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Il giovane Sartre e il problema dell’Io
di Francesco Saverio Trincia

Intendo proporre una lettura de La trascendendance de l’Ego (1936) che abbia di mira un confronto pensante con il modo in cui Jean-Paul Sartre affronta la questione del Je , del Moi , dell’Ego e della coscienza. E’ possibile ricavare da questo giovane Sartre – qui radicalmente decontestualizzato dalle sue fonti dirette (eccetto Edmund Husserl) e anche isolato dallo sviluppo del suo pensiero - elementi teorici, spunti filosofici se si vuole, che valgano allo scopo di ‘utilizzarlo’ per la edificazione di quella teoria della soggettività a cui dedico da qualche tempo una parte delle mie energie. Mi atterrò alla traduzione italiana del testo curata nel 1992 da Rocco Ronchi e mi limiterò all’ analisi di gran parte del primo capitolo intitolato L’Io e il Me ( cfr. La trascendenza dell’ego, tr.it, Milano 1992, pp.17-33). Rifletterò in questa sede sulle prime due sezioni del primo capitolo del saggio sartiano. Tale scelta mi è imposta dalla natura della cosa, ossia dalla estrema complessità dell’argomentare giovanile sartiano, dalla genialità del suo progetto, che definirei post-fenomenologico, e dunque dall’obbligo di evitare il “sorvolo” sintetico con il quale non di rado si affronta il pensiero di questo grande filosofo. Basta un semplice sguardo alle pagine del saggio del 1936 per capire che esso sfida il lettore non solo dal punto di vista ristretto che chiede conto della maggiore o minore fedeltà di Sartre alle fenomenologia husserliana – ciò che pure merita grande attenzione – , ma dalla più ampia prospettiva dei problemi che la tradizione filosofica occidentale non soltanto moderna ha messo al centro della propria tematica, da quello del natura dell’Io penso e del pensare in genere, al rapporto ontologico e predicativo di tale pensare con un Io del pensiero, a quello della riflessività e della natura riflessiva o non riflessiva della coscienza. Molto del pensiero del Sartre maturo trova il suo fondamento filosofico in queste pagine , alle quali si deve riservare lo studio paziente e micrologico che ogni testo intensamente teoretico richiede. Un commento complessivo del saggio non è previsto in questa sede. Deve anche avvertire non ho potuto studiare con la dovuta attenzione l’importante saggio di Vincent de Coorebyter, Sartre face à la phénoménologie. Autour de “L’intentionalité” e de “La trascendance de l’Ego” , Paris 2000, ma ritengo di poter trovare spunti interpretativi convergenti con le mie tesi specialmente nel cap. 7, L’aporie de l’irréfléchi.


La scelta essenziale consiste nel sottoporre ad analisi critica la nozione di coscienza irriflessa, vista quale metro e criterio che consente di definire l’Ego come unità noematica della coscienza riflessa, suo oggetto intenzionale. Sartre prende le mosse dalla confutazione della tesi secondo cui l’Ego “abita” la coscienza. Egli ritiene che l’Ego non sia nella coscienza né in senso formale né in senso materiale, perché esso piuttosto è “nel mondo”, in quanto è appunto “l’Ego dell’altro”. Kant riteneva, com’è noto, che “l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”. La problematica che Sartre propone anzitutto concerne il punto se non debba essere distinta la questione “di fatto” dalla questione “di diritto” dell’accompagnamento da parte dell’Io di tutte le mie rappresentazioni. Dato che Kant non s’è chiesto come si costituisca di fatto la coscienza empirica, e dato che , inoltre, per lui la coscienza trascendentale è soltanto l’insieme delle condizioni necessarie ‘di diritto’ alla esistenza di una coscienza empirica, ogni “realizzazione” fattuale dell’Io trascendentale quale accompagnatore risulta del tutto esclusa.
E’ interessante notare che il fenomenologo sui generis Sartre non si accontenta di mostrare che l’espressione “deve poter accompagnare” pone una questione di solo diritto. Una volta affermato che la coscienza trascendentale pone le condizioni “di diritto” dell’unificazione della rappresentazioni mie e che dunque nessun Io trascendentale deve essere realizzato, resta aperta ai suoi occhi la questione “di fatto”. La soluzione trascendentale rischia di lasciare aperta la possibilità che “di fatto” l’Io penso trascendentale accompagni invece le rappresentazioni. In questo caso, il fantasma di un Io trascendentale che sia la “struttura” della coscienza assoluta torna ad affacciarsi. Kant , insomma , non sembra contribuire alla liquidazione dell’Io trascendentale, poichè all’interno della sua posizione l’Io sembra destinato a residuare nella nostra coscienza, o come ciò che è reso possibile dalla unità sintetica delle nostre rappresentazioni, o, inversamente , come ciò che rende possibile tale unità
Qui Sartre introduce il riferimento ad Husserl. Ma prima di soffermarci sul secondo passaggio della sua argomentazione, osserviamo che la decostruzione dell’Io trascendentale non si risolve nella semplice constatazione che quel che chiamiamo “coscienza trascendentale” non impone alcuna realizzazione dell’Io. Lo sguardo fenomenologico vuole infatti sapere come avvenga la costituzione della unità sintetica e se per caso qui non si torni ad incontrare il “fatto” dell’accompagnamento delle rappresentazioni da parte di un Io. Dissolto nel suo fungere come insieme delle condizioni di possibilità dell’unità sintetica, l’Io rischia indubbiamente di resistere come “esistenza fattuale dell’Io nella coscienza”. Insistiamo su questo punto perché intendiamo sottolineare quel che è peraltro esplicito, ossia che Sartre propone una riflessione sull’Io che si configura essenzialmente come una ‘battaglia contro l’Io’, ossia come un procedimento di dissoluzione di ogni ‘effetto di ingombro’ che l’Io eserciterebbe in quanto fosse nella coscienza. Dunque Sartre punta alla costituzione di un campo trascendentale “senza Io” (sempre che di “campo trascendentale” sia ancora possibile parlare). Non sarà difficile mostrare che la purificazione della coscienza dalla presenza dell’Io, che Sartre persegue, finirà per conseguire il risultato paradossale che di una soggettività coscienziale assolutamente pura potrà parlarsi solo a patto di indicare che essa deve essere riempita dalla oggettività che essa intenziona. Se tuttavia le cose stanno così, quale mai senso si deve assegnare ad una nozione di intenzionalità che sembra doversi risolvere nel suo oggetto noematico (non l’odio per Pietro, ma Pietro che deve essere odiato, secondo l’esempio fornito da Sartre stesso di tale intenzionalità priva della strutturale correlazione noetico-noematica)? E , d’altra parte, quale legittimità riusciamo ad assegnare alla nozione di una coscienza che , per essere radicalmente “senza Io”, deve presentarsi nella sua assoluta “irriflessività”? Quale legittimità possiamo assegnare ad una nazione di “irriflessività”, che si istituisce per via negativa? Come si configura, nella sua pretesa di originarietà, una coscienza che si definisce piuttosto attraverso la presa di distanza negativa, dunque attraverso un ‘riflessione negativa ed escludente’, dalla riflessività stessa?
