1) Vorrei iniziare con una domanda di carattere generale e introduttivo 
  riguardante il rapporto tra filosofia e letteratura in Sartre. Qual è 
  secondo lei il ruolo che riveste la riflessione filosofica all’interno 
  della produzione letteraria di Sartre? Potrebbe ricostruire, nelle sue linee 
  generali, il travagliato rapporto tra filosofia e letteratura che contraddistingue 
  l’opera di Sartre e che, a dire dello stesso, trova il proprio epilogo 
  nel 1963 con la pubblicazione di Les Mots?   
Il rapporto tra filosofia e letteratura non mi sembra particolarmente travagliato, 
  mi sembra invece particolarmente fecondo e riuscito. Non solo perché 
  il sogno giovanile espresso nei termini iperbolici di “essere al tempo 
  stesso Stendhal e Spinoza”, Sartre lo ha in qualche modo realizzato, ma 
  per l’originale ibridazione tra filosofia e letteratura di cui tutta la 
  sua opera testimonia. Il risultato più innovativo, e unanimemente apprezzato, 
  è quello prodotto sulla scrittura filosofica: L’Etre et le 
  Néant si nutre complessivamente di una scrittura letteraria e di 
  un’immaginazione romanzesca che fanno di un “saggio di ontologia 
  fenomenologica” una lettura appassionante, sciogliendo in splendide immagini 
  una concettualizzazione ardua e formule potenzialmente ermetiche. Basti pensare 
  alle pagine che concretizzano l’analisi della malafede in termini di commedia 
  della vita quotidiana, attraverso la gestualità fra il professionale 
  e l’affettato di un “garçon de café”, o quella 
  della relazione con l’Altro mettendo in scena il corpo e la carezza tra 
  amanti…  
  Sul terreno letterario, forse, le cose sono più complesse e non sono 
  mancate le riserve. E tuttavia non c’è dubbio che con il suo primo 
  romanzo, La Nausée, Sartre vince una duplice sfida: “dar 
  forma letteraria a un’idea filosofica”, costruendo un personaggio 
  e una storia attorno al concetto di “contingenza”; e al tempo stesso 
  piegare la forma letteraria del diario, tradizionalmente utilizzata per l’esplorazione 
  della vita interiore, alla scoperta della mancanza di senso del reale quando 
  la coscienza non lo investa di categorie interpretative, si tratti di oggetti, 
  luoghi, gesto, corpo. E Les Mots, che chiude il cerchio aperto una 
  trentina di anni prima con La Nausée, sancisce questa sintesi 
  di filosofia e letteratura, con un racconto autobiografico permeato di forza 
  interpretativa alla luce delle nozioni elaborate dal filosofo e con una scrittura 
  ad alta densità figurale che esibisce il suo carattere letterario e che 
  rappresenta il massimo impegno sartriano sul piano stilistico. Con un serrato, 
  sapiente, uso di citazioni e allusioni, riprese e rovesciamenti parodici, lo 
  scrittore rivendica la sua identità e il suo irriducibile rifiuto di 
  lasciarsi fissare in immagini codificate, ovvero fa rivivere attraverso l’auto-rappresentazione 
  quelle analisi della coscienza e della funzione dello sguardo dell’altro 
  che erano state al centro della sua prima grande opera filosofica.. 
  Ma il discorso vale anche per il teatro, che non è un’illustrazione 
  della filosofia bensì un’originale drammatizzazione di situazioni 
  esistenziali e di conflitti morali, attraverso la creazione di situazioni-limite, 
  di confronti implacabili, di colpi di scena, di dialoghi scintillanti. E si 
  estende a quelle opere difficilmente classificabili con le quali Sartre ha interrogato 
  e interpretato altri grandi scrittori, da Baudelaire a Mallarmé a Flaubert, 
  passando per Jean Genet. Infine, le pagine pubblicate postume, perché 
  non finite (come La Reine Albemarle ou le dernier touriste) o non destinate 
  alla pubblicazione (come i Carnets de la drôle de guerre), proprio 
  in ragione di questo loro particolare statuto, mostrano in maniera ancora più 
  scoperta il continuo intreccio fra procedimenti letterari e riflessione filosofica. 
   
  Il rapporto travagliato è semmai quello fra impegno politico e letteratura. 
