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Sartre, quel drôle de succès
Riflessioni su un articolo pubblicato sulSole 24 Ore il 13 febbraio 2005
di Marcella D'Abbiero

Il successo di Sartre è singolare: ricalcando il titolo di un suo celebre libro postumo, si potrebbe dire: quel drôle de succès. Si è parlato tanto di lui, ma pochi sono stati i suoi veri interlocutori, è stato famoso, ma le sue posizioni sono state o ferocemente attaccate, o ridicolizzate ... e comunque, quasi sempre fraintese. Che questo strano fenomeno si sia prodotto al tempo della guerra fredda e dei blocchi contrapposti, nel decennio '40-'50, o, negli anni '80, al tempo della grande ubriacatura anti-umanista, è qualcosa che può forse trovare una giustificazione storico-culturale, sebbene rimanga un evento preoccupante. Che esso accada ancora oggi, nel terzo millennio, con il mondo che si complica e si trasforma sotto i nostri occhi, appare ancora più preoccupante, e ci dà molto da pensare.
La pagina che Il Sole 24 0re ha dedicato a Sartre il 13 febbraio 2005, che pure reca firme prestigiose, quali Oliver Todd, Goffredo Fofi e Armando Massarenti, non può infatti non farci pensare, e molto. Sono senz'altro interessanti gli squarci sulla personalità di Sartre, sul suo carattere e sul suo stile di vita, i ricordi personali, gli aneddoti, di cui questa pagina è ricca.
Colpisce tuttavia che Sartre sia ricordato per le sue divertenti e originali stranezze caratteriali, o per alcune sue prese di posizione politiche un po' avventate, ma in alcun modo per la sua filosofia. La sua opera più bella e più profonda, L'essere e il nulla, viene dichiarata da Todd "illeggibile", mentre l'unico saggio degno di essere ricordato come un capolavoro è per tutti e tre Le parole. Sembrerebbe insomma che dopo "la sua influenza straordinaria" (Todd), di questo autore, che "non piace più ai giovani" (ancora Todd), rimanga soltanto questa opera autobiografica.
Mi pare un bilancio un po' sommario e un po' superficiale che sottovaluta alquanto la grandezza filosofica di Sartre, il quale, non solo ci ha lasciato una riflessione sulla condizione umana di rara profondità, ma ha anche rivoluzionato il modo di fare filosofia. Per Sartre infatti c'è filosofia ovunque la mente si mette in moto: c'è filosofia nei saggi per gli addetti ai lavori, ma altresì nei romanzi, nelle autobiografie, nelle pièces teatrali, nei film. Noterei en passant che anche Le parole, testo così enfatizzato dai tre relatori, è difficilmente apprezzabile senza una profonda conoscenza dei percorsi filosofici di Sartre, dato che il suo pregio consiste molto più nel "non detto" che non nella lettera della scrittura (anche Todd peraltro lo nota).
Sorge allora una domanda: perché la filosofia di Sartre suscita questo rifiuto, al punto da essere frettolosamente liquidata e grossolanamente fraintesa? Perché, ad esempio, un pensatore così pregevole, e non certamente antiumanista, come Cornelius Castoriadis, non ha reputato onorevole neanche fare il nome di "questo autore" [Sartre], e tanto meno ha reputato opportuno perdere tempo a contraddirlo: "noi che abbiamo sempre pensato che egli parlasse delle faccende di questa terra come un essere venuto da un altro mondo"? (C.Castoriadis, L'enigma del soggetto (1975), Bari 1998, p.328).
Perché il suo esistenzialismo laico e costruttivo non ha fatto scuola? Perché, per molti anni, sulla scia di Heidegger, già solo la parola esistenzialismo ( umanismo era addirittura impronunziabile) era equiparata ad un insulto filosofico, a destra e a sinistra?
Non dimentichiamo che Sartre inizia il suo cammino filosofico in modo molto simile a Heidegger: entrambi partono da una radicalizzazione della fenomenologia di Husserl. Per molti aspetti le loro strade corrono parallele: tutti e due criticano il sostanzialismo, il cosismo, l'oggettivismo, criticano il modello adeguazionista della verità; vogliono fare filosofia senza rinchiudersi nella trappola gnoseologica della dualità soggetto-oggetto.