Sembra si debba ammettere che la battaglia di Sartre contro l’Io prenda le mosse da una presupposizione e da una negazione inevitabilmente logica dell’Io stesso. Il che significherebbe che Sartre prende lo mosse dalla tesi kantiana del necessario accompagnamento delle “mie” rappresentazioni da parte dell’Io penso, non in virtù di una sorta di arbitraria e modificabile scelta del punto di attacco della sua argomentazione, ma al contrario perché è dall’”Io penso” kantiano che si deve partire, per mirare a decostruirlo. La decostruzione dell’”Io penso”, tuttavia, oltre che apparire augurabile alla edificazione di una filosofia dell’autotrascendimento della coscienza, della esistenza come oltrepassamento, quale è quella che Sartre si propone di realizzare, risulta anche in sé pienamente realizzabile e giustificabile? E ancora, riassuntivamente, è pensabile una fenomenologia senza un Io puro trascendentale, a cui fanno capo trascendentalmente tutte le sintesi attive e passive della coscienza costituente? Sartre intende collocarsi fuori e contro la tradizione del criticismo trascendentale kantiano? Ma , nel far questo, non vulnera forse anche una delle premesse fondamentali della fenomenologia husserliana? E’ un fatto meritevole di segnalazione che l’attacco a Kant e la critica a Husserl siano compresenti nel saggio sartiano del 1936.
Certo, Sartre ha ragione nel sostenere che la fenomenologia consente di affrontare con assai maggiore consapevolezza “il problema della esistenza di fatto dell’Io nella coscienza”. La fenomenologia è un sapere delle “cose” stesse nella loro “fattualità” (nel senso per cui esse sono “essenze” che fattualmente si impongono nella loro originaria datità alla sguardo dell’Io costituente, come Sartre stesso precisa).. Colta attraverso l’epoché husserliana , la coscienza trascendentale kantiana viene incontrata di nuovo, ma essa non è più né una ipotesi di diritto, né un insieme di condizioni logiche. Essa è un “fatto assoluto” , che in quanto tale azzera la questione della natura “fattuale” o non fattuale dell’accompagnamento delle “mie” rappresentazioni. Il problema dell’essere l’unità dell’Io penso analitica o sintetica non sussiste più. Essa sta integralmente nella riduzione, non serve alla sintesi della conoscenza.

Sartre coglie molto bene la questione che qui ci interessa rilevare. E’ nel passaggio oltre Kant che la fenomenologia husserliana mette a tema in modo radicalmente nuovo la questione dell’Io e della soggettività. E’ dunque della massima importanza la circostanza che proprio qui, in questo punto di origine della tematica post-metafisica dell’Io, Sartre faccia convergere la forza iniziale della sua critica. Da un lato, egli accetta la nozione husserliana di “coscienza costituente” il mondo e “imprigionantesi” (così scrive) “nella coscienza empirica”. Accetta altresì che la collocazione esterna, oggettiva e trascendente del nostro Io empirico psico-fisico debba essere ridotta. Ma poi si chiede se sia necessario accompagnare l’Io empirico “con un Io trascendentale, struttura della coscienza assoluta”. E si pone questa domanda , cui ritiene si debba dare una risposta negativa, non per farsi difensore dell’Io psico-fisico, ma perché vuole mostrare che , essendo la coscienza quel “che rende possibile l’unità e la personalità del mio Io”, “l’Io trascendentale non ha perciò ragione d’essere”. La condizione di questo cruciale passaggio che sostituisce la funzione di una certa coscienza al ruolo, svelatosi superfluo, dell’Io, è che si definisca la natura “irriflessa” della coscienza stessa. A questo compito Sartre si dedica prima di passare al punto B della sua argomentazione nel primo capitolo del saggio in cui viene messo a tema Il Cogito come coscienza riflessiva. Di tanto si mostra rilevante la nozione di coscienza “di primo grado o irriflessa”, di altrettanto si svaluta il diritto fenomenologico di un Io trascendentale di porsi come interno alla coscienza, di affiancarsi ad essa: di essere , lui e non altro, il punto di attacco di una ricerca sull’Io stesso. Domandarsi dunque se vi sia e quale possa essere una via di possibile confronto critico sulla nozione del non-riflessivo diviene a tutti gli effetti essenziale per mettere a confronto una teoria della soggettività con le tesi sartriane.

La risposta negativa alla domanda se il moi empirico psico-fisico debba essere accompagnato dall’Io trascendentale , forma strutturale della coscienza assoluta, conduce a conseguenze rilevanti. La prima soprattutto lo è, in quanto espone la convinzione sartriana che l’Io penso possa accompagnare le rappresentazioni solo sulla base della sua scomparsa come tale, ossia come originario ed autentico Io penso. L’accompagnamento può bensì avvenire, ma soltanto a patto di ammettere che esso si staglia “su uno sfondo di unicità che non ha contribuito a creare” dato che questa unità che lo precede lo rende in realtà possibile. L’io penso si impone (si direbbe con una funzione ‘collaterale’ di mera unificazione delle rappresentazioni a fini conoscitivi) sullo sfondo di una unità che esso non produce, ma che gli è presupposta non come unità unificante , come sintesi attiva di un Io. L’originarietà dell’Io è perduta. Sartre pronuncia la sentenza chiave della sua ‘requisitoria fenomenologica contro l’Io’, in virtù della quale la fenomenologia husserliana finisce per volgersi contro il suo stesso principio egologico. La critica alla funzione sintetica assegnata da Kant all’Io penso trapassa senza soluzione di continuità nella tesi della superfluità del ruolo “unificante e individualizzante” dell’Io per una coscienza concepita nel senso, che si presume rigorosamente fenomenologico, che impone di escluderne ogni funzione di facoltà della sintesi.