  Su questo terreno, anche per Sartre come per altri scrittori moderni, l’equilibrio 
  è precario e i prezzi pagati sono alti. Quando, negli anni trenta, Sartre 
  studia Husserl nella Germania hitleriana (1933-1934) e fin dai primi viaggi 
  si entusiasma per l’Italia e per Tintoretto nonostante il fastidio delle 
  camicie nere, quando scrive il saggio sull’immaginazione, La Nausée 
  e le novelle riunite in Le Mur, tra il 1929 e il 1938, totalmente assorbito 
  dalla sua passione di farsi scrittore e filosofo, lo fa a prezzo di una totale 
  sordità rispetto a ciò che avviene intorno a lui, nel mondo reale 
  e nella coscienza di vasti ambienti artistici e intellettuali che si mobilitano 
  contro i fascismi, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’incombente 
  minaccia di guerra. E viceversa. Nel ’52, la decisione di abbandonare 
  il libro sull’Italia a cui sta lavorando e che vuol essere un’altra 
  grande sfida, La Reine Albemarle ou le dernier touriste, per dedicarsi 
  a un testo-manifesto, Les Communistes et la Paix, assume il valore 
  emblematico di una rinuncia più sostanziale che approderà alla 
  decisione, presa durante la guerra di Algeria, di chiudere con gli scritti di 
  finzione e di mettere la propria penna al servizio delle ingiustizie. L’intellettuale 
  impegnato che diventa il portavoce degli oppressi di tutto il mondo e si fa 
  carico di intervenire sulla sclerosi del marxismo dotandolo di un’antropologia 
  lo fa a prezzo di una rinuncia alla scrittura letteraria; salvo recuperarla 
  per sancire e proclamare questa rinuncia nel racconto parodico della propria 
  vocazione di scrittore, appunto con Les Mots, iniziato nel ’53 
  e portato a termine una decina di anni dopo.  
 
  2) Vorrei ora spostare l’accento su quelle che sono le influenze, 
  i debiti che Sartre contrae con il mondo delle lettere. Molti sono a cui la 
  critica fa da anni riferimento per spiegare e rintracciare la genesi del romanzo 
  e del teatro sartriano. Prima di tutto Flaubert, a cui Sartre dedica l’ultima 
  e la più voluminosa delle sue opere, poi Stendhal, Malraux, Gide, Proust 
  e Celine, da cui Sartre riprende, in La Nausée, una delle poche 
  epigrafi presenti nelle sue opere, e infine gli anglofoni Faulkner, Dos Passos 
  e Joyce. Qual è a suo avviso la figura più rilevante rispetto 
  alla quale Sartre, sia per continuità che per contrapposizione, prende 
  maggiormente spunto per formare la propria originalità letteraria? 
Sartre è uno scrittore che si definisce “contro”, come lui 
  stesso ha visto lucidamente. Da questo punto di vista, fra i nomi che lei ha 
  citato, si impone quello di Proust, soprattutto negli anni Trenta e per La 
  Nausée, ma ancora negli anni Cinquanta per quello che si può 
  ricavare dalle pagine finora ritrovate della Reine Albemarle. E’ 
  uno scrittore che ha praticato in maniera disinvolta quanto insistita il riuso 
  della scrittura altrui, in un’intertestualità diffusa e puntuale 
  magistralmente realizzata con una giostra di riprese, ammiccamenti, rovesciamenti 
  parodici. Ancora una volta, La Nausée è esemplare da 
  questo punto di vista, polemizzando con Maupassant, ridicolizzando il Malraux 
  umanista della Prefazione a Le Temps du mépris, riformulando 
  dal basso la malinconia cara alla letteratura romantica e post-romantica, e 
  così via. In quanto all’epigrafe di Céline, ha il valore 
  di un omaggio a una scrittura di cui negli anni Trenta Sartre vede tutto il 
  carattere dirompente e alla creazione di un personaggio come Bardamu (L’Eglise, 
  ma anche e soprattutto Voyage au bout de la nuit), un anti-eroe “senza 
  importanza collettiva, appena un individuo”. Ma La Nausée 
  non è un caso isolato: Les Mots riprende e amplifica fino alla 
  vertigine questa scelta stilistica, tanto da far parlare di una scrittura-palinsesto 
  (si veda la raccolta di studi a cura di Michel Contat, Pourquoi et comment 
  Sartre a écrit ‘Les Mots’, PUF 1996). Sartre è 
  anche uno scrittore estremamente attento ai procedimenti narrativi, giustamente 
  convinto che “ogni tecnica narrativa rinvia a una metafisica”, come 
  non manca di esplicitare nella sua virulenta stroncatura di Mauriac (1939). 