Le loro strade si separano quando si tratta di comprendere quel che resta dopo questa critica. Per Sartre resta l'individuo, e questo diventa l'oggetto del suo interesse; Heidegger ritiene questa nozione troppo "cosale", e preferisce parlare di Dasein, per non confondersi con i filosofi che hanno "obliato l'essere". Ma se pensiamo al fatto che Sartre non si è mai stancato di ripetere che le faccende umane non possono essere cosalizzate, è abbastanza facile indovinare che forse la posta in gioco tra i due non è la differenza ontologica, ma un modo diverso di atteggiarsi verso la realtà e verso l'esistenza degli altri.
Per comprendere bene questo contrasto, è necessario seguire il percorso che conduce Sartre dalla contestazione di un soggetto sostanzializzato all'ammissione della centralità dell'individuo. L'individuo, infatti, per Sartre, non coincide affatto con il per-sé - in ciò è d'accordo con Heidegger - ma ne è solo una limitazione storico-sociale, che lui chiama il "me". Ma per Sartre è molto importante soffermarsi su questa limitazione, e sui rapporti che si instaurano tra il per-sé e il me, perché la dimensione storico-sociale, la cui ossatura è costituita dall'esistenza degli altri, per il nostro è filosoficamente ineludibile.
La esistenza degli altri complica però molto l'esame di realtà. L'esistenza degli altri, anche se sempre vissuta da un per-sé, produce un evento altamente destabilizzante: ci fa comprendere che, anche se io sono un "essere-nel-mondo", ho "un di fuori", e che per gli altri sono soltanto un "me".
Soltanto lo sguardo dell'altro, ci racconta Sartre in celebri pagine, rivela che "ho un di fuori", e che "mi si vede"; Sartre ritiene anzi che a rigore si può parlare di realtà e di mondo soltanto quando si guadagna la dimensione dell' "altro" che ha la sua mente e il suo punto di vista. Il per-sé è quindi un territorio non sostanziale, non cosale e senza limiti, che tuttavia è messo in crisi dall'esistenza degli altri, che gli pongono dei limiti, e che lo vedono come un "me", in qualche modo cosalizzandolo. Il primo problema che un per-sé ha da affrontare è quindi quello del rapporto tra l'infinità del suo per-sé e i limiti che la realtà e l'esistenza degli altri gli fanno incontrare, e che gli ricordano la sua condizione umana. Sartre ha insomma portato l'attenzione sulla situazione di un per-sé che non può evitare di vivere come un individuo in mezzo agli altri, e ha posto al centro della riflessione filosofica e storica le vicende psicologico-esistenziali che travagliano gli esseri umani nella loro vita storico-sociale. Egli ci offre anche alcune prospettive liberatorie, per nulla ovvie e banali. Al pari di Heidegger, valorizza molto il sentire e il pensare, certamente molto più che l'avere.
Il "pensare", tuttavia, per Sartre apre nuovi orizzonti soltanto da un punto di vista metaforico: non è, come per Heidegger, un evento ontologico. Una mente pensante non è in alcun modo esentata dall'affrontare i problemi della condizione umana : la sua contingenza, la sua responsabilità, la sua finitezza, e soprattutto la diversità degli altri, che hanno altri punti di vista. Forse è proprio questo l'elemento che ha sempre imbarazzato gli interpreti: il suo esistenzialismo umanistico, che "progetta", ma senza dimenticare la contingenza, e dà ad ogni individuo la responsabilità delle sue scelte, senza dimenticare che la realtà è sempre "altra" e che ogni scelta è sempre un'opinione. Dalle pagine di Sartre emerge l' impossibilità per l'individuo di raggiungere una dimensione "non soggettiva", che lo possa liberare dall'intollerabile condizione di essere "uno dei tanti" . Un discorso questo che non piaceva a nessuno, né ai cattolici, né ai marxisti, né agli heideggeriani, né agli strutturalisti ... e che, a quanto pare, anche oggi stenta a trovare il suo spazio.