Sartre scrive dunque che “il campo trascendentale diviene impersonale o, se si preferisce , ‘prepersonale’, è senza Io “. L’Io (je ) diviene la “faccia attiva “ del moi passivo che insieme all’Io appartiene all’Ego e ne riempie la trascendenza. La nozione di “impersonalità” occupa una posizione strategica. “Sarà lecito domandarsi se la personalità (anche la personalità astratta di un Io) è un accompagnamento necessario di una coscienza e se si possono concepire delle coscienze assolutamente impersonali”. La risposta di Husserl a questo problema appare a Sartre diversa nelle Ricerche logiche, dove il moi risulta essere una produzione trascendente della coscienza , e nelle Idee , dove si avrebbe il recupero di un Io che sta dietro la coscienza come la sua struttura, che illumina con i suoi Ichstrahlen ogni contenuto intenzionato dall’attenzione. Secondo Sartre , che forza nettamente la tesi husserliana in senso personalistico, la coscienza che fosse sorretta da tale Io diverrebbe “rigorosamente personale”. Il pericolo della perdita dell’appena conquistata “impersonalità” e “prepersonalità” si fa incombente nello stesso Husserl maturo. Vedremo subito, prima di proseguire, quale ruolo giochi la centralità della nozione di “impersonalità” nella presa di distanza di Sartre da Henri Bergson. Osserviamo intanto che il riassunto offerto da Sartre delle Ricerche logiche di Husserl con il dire che questi ha interpretato il moi come “produzione” trascendente della coscienza, semplifica non poco la tesi husserliana, in quanto la svuota di ogni riferimento alla nozione di “atto”.

Nella Quinta ricerca ( cfr. Ricerche logiche, tr. it, Milano 1968, vol. II, pp. 151-153) Husserl esibisce una nozione di quello che Sartre chiamerebbe il moi , che fa di quest’ultimo certamente un ‘costituito’dalla coscienza, ma all’interno di una “complessione” fenomenologica dell’Io stesso della quale l’Io fisico rappresenta solo il lato esterno, una “parte” della cosa fenomenologica “Io” presa nella sua interezza. Sembra difficile ricavare da questo testo la tesi di una coscienza desoggettivata che produce il suo moi. L’io-corpo fisico viene messo da parte a vantaggio dell’”Io spirituale” connesso con il primo. Ridotto alla datità fenomenologica attuale “l’Io”, scrive Husserl, “esibisce la complessione …di vissuti afferrabili riflessivamente”. L’Io psichico appartiene alla complessione dei vissuti esibiti dall’Io. Che lo intenda come moi o come ego, l’Io passivo , quello che si potrebbe definire l’Io reale, resta fino a tal punto un ‘costituito’ dall’ Io puro o dalla coscienza costituente, da appartenere all’insieme dei vissuti dell’Io sui quali quest’ultimo torna riflessivamente. La complessione dei vissuti esibita dall’Io si riferisce all’Io psichico (seelisch ) come il ‘lato’ che “cade nella percezione” di una cosa esterna percepita che si riferisce alla “cosa intera”. Il vissuto intenzionale nel quale l’Io intenziona il corpo vivo, la persona spirituale “e quindi l’intero io-soggetto empirico (Io, l’uomo)” è comprensibile soltanto se si pensa che “alla compagine fenomenologica complessiva dell’unità di coscienza appartengono anche quei vissuti intenzionali in cui l’io come …l’intero io-soggetto empirico (Io, l’uomo), è l’oggetto intenzionale, e inoltre che tali vissuti intenzionali costituiscono al tempo stesso un nucleo fenomenologico essenziale dell’io fenomenale”. Sartre si è chiesto se l’io psichico e psico-fisico non sia in sé fino a tal punto “sufficiente”, e se non si possa quindi evitare di accompagnarlo con un Io trascendentale, struttura della coscienza. Husserl aveva già dato una risposta: non si tratta solo del fatto che l’Io psico-fisico non basta, ma del fatto che il vissuto intenzionale costituisce il nucleo fenomenologico dell’io fenomenale. Senza la compagine fenomenologica dell’unità complessiva di coscienza , non si avrebbero neanche i vissuti intenzionali in cui l’Io si presenta come “Io-soggetto empirico”. Osservata da questa prospettiva , l’operazione tentata da Sarte sull’Io si basa su un duplice movimento argomentatativo. Da un lato, si ha la sottrazione all’ Io della sua funzione costituente in quanto funzione di un Io trascendentale (si tratta del punto che abbiamo visto sopra, quando abbiamo osservato il passaggio senza soluzione continuità tra la critica all’Io penso di Kant e la critica all’Io soggetto dei suoi atti intenzionali di Husserl). Dall’altro lato troviamo che quel che Sartre chiama la produzione del moi da parte della coscienza si priva della sua stessa giustificazione fenomenologica , in quanto le viene a mancare il polo noetico dell’atto intenzionale che intenziona (“produce” nel linguaggio di Sartre) l’io empirico psico-fisico. Manca dunque a Sartre la nozione di coscienza (la terza nozione di cui si parla nelle pagine della Quinta ricerca): quella nozione assolutamente centrale per cui essa risulta definita “proprio dagli atti o dai vissuti intenzionali”
Husserl dà sviluppo nel modo seguente alle tesi che ha preannunciato (cfr. Ricerche logiche, cit., p. 152).