  Da qui il suo interesse per gli scrittori americani, della cui lezione si serve 
  per gli Chemins de la liberté. 
  Lo stesso avviene nella scrittura per il teatro. Pirandello è il drammaturgo 
  che sicuramente sente a lui più congeniale; in Strindberg vede un genio 
  e con Brecht condivide l’estetica dello straniamento anche se con riserve 
  e riformulazioni. In quanto al riuso, basti pensare che su undici pièces, 
  due sono “adattamenti” (Kean e Les Troyennes), 
  due sono riscritture di miti cristiani e classici (Bariona e Les 
  Mouches) e che tutte, o quasi, si fondano su “prestiti” talvolta 
  esibiti e comunque ormai puntualmente reperiti dalla più recente critica 
  (si vedano le “Notices” nell’edizione della Bibliothèque 
  de la Pléiade, Gallimard 2005). Ma questa pratica dell’innesto 
  su altri testi (anche sui propri) non toglie nulla alla originalità dei 
  testi sartriani, semmai ne evidenzia il carattere intrinsecamente dialogico 
  o, bachtinianamente, pluridiscorsivo. 
  In quanto a Flaubert, la questione è diversa: si tratta di un confronto 
  con uno scrittore che ha fatto la scelta della letteratura contro la vita, un 
  confronto che assume il carattere di un corpo a corpo perché si tratta 
  anche di fare i conti con un proprio fantasma. Su questo piano, del resto, non 
  meno interessante è il confronto con Mallarmé, da cui Sartre è 
  stato altrettanto affascinato e con cui è stato meno severo. Sarebbe 
  da approfondire, ma penso che l’abbandono dell’ambizioso studio 
  su Mallarmé stia in una qualche relazione con la decisione, posteriore 
  di qualche anno, di realizzare quello su Flaubert. 
 
3) Mi sembra che negli ultimi anni gli studi su Sartre si siano particolarmente 
  concentrati sull’aspetto più fenomenologico della sua produzione. 
  L’interesse si è rivolto principalmente alla prima produzione filosofica, 
  quella che intercorre tra la Trascendence de l’ego e L’Etre 
  et le Néant, nel tentativo di misurare, attraverso la specificità 
  dell’interpretazione sartriana della filosofia di Husserl, l’apporto 
  di Sartre al «movimento» fenomenologico della prima metà 
  del ‘900. Questa prospettiva, che ha l’indubbio merito di rendere 
  meno vago l’esistenzialismo sartriano, e non solo, mi sembra trascurare 
  l’aspetto letterario della sua produzione. É possibile secondo 
  lei rintracciare nei romanzi e nel teatro un approccio, per così dire, 
  fenomenologico alla narrazione?  
Penso di sì, e ancora una volta in maniera più vistosa nei testi 
  degli anni Trenta, La Nausée e le novelle, relativamente allo 
  statuto della coscienza, innnanzitutto. Roquentin si vuole privo di vita interiore, 
  rifiuta la psicologia, è pura coscienza del mondo, che è tutto 
  fuori di lui, compresa la Nausea da cui è assalito; al suo diario affida 
  di registrare non un’esplorazione bensì una dissoluzione del soggetto. 
  Ma anche le sue percezioni degli oggetti risentono di questo approccio; basti 
  pensare al boccale di birra, alla nauseante evanescenza dei colori, alle metamorfosi 
  del sedile dell’autobus o della radice del castagno, e così via. 
  In forme diverse e più mediate anche nel teatro gli oggetti hanno questo 
  tipo di presenza: penso al “bronzo di Barbedienne” in Huis clos 
  o alla caffettiera di cui si serve Hoederer e su cui si interroga Hugo nelle 
  Mains sales. Un vero e proprio esercizio di approccio fenomenologico 
  mi sembra perseguito nei diari di guerra (pubblicati postumi col titolo di Carnets 
  de la drôle de guerre), soprattutto quando oggetto dello sguardo 
  sono i commilitoni. 
  Però non saprei dire di più sulla questione. Che è tuttavia 
  del massimo interesse e che non mi risulta sia stata affrontata sistematicamente 
  rileggendo in questa prospettiva i testi letterari. Varrebbe la pena di farlo, 
  forse intrecciando le competenze filosofiche e letterarie. Non è facile, 
  ma un approccio combinato permetterebbe di approfondire e rinnovare le letture 
  dell’opera sartriana. Personalmente ho fatto un’esperienza in tal 
  senso con Silvano Sportelli, a proposito della nozione di “autenticità” 
  quale emerge nella scrittura diaristica dei Carnets (“Ecriture 
  de soi et quête de l'authenticité », Etudes Sartriennes, 
  IV, 1990) ; ed è stato appassionante. 