Per fortuna vi sono molte voci discordanti nel panorama culturale contemporaneo. Ne abbiamo avuto una conferma nel bellissimo congresso Sartre après Sartre appena conclusosi, ed anche nella mia attività di docente ho riscontrato un interesse fortissimo degli studenti per Sartre, proprio per il Sartre di Essere e Nulla, e proprio perché questo testo non arretra di fronte alla quantità di dolore che incombe su chi vuole affrontare i problemi dell'esistenza umana.
Per questi motivi Sartre ci offre anzi molto aiuto per comprendere il mondo a noi contemporaneo. Per esempio, è stato uno dei primi ad introdurre nel regno "intoccabile" della politica le problematiche esistenziali, mostrandoci, con analisi raffinatissime, i percorsi con i quali angosce profonde portano a eccessi di dominio, o a eccessi di consenso collusivo.
Nel suo bellissimo saggio Réflexions sur la question juive, scritto nel 1946, egli si rifiuta di affrontare il tema "antisemitismo" con categorie razionali, e ci offre un'analisi che non solo affonda nelle angosce e nei desideri legati alla condizione umana, ma ci mostra anche il mix esplosivo che viene fuori quando queste angosce ricevono dall'esterno una risposta priva di pensiero, come quella razzista.
Todd invero riconosce che l'accoppiata storia-psicologia è uno dei temi che rendono Sartre attuale, ma la sua notazione perde vigore quando poi definisce "una trovata" il famoso esempio dell'Essere e Nulla del cameriere che non "è" un cameriere, ma "gioca" solo ad esserlo. Quell'esempio è portato da Sartre per illustrare uno dei pilastri del suo discorso, la evanescenza degli esseri umani, e la insopportabile angoscia che da essa proviene.
Nessuno "è" nulla, dice Sartre, nessuno "è" cameriere, nessuno "è" professore, o industriale, o divo ... tutti "giocano" un ruolo, e la ricerca di un fondamento sostanziale che dia alla propria vita una sicurezza di granito è per Sartre una delle origini del dominio, del fanatismo, della intolleranza, della "totalità". L'evanescenza, tuttavia, se accettata, ci offre, secondo Sartre, molte chances, perché permette di impostare la propria vita sul sentire anziché sull'essere, permette di cambiare, di avere delle belle emozioni. L'"impegno", come Sartre lo teorizza in Qu'est-ce que la littérature? - spesso in modo criptico, per farsi accettare dai compagni - che altro è se non un elogio dell'azione benefica esercitata dall'arte sul sentire degli esseri umani?
E nonostante abbia descritto con realismo estremo le difficoltà dei rapporti con gli altri (e anche questo non gli è stato perdonato), ha tuttavia intravisto nella comunicazione interumana una delle poche salvezze della vita.Come possiamo leggere allora che Sartre adora la totalità (Fofi), e che ha sempre privilegiato il "fare" rispetto al "pensare" (ancora Fofi)?
Certamente Sartre quando scrive di filosofia è prolisso e a volte tortuoso, e questo non facilita la comprensione; ma ciò non spiega lo sconcertante atteggiamento di disistima da parte di molti. Così come non è solo la bellezza dello stile - innegabile - che possa spiegare come la Lettera sull'umanismo di Heidegger, bella, affascinante, ma contenente un messaggio quello sì totalitario e antidemocratico, abbia "sedotto" per anni, a sinistra e a destra.
Infine un'ultima notazione: Todd ironizza sulla mancanza di rapporti sessuali tra Sartre e Simone de Beauvoir. Una notazione scherzosa che richiede però di essere commentata in quanto, pur nella sua irrilevanza filosofica, offusca un profondo pensiero di Sartre. Per il nostro l'attività sessuale coinvolge l'essere umano nella sua interezza: significa scegliersi come desiderio e scegliere di vivere in un mondo di desiderio, nel quale "fare" sesso, è un evento particolare. E se, sempre secondo Todd, essi, per questa mancanza, "non erano una coppia", questo non poteva che far piacere a Sartre, il quale ha visto nella assillante ricerca della "definizione" dei momenti belli della vita ("che cosa sei per me?", "siamo una coppia? ", ecc.), la causa principale della sconfitta dei rapporti umani.

PUBBLICATO IL : 06-05-2005
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