Il terzo concetto di coscienza è costituito dagli atti o dai vissuti intenzionali. Tentare di disconoscere gli atti o vissuti intenzionali equivale a non voler riconoscere che l’essere-oggetto in termini fenomenologici consiste negli atti in cui qualcosa si manifesta o viene pensato come oggetto. E’ questa circostanza – ossia l’ammissione della nozione di atto o di vissuto intenzionale – che consente di capire, inoltre, che l’essere-oggetto può a sua volta diventare oggettuale, ossia che “ci sono degli atti che ‘si dirigono’ verso il carattere peculiare degli atti in cui qualcosa si manifesta; oppure ci sono degli atti che si dirigono verso l’io empirico e il suo riferirsi all’oggetto”. In questo modo emerge il “nucleo fenomenologico” dell’Io empirico: attraverso il suo divenire oggetto di atti intenzionali che fanno di esso Io empirico l’oggetto intenzionale, quest’ultimo si manifesta come tale che in lui avvengono atti che “portano gli oggetti alla sua coscienza” poiché in essi “l’Io ‘si dirige’ verso l’oggetto in questione”. Non si vorrebbe anticipare troppo. Ma non sembra azzardato ipotizzare che Sartre deformi gravemente la fisionomia dell’Io fenomenologico husserliano in quanto gli sottrae la caratteristica essenziale di atto o di vissuto intenzionale che si dirige ad un contenuto o ad un oggetto. L’Io sartriano è un Io senza oggetto intenzionale. La sua struttura viene esplicitamente respinta come superflua qualora si intenda definire la funzione costituente della coscienza, esattamente per il motivo che Husserl ha segnalato. E’ necessario capire che l’”essere oggetto” di ciò cui il vissuto intenzionale dell’Io si riferisce deve poter diventare oggettuale, ossia deve poter divenire tematico il riferirsi stesso. Solo in questo modo il nucleo fenomenologico dell’Io empirico che si dirige sul suo oggetto diviene visibile e dicibile. Non basta: solo così, cioè solo distinguendo tra atti che si dirigono sugli atti peculiari in cui qualcosa si manifesta, e atti che si dirigono verso l’Io empirico e il suo riferirsi al suo oggetto, si incontra la necessità che l’atto di un Io trascendentale costituisca un Io empirico – che senza quell’atto costituente resterebbe del tutto gratuito in termini fenomenologici. L’essere atto dell’Io empirico che si riferisce ad un oggetto viene legittimato dal sua essere oggetto di un ‘precedente’ atto costituente. Una semplice riflessione sulla necessità che la coscienza si liberi dell’Io riconoscendo la “impersonalità” incombente o immanente in questa ‘coscienza senza Io’ non basta a definire come “fenomenologico” questo procedimento. Accade infatti che insieme alla assoluta originarietà dell’atto costituente di un Io trascendentale, vada perduta la dimensione della trascendentalià in quanto tale. Trascendentale è infatti in Husserl la circostanza essenziale che un atto di si diriga su…, ossia intenzioni atti che manifestano l’oggetto, oppure si diriga su atti di un Io empirico che anch’esso si dirige sull’oggetto – ma del quale si parla in termini fenomeologici soltanto sulla base del ‘raddoppiamento’ regressivo dell’atto che Sartre sembra trascurare del tutto.

Sartre, lo ripetiamo, punta alla costruzione di una coscienza senza Io. Si muove nella prospettiva che implica il disconoscimento della tesi husserliana che “l’atto è il riferirsi della coscienza o dell’Io all’oggetto” ( ivi, p. 166). Incontriamo qui un punto assolutamente centrale per la riflessione sulla ‘coscienza senza Io’ di cui Sartre parla nella prima parte della Trascendenza dell’ego . Husserl sostiene infatti che alla negazione di un “Io puro come centro di riferimento”, costantemente identico, “punto essenziale di unità”, deve corrispondere la tesi per cui noi “viviamo nell’atto corrispondente”. Quello che non possiamo ammettere è che , guardando a ciò che accade nel vissuto-atto, l’Io si riferisca all’oggetto “mediante l’atto o in esso”. In questo modo, infatti, tra la coscienza, da un lato, e la cosa cosciente sussisterebbe un relazione reale (real) , e l’Io come polo dell’identità unificante ‘starebbe nell’atto’. E’ di questo Io , di questa coscienza , che si suppone entrino in rapporto “reale” con l’oggetto, che si deve negare la legittimità. Quel che succede nel vissuto-atto è invece proprio la scoperta dell’irrilevanza dell’Io come “punto di riferimento” degli atti compiuti. Soltanto se la rappresentazione “si effettua realmente e si pone in unità con l’atto corrispondente, ‘noi’ ‘ci’ riferiamo all’oggetto in modo tale che a questo riferirsi all’Io corrisponda qualcosa che possa essere mostrato descrittivamente”. Solo in questo caso la “rappresentazione-Io” resta a disposizione. L’Io “non rappresenta per noi null’altro che l’ ‘unità di coscienza’, ciascun ‘fascio dei vissuti’, o anche , ma in una formulazione empirica e naturale, l’unità continua, cosale, che si costituisce intenzionalmente nell’unità di coscienza come soggetto personale dei vissuti”.
Sartre, dicevamo, ritiene che nessuno motivo giustifichi la trasformazione, autorizzata secondo lui da Husserl stesso contro le sue migliori intenzioni fenomenologiche, della coscienza trascendentale in un soggetto personale. Abbiamo appena visto la difficoltà di attribuire la natura di soggetto personale all’Io dell’atto vissuto come tale, di cui Husserl parla nella Quinta ricerca. Si tratta di una difficoltà cui Husserl fornisce la risposta ‘costituente’ che abbiamo appena visto. La fenomenologia, secondo Sartre, non ha bisogno di ricorrere ad un Io “unificatore e individualizzante”, grazie alla cui operazione di rapportamento alla mia coscienza di tutte i miei pensieri e percezioni , la coscienza stessa risulti unificata - e , ad esempio, Pietro e Paolo, possessori ciascuno della propria coscienza, si distinguono tra loro. L’immagine che Sartre offre della coscienza husserliana presenta una duplice caratteristica. La prima, quella in virtù di cui la coscienza si definisce “attraverso l’intenzionalità” è in realtà schiettamente husserliana. L’altra , che imporrebbe di riconoscere che “attraverso l’intenzionalità essa si trascende, si unifica sfuggendo a stessa”, lo è assai meno. Sartre intende dire che è l’oggetto trascendente intenzionale (nell’esempio :”due più due fa quattro”) ciò che unifica tutti gli atti di coscienza in cui , ripetendomi infinite volte, aggiungo due a due per avere quattro. E’ ben vero che un principio trascendentale soggettivo di unificazione, costituito dall’Io, dovrebbe essere evocato se l’oggetto (“due più due uguale quattro”) fosse il “contenuto” della mia rappresentazione. Ma è altrettanto vero che , diversamente da quel che pensa Sartre, l’oggetto non è trascendente rispetto alla coscienza che lo coglie ed è dunque difficile sostenere che in esso la coscienza trovi la sua unità.