 
  4) Veniamo ora al suo libro su La Nausée. Potrebbe sinteticamente 
  riassumere la sua tesi sul rovesciamento del cogito cartesiano operato da Sartre 
  nel testo, e quindi tratteggiare la centralità del corpo nel superamento 
  di una posizione egologica di tipo trascendentale?  
Ci proverò, anche se si tratta di un lavoro ormai molto lontano nel 
  tempo. Cominciamo col dire quali sono stati i miei punti di partenza: 1) l’osservazione 
  di Georges Poulet, in un bellissimo studio ripreso in Etudes sur le temps 
  humain (Plon, 1964), che La Nausée può essere letta 
  come una parodia del Discours sur la méthode; 2) la lettura 
  del testo originario del monologo di Roquentin, ridotto ed edulcorato da Sartre 
  su richiesta del consulente legale di Gallimard in quanto suscettibile di incorrere 
  nel reato di oscenità (M. Contat e M. Rybalka lo danno nelle varianti 
  in Oeuvres romanesques, Bibliothèque de la Pléiade 1981; 
  personalmente, ne ho curata la pubblicazione a fronte della versione definitiva 
  in “Melancholia” seguito da “Eros e Cogito”, In 
  forma di parole, luglio-settembre 1983). Dagli interventi censori sono 
  uscite modificate non soltanto alcune fra le tante provocazioni alla morale 
  dominante bensì quelle ben più nuove (non fosse che per la forma 
  in cui venivano espresse) a uno dei pensieri fondanti della razionalità 
  occidentale, attraverso la declinazione del cogito cartesiano nell’iterazione 
  e nella ridondanza, l’irrisione del dubbio metodico trasformato in oppressivo, 
  caotico, affastellarsi di pensieri appena abbozzati e giustapposti, l’intrecciarsi 
  della meditazione filosofica con la volgare concretezza di una fantasia sessuale. 
  La ripresa caricaturale, in funzione di un rovesciamento dall’essere all’esistere, 
  è ancorata sul primato del vissuto corporeo, più precisamente 
  dell’immediatezza della pulsione sessuale e del bagaglio di immagini – 
  del vischioso, del fallico, della lacerazione, della ricaduta, della violenza 
  sul corpo altrui e sul proprio - che l’accompagna, in un miscuglio di 
  attrazione, orrore, angoscia. Provocatoriamente sovrapposti e confusi, i due 
  linguaggi – della riflessione astratta e del sessuale – non si ricongiungono 
  a comporre un’unità, a dare spessore a un soggetto, producono al 
  contrario un effetto di vertigine, che l’abolizione della punteggiatura 
  mima al livello dell’enunciazione. Eros e cogito sono investiti da una 
  carica negativa, da uno spirito corrosivo che padroneggia le armi dell’ironia, 
  della parodia e del pastiche per dare forma e “salvarsi” 
  trascendendo la “dolorosa ruminazione” e la fascinazione della materia. 
 
 
  5) Il teatro. Lei ha collaborato insieme a Michel Contat alla recente pubblicazione 
  dell’edizione critica di tutto il teatro di Sartre. Come per i romanzi, 
  gli avversari politici e culturali di Sartre hanno spesso sostenuto che il teatro 
  sartriano manca di originalità e di «purezza», essendo una 
  macchina, un “test” vivente dell’apparato concettuale della 
  sua filosofia. Ora, come spesso accade, le critiche si basano su una parte di 
  verità. Lo stesso Sartre considerava infatti il teatro come un’arte 
  impura, un ibrido con fini pedagogici, nei confronti del quale il romanzo costituiva 
  la forma letteraria per eccellenza, la rappresentazione totale. Ma poi, con 
  la solita incoerenza che contraddistingue la produzione sartriana, è 
  proprio al teatro che Sartre affida il compito di rappresentare e sciogliere 
  alcune delle problematiche più spinose e aporetiche della sua produzione 
  teorica. Penso a Les Mouches in cui Sartre di fatto mette in chiaro 
  il senso del suo umanesimo o al Diable e le bon Dieu a cui affida l’annosa 
  questione della morale, o opere come Porte Chiuse e la Puttana 
  rispettosa, in cui Sartre sviluppa e definisce la sua posizione politica. 
  Qual é dunque la valenza e l’originalità del teatro sartriano? 
