoscersi e di sedimentare una memoria in grado di produrre reale esperienza. Il concetto di moltitudine non va certo nella direzione di una sintesi politica nel senso tradizionale, del partito o del sindacato, ma può descrivere questo processo di diffusione a rete che mi sembra l’unico punto di partenza possibile in questi contesti per ricominciare a rimettere la storia in cammino.

Non stiamo forse sopravvalutando le potenzialità di riattivazione della sfera pubblica? La corrosione dei vecchi canali di integrazione sociale rende comunque la società più esposta a involversi in dinamiche di atomizzazione sociale e a subire il condizionamento dei mass-media, che oggi contribuiscono in gran parte a produrre omologazione, passività, malleabilità.

Sono d’accordo. Tutto quello che ho descritto riguarda delle minoranze. A Porto Alegre erano non più di 70 mila, ben poca cosa rispetto alle maggioranze dei paesi coinvolti da quell’evento. Negli Stati Uniti per esempio, al di là della popolazione coinvolta nel sistema politico tradizionale, il livello di attivazione politica è completamente sottosviluppato.
Ed è anche vero che i mass-media svolgono ormai una funzione centrale nella formazione della volontà politica. Sono diventati ormai i veri protagonisti delle campagne elettorali. Basta vedere quello che è successo nelle presidenziali statunitensi. Comunque ci sono segnali interessanti a parer mio anche su questo versante. La teatralizzazione della politica ha spinto molti, nei nuovi movimenti, a forme di mobilitazione artistiche molto intelligenti che hanno l’obiettivo di entrare in lotta per la conquista dell’egemonia degli immaginari mediatici.
Ma certo rimane il fatto che parliamo di minoranze, il vero dato è che le società occidentale in questo momento sono molto passive e io direi che più che individualistiche e atomistiche, sembrano essere attraversata da processi, veramente inquietanti, di massificazione.

PUBBLICATO IL : 21-10-2005
@ SCRIVI A Giorgio Fazio
 

 
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