Che l’oggetto sia intenzionale per una coscienza significa appunto che esso non è trascendente, perché l’oggetto che chiamiamo “reale” e trascendente viene costituito come tale dall’atto della coscienza intenzionale, per il quale esso non è un contenuto immanente in attesa di unificazione . Husserl è esplicito su questo punto proprio nella pagine delle Ricerche logiche che abbiamo citato. Ciò sembra destinato a confutare sia la tesi sartriana che la coscienza “sfugga a se stessa”, sia che essa trovi nell’oggetto trascendente la sua unità. L’io unificante manca anche nella prospettiva husserliana, ma per il motivo che io e coscienza si risolvono nell’Erlebnis del loro essere “atti”, ai quali manca la caratteristica kantiana di svolgere una funzione unificante propria di una facoltà della sintesi. Sartre sembra trascurare questo punto .Egli trova una conferma della propria convinzione anche dalla circostanza che Husserl non abbia fatto ricorso “a un potere sintetico dell’Io” neanche nelle lezioni sulla Coscienza interna del tempo, dove piuttosto la “coscienza si unifica da sé e in modo concreto attraverso un gioco di intenzionalità ‘trasversali’”. Ne consegue che l’Io può essere solo un’ “espressione”, non una “condizione” della coscienza e che è la coscienza a rendere possibile la personalità del mio Io, non viceversa. Si ribadisce così la tesi della “impersonalità” della coscienza. Una tesi che potrebbe essere legittimamente rivolta contro Husserl, se questi avesse effettivamente pensato all’Io come ad una entità personale, piuttosto che come alla soggettività propria di un atto vissuto. Il minimo che si possa dire è che la tesi sartriana sull’Io si afferma attraverso una deformazione della teoria husserliana della soggettività
Non mi interessa indagare qui il senso dello “sfuggire a se stessa” della coscienza, ossia della tesi che segnala forse il punto più netto del di stanziamento di Sartre da Husserl. Si può soltanto avanzare l’ipotesi che un Io fondamento della coscienza rappresenti un ostacolo insormontabile per la volontà di tener ferma la tesi che tende ad equiparare natura trascendentale e costitutivo sfuggimento a se stessa della coscienza – e che ciò costituisca un motivo in più per negare l’Io trascendentale. Importa piuttosto ribadire con Florence Caeymaez (Sartre, Merleau-Ponty, Bergson. Les phénoménologies existentialistes et leur héritage bergsonien, Hildesheim,Zürich, New York 2005, pp. 47-48) che l’impersonalità è la chiave teorica della Transcendance de l’Ego. E’ ben evidente che la nozione di “irriflessività”, sulla cui potenziale aporeticità abbiamo richiamato l’attenzione all’inizio e che si accinge a divenire il punto critico nodale della Transcendance, è strettamente correlata alla nozione di “impersonalità” della coscienza , e condivida con quest’ultima il destino di dire il contrario di quel che dice, in quanto anch’essa riesce a definirsi per via negativa, attraverso l’esclusione di quella nozione di personalità che essa è comunque costretta a presupporre. Non si obietti che si tratta di semplici necessità linguistiche . L’obiezione non sembra capace di difendere una filosofia che compie il suo primo passo non riprendendo , sia pure criticamente, la nozione di “evidenza”, ma proponendosi di realizzare un vero proprio attacco all’Io.

Nella difesa della “impersonalità” della coscienza, Sartre realizza una radicale presa di distanza da Henri Bergson, osserva la Caeymaez. E’ ben vero che Bergson va in cerca di una nozione di “spontaneità vissuta”, di una “libertà più originaria”, ma secondo Sartre entrambi sono identificate ad un moi rigorosamente personale. Il Saggio sui dati immediati della coscienza presenta una concezione della “durata” come serie totale degli stati di coscienza. Proprio nella Transcendance, Sartre rileva che la spontaneità della coscienza è in Bergson una “pseudo-spontaneità” e che la sua spontaneità-libertà descrive un oggetto e non una coscienza. Quando Bergson scrive che libertà concreta è il rapporto del moi concreto all’atto che compie e che siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera e l’esprimono, proprio la circostanza che questa affermazione implichi la difesa della qualità contro la quantità, della “durata concreta” contro la “durata simbolica” (cfr. H:Bergson , Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it., Milano 2002, p. 151) comporta che la distanza rispetto a Sartre si radicalizzi, perché “la tesi dell’impersonalità del campo trascendentale costituisce l’ossatura del saggio” sartriano. “Se la personalità, che ricava le sue caratteristiche dallo psichico, finisce per Sartre nell’oggettività, mentre la coscienza pura è anonima, per Bergson all’opposto l’oggettività è impersonale: far entrare i nostri stati di coscienza nella corrente della vita sociale, cioè oggettivarli, significa disindividualizzarli, o piuttosto desingolarizzarli”.
L’Io trascendentale, qualora ne fosse ammissibile l’esistenza, condurrebbe alla fine la coscienza che , in quanto assoluto, è solo “coscienza di se stessa”, attuantesi tuttavia come “coscienza di un oggetto trascendente”. La presenza di un Io, che Sartre concepisce come una sorta di corpo reale estraneo capace solo di rendere la coscienza opaca a stessa , renderebbe inconcepibile la proiezione in avanti in cui la coscienza stessa consiste. E’ molto importante osservare che , mentre l’opacità dell’oggetto della coscienza non turba la sua piena trasparenza (“tutto è chiaro e lucido nella coscienza”), poiché la trasparenza dovrebbe essere e restare assicurata dalla circostanza per cui essa è “coscienza della coscienza” del suo oggetto, l’ipotesi dell’innesto in lei di un Io ne segnerebbe invece la fine. Il potere distruttivo della trasparenza coscienziale che non viene riconosciuto all’oggetto della coscienza , lo viene riconosciuto invece senza esitazioni al soggetto. Sartre non si limita a rilevare che la coscienza che si accinge a definire “irriflessa” troverebbe nell’io trascendentale un inutile raddoppiamento, ma è convinto della “nocività” per la coscienza della presenza in lei della “lamina opaca” di un Io. La definizione della “coscienza irriflessa” come non “posizionale” , ossia come tale da non rendere sé oggetto di se stessa, è determinante per spiegare la ragione della asimmetria della posizione di Sartre verso l’Io e verso l’oggetto. Il primo infatti gli appare a tutti gli effetti come una soggettività cosale che intorbida la trasparenza della coscienza, esattamente per il motivo per cui l’oggetto della coscienza irriflessa non le appartiene come tale, essendo piuttosto un oggetto esterno che la coscienza “pone” e “coglie” in un medesimo atto. Se quella della ‘coscienza della coscienza di un oggetto’ fosse una tesi ammissibile, allora la coscienza verrebbe distrutta dal suo divenire oggetto. Ma questo non accade appunto perché il rapporto della coscienza non “posizionale” con l’oggetto non interrompe la sua assoluta “interiorità”.