  É possibile una collocazione e una valutazione storico-letteraria della 
  produzione teatrale di Sartre al di là della semplice valenza pedagogica, 
  morale e politica?  
Sul teatro di Sartre ha pesato troppo a lungo, come un’ipoteca, l’idea 
  di una subalternità nei confronti della riflessione filosofica, di cui 
  i drammi non sarebbero che “illustrazioni” o addirittura ”applicazioni”. 
  Ma è evidente che esso ha una sua autonomia di statuto ed è comprensibile 
  e godibile a prescindere dall’opera filosofica; se così non fosse, 
  fra l’altro, non si spiegherebbe il grande successo decretato da un vasto 
  pubblico, ovviamente non sempre familiarizzato con la filosofia sartriana. Questo 
  non significa che non esista un nesso con la ricerca filosofica, come del resto 
  con l’opera romanzesca, e anche con le problematiche politiche. I drammi 
  si configurano come esplorazioni teatralizzate delle teorie filosofiche, che 
  sviluppano con diverso linguaggio e che talvolta anticipano, permettono di sciogliere 
  certe aporie della riflessione teorica, di uscire da certe impasses 
  dell’opera narrativa, di dialettizzare le posizioni rispetto alle aspre 
  polemiche politiche, aprendo un’altra scena, che ha un suo linguaggio 
  e offre altri dispositivi, una scena in cui le tematiche prendono corpo, sono 
  rappresentate dal vivo e nello scambio di battute fra personaggi presenti in 
  carne ed ossa.  
  Inoltre il ricorso alla forma drammatica è per Sartre contestuale a quella 
  “svolta” di cui avrebbe detto e ripetuto che aveva diviso la sua 
  vita in due: la svolta prodotta dall’irruzione della storia e dallo sgretolarsi 
  di una facile buona coscienza. La crisi da cui nasce l’intellettuale militante 
  del dopoguerra sollecita anche la ricerca di nuove modalità espressive, 
  di cui quella dialogica si rivelerà la più feconda. E non solo 
  perché il teatro, oltre che alla lettura è destinato alla rappresentazione 
  e si configura dunque come strumento più diretto ed efficace rispetto 
  all’intento politico di “unificare il pubblico”. Le ragioni 
  sono più intrinseche: la forma drammatica gli si presenta come la più 
  idonea a esprimere la perdita di una coscienza felice, il disgregarsi di una 
  prospettiva egocentrica, il carattere problematico e contraddittorio delle relazioni 
  tra gli uomini, la teatralità dell’esistenza. Nell’arco di 
  tempo che va dalla guerra alla metà degli anni sessanta il teatro è 
  la forma letteraria privilegiata per l’espressione di questo nuovo spessore 
  del reale, di questo dibattito storico e interno; il terreno privilegiato, anche, 
  per l’espressione della dialettica tra il filosofo, lo scrittore e il 
  militante 
  E’ quanto evidenzia già il primo testo teatrale destinato alla 
  rappresentazione pubblica e alla stampa, Les Mouches. La scoperta della 
  libertà e dell’azione nell’impatto con un cataclisma storico 
  - ovvero il passaggio da una libertà al grado zero come quella di Roquentin 
  a una libertà della scelta nell’azione e nella situazione - annunciata 
  come tema del ciclo romanzesco iniziato prima della partenza per la guerra, 
  “Les Chemins de la liberté”, questa scoperta a cui Sartre 
  non riesce a portare il suo personaggio, Mathieu, trova espressione sulla scena 
  teatrale. Il dramma gli permette di isolare questa problematica e di metterla 
  al centro dell’azione, secondo uno schema già collaudato con il 
  testo di circostanza scritto per e con i prigionieri del campo (Bariona). 
  Scritto tra l’estate del’41 e la primavera del ‘42 Les 
  Mouches, attraverso la riscrittura di un mito classico, fa assistere alla 
  “conversione” di Oreste nell’impatto con una situazione che 
  rappresenta allegoricamente l’attualità storica – quella 
  della Francia occupata dalle truppe naziste e doppiamente sconfitta perché 
  accetta la collaborazione, avvelenata da un’ideologia della colpa e del 
  rimorso. Nel contempo, le tematiche della libertà e dell’échec, 
  dell’essere e del progetto, dell’inerzia e della tensione, escono 
  dalla dimensione teorica (durante e non dopo la redazione dell’Etre 
  et le Néant) per essere rapportate a precise situazioni e confrontate 
  con le problematiche dell’azione; senza subire alcuna riduzione, accedendo 
  al contrario a una dimensione mitica. 
  Questo spiega come i primi, notevolissimi, studi sulla produzione teatrale di 
  Sartre (Francis Jeanson, Pierre Verstraeten) ne abbiamo valorizzato i contenuti 
  e gli apporti originali sul terreno di quella Morale programmata fin dal ’43 
  e mai compiutamente realizzata. Più recentemente, con l’importante 
  contributo di John Ireland (Sartre un art déloyal. Théâtralité 
  et engagement, Jean Michel Place 1994) e con studi puntuali su singoli 
  drammi, l’attenzione si è spostata sulla drammaturgia, la teatralità, 
  la natura e le funzioni del dialogo, la pratica dell’intertestualità, 
  delle riscritture e delle riprese parodiche. La recentissima pubblicazione del 
  Théâtre complet nella Bibliothèque de la Pléiade, 
  col suo ricco apparato critico, contribuisce notevolmente a una più articolata 
  lettura del teatro sartriano, ne evidenzia l’originalità e lo ricolloca 
  nel contesto (non solo francese) della drammaturgia novecentesca. 
 
  6) Infine una domanda di carattere più personale. In questi anni 
  che ha dedicato allo studio del pensiero sartriano, qual è il lascito, 
  il suo debito personale nei confronti del pensiero di Sartre? 
 Ho cominciato a leggere Sartre da adoloscente, La Nausée e 
  L’Age de raison, come quasi tutti i miei amici, uniti dalle stesse 
  inquietudini e dalla stessa ricerca di linguaggi diversi da quelli dell’ambiente 
  scolastico e familiare. Mi sono immediatamente riconosciuta nelle problematiche 
  e nell’universo sartriano. Da allora, non ho mai smesso di riconoscermi; 
  nel bene e nel male: i suoi entusiasmi per le prospettive rivoluzionarie, le 
  sue repulsioni per i potenti e i “salauds”, i suoi errori di valutazione, 
  la sua scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa, la sua diffidenza per 
  la rigidità delle forme istituzionali, sono stati anche i nostri. Solo 
  attraverso penose esperienze personali e storiche sono arrivata a prendere le 
  distanze da alcuni aspetti ideologici, volontaristici e predicatori delle sue 
  manifestazioni di pensiero e di vita: il modello di coppia aperta, un certo 
  messianesimo, il presenzialismo, il settarismo di certi giudizi categorici su 
  altri scrittori, le pretese normative nei confronti della letteratura…Ma 
  in questa messa a distanza ha svolto un ruolo fondamentale la lettura approfondita 
  e ripetuta delle sue stesse opere, soprattutto letterarie, che mi ha permesso 
  da una parte di sviluppare un atteggiamento critico, dall’altra di scoprire 
  quanto i testi sartriani dicano di più e di diverso rispetto all’immagine 
  che si è creata del personaggio. Così Sartre, che pure sa essere 
  talvolta tanto perentorio e incisivo, ha anche sollecitato la riflessione, a 
  partire proprio dal suo caso, sugli effetti riduttivi e perversi della comunicazione 
  secondo le leggi del mercato e dell’ideologia.  
  Gli studi su Sartre non sono stati i primi a cui mi sono dedicata, proprio perché 
  lo sentivo troppo interno alla mia vita e alla mia formazione per farne oggetto 
  di ricerca accademica. Ma da quando li ho iniziati, nei primi anni 80, mi hanno 
  sempre arricchita, permettendomi di approfondire problematiche esistenziali, 
  etiche e politiche che per il respiro con cui sono trattate, soprattutto nella 
  forma complessa del linguaggio letterario, non solo portano a un maggiore livello 
  di coscienza ma producono effetti liberatori. La ricchezza di riferimenti, oltre 
  che di problematiche, dei testi sartriani mi ha indotto anche a rileggere e 
  studiare altri scrittori francesi del Novecento e dell’Ottocento, risalendo 
  fino a Stendhal, e mi ha stimolato una riflessione su persistenze e trasformazioni 
  sia delle problematiche che dei procedimenti letterari nel lungo arco di tempo 
  che va dalla Rivoluzione del 1830 agli anni Sessanta, quello di una modernità 
  segnata dalla conquista della democrazia ma anche da esplosioni di barbarie, 
  dalla scoperta e dall’angoscia della libertà all’inquietudine 
  sul senso, dal sospetto verso il linguaggio e dalla fascinazione della parola. 
   
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