Si noterà agevolmente che questa mossa di Sartre comporta due conseguenze importanti e rischiose. Da un lato, la reintroduzione in chiave nettamente antihusserliana, perché al fondo antifenomenologica, della distinzione tra ‘esterno’ ed ‘interno’ e l’assegnazione alla coscienza di una internità, ossia di un suo ‘spazio’ immanente.. Dall’altro lato, tale internità o interiorità deve essere concepita come rigorosamente vuota, affinché si possa sostenere che l’oggetto viene “posto” e “colto” nella stesso atto, e dunque venga lasciato come un ente esterno alla coscienza. Ora, circa la distinzione tra “porre” e “cogliere” l’oggetto, si dovrà pur chiedere a Sartre una spiegazione che vada al di là della esigenza evidente per lui di respingere sia la tesi hegeliano-fichtiana ed idealistica in genere che l’oggetto sia appunto un “posto”, sia anche la tesi che la coscienza colga un oggetto in qualche modo ‘trovato’. Che Sartre usi l’endiadi del “porre” e del “cogliere” segnala con evidenza sia una difficoltà , sia la volontà di uscirne, mantenendo all’oggetto la fisionomia di polo di una relazione con la coscienza, che tuttavia non dovrebbe essere ‘affetta’ da tale relazione. Ma il doppio porre e cogliere non risolve il problema della coerenza di una coscienza che deve essere al tempo stesso interiorità assoluta, relazione con un oggetto esterno, e negazione di una qualsiasi relazione con un oggetto (ivi compresa se stessa): una negazione, quest’ultima, che è necessario supporre se si vuole che l’interiorità sia tenuta ferma. Ma, d’altra parte, osservando la questione dal punto di vista della soggettività, come sarebbe possibile negare la relazionalità della coscienza ad un oggetto senza implicitamente ammettere che un soggetto non si relaziona ad un oggetto che gli resta esterno, salvaguardando in questo modo la sua purezza interiore? Si potrà decidere di non dare a questo soggetto il nome di ‘Io’, ma la funzione che un Io mantiene nel suo essere soggetto di giudizi positivi o negativi appare destinata a non scomparire.
Per questo motivo si diceva sopra che la nozione sartriana di “coscienza irriflessa” costituisce un problema arduo per una filosofia che intenda sbarazzarsi dell’Io. Il fascino al tempo stesso antisoggettivistico e antioggettivistico che promana dalle pagine sartiane è indubbio. L’Io è solo un qualcosa per la coscienza e non della coscienza. E’ un suo abitante personale , che per quanto formale, ne opacizza la trasparenza, ne turba la spontaneità, la fa degenerare in senso sostanzialistico. Il Cogito husserliano è un autentico fenomeno in cui essere ed apparire coincidono, ed è perciò molto diverso dal Cogito cartesiano. La nozione di Io come “monade” che Sartre vede presente in quello che per lui è il “nuovo” Husserl, sottrae alla esistenza della coscienza la sua caratteristica “inesistenza” ed impedisce di pensare l’Io come un elemento del mondo , esistente per la coscienza. Resta tuttavia aperta, nel momento in cui si passa all’esame del “Cogito come coscienza riflessiva”, la questione se la condizione stessa del darsi di un Io per la coscienza non derivi dall’ammissione della natura egologico-trascendentale della coscienza stessa. Se, vogliamo dire - e pur lasciando questa osservazione critica priva di contaminazioni dialettiche – la riflessività non sia la condizione trascendentale della irriflessività.
L’analisi del Cogito ruota esattamente su questo punto e stabilisce tra riflessività e irriflessività un rapporto complesso che deve essere esaminato accuratamente (cfr. La trascendenza dell’ego, cit., pp.25-33). Il punto che deve essere ribadito da parte di Sartre si riassume nella convinzione che “la riflessione modifica la coscienza spontanea”, la quale , in quanto coscienza irriflessa non ospita in sé alcun Io – senza che questo punto possa essere visto come contraddittorio rispetto all’altro, che in queste pagine viene specificamente preso di mira, per cui è innegabile “che l’Io appaia in una coscienza riflessa”. Ma , se è vero che la riflessione modifica la coscienza spontanea, mentre da un lato non è consentito contrapporre “la presenza dell’Io nella coscienza riflessa” alla assenza dell’Io nella coscienza irriflessa, resta fermo che è a quest’ultima che deve essere rivolta l’attenzione, perché tra le due non sussiste un rapporto di equivalenza. La coscienza permane nella sua natura non posizionale originaria grazie a cui essa è cosciente di se stessa senza trasformarsi in coscienza riflettente in quanto non si pensa mai “come oggetto di se stessa”. Sartre ha ben presente il tipo di obiezione che gli abbiamo rivolto (l’irriflesso è tale rispetto ad un riflesso, che lo mostra come irriflesso, e dunque la riflessione è originaria ed implica la presenza di un io trascendentale capace di riflessione).Non lo si coglie dunque impreparato. Ma resta a suo carico il compito di dimostrare che si possa sostenere che la “coscienza riflettente” non serve alla “coscienza di se stessa”: solo in base a tale chiarimento il “di se stessa” cesserebbe di essere riflessivo e di implicare la presenza di un soggetto-Io trascendentale. Il nucleo della possibile dimostrazione della validità della operazione in questo secondo passaggio del saggio sta esattamente nella ammissione che “non c’è una delle coscienze che io non colga come provvista di un Io”, dato che ogni volta che cogliamo un Io che è l’Io del pensiero colto e che si dà, abbiamo di fronte un Io “trascendente questo pensiero” ed ogni pensiero. Ma questa è una operazione riflessiva “di secondo grado”, che scopre il Cogito dirigendosi sulla coscienza, ossia assumendo la coscienza “come oggetto”. Si assuma pure che l’assoluta certezza del Cogito promana dalla indissolubile unità della coscienza riflettente e della coscienza riflessa. Al punto che (si tratta del cuore della nostra obiezione) la coscienza riflessa suppone una coscienza che si riflette. Ciò comporta l’ammissione di una egologia riflessiva quale elemento originario. Il principio della fenomenologia è salvo: “Ogni coscienza è coscienza di qualcosa”. Ma esattamente a questo punto si colloca la pretesa teorica di Sartre di fornire la dimostrazione che l’intenzionalità è salvaguardata anche quando si distingua tra una coscienza riflettente che , realizzando il Cogito, “non assume se stessa per oggetto” (perché l’atto riflessivo si dirige sulla “coscienza riflessa”), e una coscienza riflettente che sia soltanto coscienza di sé e dunque “coscienza non posizionale”.

Fino a che punto è legittima tale pretesa? Risulta molto difficile capire – se non sulla base della presupposizione di una nozione di coscienza che sfugge in via di principio ad ogni analisi critica – come possano convivere la funzione riflettente della coscienza e il suo essere non posizionale. Appare legittimo il dubbio che Sartre proceda servendosi di una nozione presupposta ed ipertrofica di Io o di soggetto, che egli si preoccupa tuttavia sistematicamente di nascondere affinché non venga allo scoperto come quella fonte originaria della spontaneità che egli chiama “coscienza non posizionale”. Ma tale operazione si configura come tutt’altra rispetto a quella che dovrebbe condurre alla esibizione di una coscienza “senza Io”. Sartre sostiene che la coscienza di sé, non posizionale e riflettente “diviene posizionale solo intenzionando la coscienza riflessa, la quale , anch’essa , non era coscienza posizionale di sé prima di essere riflessa”: “ogni coscienza riflettente è…in se stessa irriflessa e occorre un atto nuovo di terzo grado per porla”. Ma come si concilia questa tesi con l’altra che subito segue ? Secondo questa ulteriore tesi, si dà una sorta di sospensione estrema dell’intenzionalità riflessiva, capace di fermarsi ‘al di qua’ della realizzazione del Cogito, ma che resta pur sempre necessaria affinché divenga possibile distinguere tra una coscienza riflessa colta ‘prima’ del suo essere riflessa, e dunque quando resta ancora irriflessa, e una coscienza riflessa pienamente divenuta tale, quando il vissuto oggettivante ha compito il suo percorso. Quelli che chiamiamo impropriamente i momenti del ‘prima’ e del ‘dopo’ costituiscono a tutti gli effetti i poli della relazione intenzionale. Ma Sartre si accorge della difficoltà che deriva dalla stessa ammissione non già di una coscienza riflessa, ma di una coscienza “riflettente”, e dopo aver osservato che “la coscienza che dice ‘Io penso’ non è propriamente quella che pensa”, perché “non è il suo pensiero che essa pone attraverso questo atto tetico “, giunge ad un punto conclusivo della sua argomentazione che rovescia il già detto. Dopo aver concesso autonomia alla coscienza riflettente, gliela nega radicalmente: “Ogni coscienza riflettente è infatti in sé stessa irriflessa e occorre un atto nuovo di terzo grado per porla. Non c’è peraltro qui un rinvio all’infinito perché una coscienza non ha per nulla bisogno di una coscienza riflettente per essere cosciente si se stessa. Semplicemente non si pone a se stessa come il suo oggetto”.
D’altra parte, si potrebbe chiedere a Sartre come sia possibile una esibizione fenomenologica della circostanza per cui l’atto tetico del pensare proprio di una coscienza che dice “Io penso” rinvia non solo ad un atto non tetico, ma ad un pensare che resta di una coscienza, ma non di quella che lo dice e lo pensa. Come si può parlare di una coscienza che dice “Io penso”, ma non è propriamente lei a pensare, senza che intervenga un Io che dall’esterno di tale coscienza anonima e impersonale, che pensa ma non può affermarlo, le assegna una qualche forma di soggettività, consentendole di dire “Io penso”? Si può persino eliminare la riflessività, ma non è possibile, sembra , cancellare quel che fa di una coscienza anonima e irriflessa, appunto quello che essa è, una coscienza anonima e irriflessa. In questo modo lo ‘è’ che ne definisce l’identità reintroduce comunque la riflessività pensante, che poggia sullo sdoppiamento predicativo di soggetto e predicato.

La coscienza irriflessa appare ad un certo punto dell’analisi. Nell’atto di ricordare la mia precedente lettura di un libro, gli oggetti di quell’atto mi appaiono insieme alla coscienza irriflessa a cui solo si correlano. Dunque, ancora una volta: la relazione oggettuale non implica né la presenza di un Io, né la presenza di una coscienza riflessa.. Si osservi tuttavia come Sartre si preoccupi di mostrare la possibilità che l’emergere della coscienza irriflessa non comporti la sua trasformazione in coscienza riflessa. Si produce una specie di abile aggiramento della questione che appare altrimenti non risolubile. La più elementare della mosse psicologiche viene chiamata in aiuto – senza che Sartre ritenga opportuno dar conto del ‘chi’ di questa mossa psicologica , che deve necessariamente appartenere a qualcuno , essendo essa appunto l’atto (psicologico-soggettivo) di un qualcuno. Una sorta di originaria “malafede” caratterizza il comportamento teorico di Sartre, che entra in pieno nel gioco stesso del suoi concetti, manipolandolo grazie al nascondimento a loro e a stesso della propria fisionomia autentica. Per evitare l’oggettivazione della coscienza, Sartre propone che (io) “diriga la mia attenzione sugli oggetti” del ricordo per questo motivo “risuscitati, senza perderla di vista, mantenendo con lei [con la coscienza] una specie di complicità e inventariandone il contenuto in modo non posizionale”. Non tornerò a chiedere come si possa fare l’inventario di qualcosa che non si presenta come mio oggetto . Ritengo più urgente e più acuta, infatti, a questo punto, la critica che domanda di nuovo ‘chi’ chiede alla coscienza irriflessa di farsi complice della propria volontà, della propria decisione teorica che vuole che essa resti irriflessa. ‘Chi’ dirà alla coscienza irriflessa: “Aiutami a non trasformare te stessa in oggetto e quindi a non configurare l’irriflesso come oggetto della mia riflessione”?
Soltanto se non si richiama l’attenzione sull’escamotage psicologico promanante dalla mia coscienza pienamente riflessa e posizionale, grazie a cui riesco a ‘convincere’ la coscienza irriflessa a permanere ciò che ‘deve’ essere, tutto quel che può risultare convincente. Nel mio leggere, non c’era un Io leggente, ma solo la coscienza del libro che leggevo: “L’ Io non abitava questa coscienza”; “non c’era un Io nella coscienza irriflessa”. Il fatto che io possa fare di tali risultati colti in maniera non tetica l’oggetto di una tesi, sembra non solleciti in Sartre il problema che invece dovrebbe essere sollevato: come si giustifica il fatto che l’Io è assente dalla coscienza irriflessa, ma è presente in quella riflessa che parla della coscienza irriflessa? Il problema viene certo colto, ma la percezione di una aporia che richiede una soluzione obbliga Sartre a distinguere tra ricordo riflessivo e ricordo non riflessivo: non , si badi, tra attualità della coscienza ricordante e attualità passata della coscienza ricordata. Sartre sembra orientato a tagliare corto. Dato che il ricordo che attinge le coscienze passate è , evidentemente, comunque riflessivo e dato che “la riflessione modifica la coscienza spontanea”, Sartre si tiene fermo al rapporto aproblematico che lega i ricordi non riflessivi alla coscienza irriflessa, per confermare che “non si dà Io sul piano irriflesso”. L’ipotesi che ciò viene che definito “coscienza irriflessa” sia costituito da una presupposizione fenomenologicamente gratuita e non giustificabile si rafforza, nonostante l’indubbio fascino degli esempi che Sartre presenta. Non c’è un Io che corre dietro un tram, quando io corro dietro a un tram: “C’è coscienza del-tram-che-deve-essere-raggiunto e coscienza non posizionale della coscienza”. In quanto sono sprofondato negli oggetti, “quanto a me , io sono sparito, mi sono annientato”.
Perché, si può chiedere , io mi sono annientato in quanto moi , se non perché io non sono fatto della stessa stoffa degli oggetti in cui appunto mi annullo – confermando tuttavia in questo stesso atto che ‘Io’ non mi annullo affatto, affinchè il mio moi possa esserlo?. L’eccedenza trascendentale dell’Io sembra di nuovo confermata nonostante gli sforzi in senso contrario compiuti da Sartre. Qui si torna ad osservare l’Io penso , la cui potenza evidentemente non si è dissolta agli occhi del filosofo . Sartre lo disloca in un ambito che lo apparenta alle “verità eterne”. Esso non è una struttura peritura della mia coscienza attuale, dato che “afferma la sua permanenza al di là di questa coscienza e di tutte le coscienze”. In virtù di questa collocazione trascendente dell’Io, Sartre si propone di evitare l’imbarazzo che coglie nel paragrafo 61 del primo volume delle Ideen di Husserl (cfr, trad. it. Torino 2002, pp.150-152) circa l’esigenza di estendere la riduzione fenomenologica agli stadi eidetici della logica e dell’ontologia formale, ma anche alle “essenze che sono desunte dalla sfera del mondo naturale” e che non “appartengono all’immanenza della coscienza stessa”. Solo un pregiudizio metafisico può far dubitare che ogni trascendenza , e quindi anche l’Io, debba cadere sotto l’epoché. L’Io è come “un ciottolo in fondo all’acqua”. Esso non è oggetto di evidenza, né apodittica né adeguata: non si può dire che sia l’”origine” della coscienza perché “niente al di là della coscienza può essere l’origine della coscienza”., e se si vuole parlare di “origine” proprio questa nozione testimonia della “opacità” dell’Io .
Se viene esclusa la tesi lo sartriana che l’Io non sia oggetto di evidenza, perché è piuttosto la fonte dell’evidenza , o , se si preferisce il nome che diamo al darsi originario della evidenza, all’evidenza colta nella sua originaria purezza – se viene esclusa cioè la tesi che sola può restituire un rilievo alla centralità trascendentale dell’Io, restano le osservazioni con le quali si entra nell’analisi della “presenza materiale del Me” e poi nell’analisi della “costituzione dell’Ego”.. L’Io è un esistente trascendente. L’intuizione (non , si badi, la coscienza riflessa) , lo coglie nella coscienza riflessa, che dunque non sembra collaborare alla sua intuizione. La formulazione che Sartre finisce per utilizzare per venire a capo di una situazione teoreticamente difficile è che l’Io appare “in occasione di un atto riflessivo”. Ciò significa che bisogna ammettere una riflessione irriflessa, senza Io, dunque radicalmente anonima, “che si dirige su di una coscienza riflessa”. Qualora si accetti questa essenziale premessa , in virtù della quale la riflessione che deve potere dirigersi sulla coscienza riflessa, lo fa negando la propria natura e d affermandosi contro se stessa , quel che segue ci mostra da un lato il riferimento della coscienza riflessa al suo oggetto nel mondo, dall’altro il suo ulteriore riferimento ad un “nuovo oggetto”, ossia a qualcosa che è “occasione di una coscienza riflessiva”. Questo “oggetto trascendente dell’atto riflessivo è l’Io”, il quale dunque non è cosa della coscienza irriflessa, in sé “assoluta” e non bisognosa di riflessione, ma allo stesso tempo non presiede , come sembrerebbe naturale sostenere, alla coscienza riflessa quale sua condizione, dato che l’atto di riflessione è stato definito in se irriflesso è senza Io. Ma, data la difficoltà della nozione di un “atto irriflesso di riflessione”, Sartre lascia gravare sull’Io al tempo stesso la funzione di “oggetto” dell’atto irriflesso riflettente e di “occasione” dell’affermarsi della coscienza riflessiva. In questo modo, si ottiene l’obiettivo di valorizzare ulteriormente la coscienza riflessiva, facendone qualcosa che si manifesta all’”occasione” del darsi di quello che dovrebbe essere il suo oggetto. Non si cerchi di rendere coerente questa situazione concettuale, largamente basata sulla decisione teorica di principio, che ha guidato l’intera argomentazione fino a questo punto. “L’Io trascendente deve essere soggetto alla riduzione fenomenologica”. Il Cogito non può affermare troppo. Non può dire che “io ho coscienza di questa sedia”. Dunque il Cogito è uno “pseudo Cogito”, dato che il contenuto di ciò che neanche dovrebbe definirsi come un “atto anonimo”, affinché si eviti di attribuirgli la più piccola ombra di soggettività, è : C’è coscienza di questa sedia”. Possiamo concordare con Sartre che tale “c’è coscienza di…” apra un campo infinito di ricerche fenomenologiche – a patto tuttavia che si riconosca che il problema del senso del “c’è” non può considerarsi affatto risolto.

PUBBLICATO IL : 07-06-2005
@ SCRIVI A Francesco Saverio Trincia
 

 
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