interviste,  articoli, approfondimenti interviste,  articoli, approfondimenti recensioni, segnalazioni, novita editoriali Tutti i link della filosofia dizionario dei filosofi seminari, presentazioni,  convegni
by google
www giornale di filosofia
scrivici Chi siamo / info news letter link non attivo

 

Per Jacques Derrida / 1
Intervista a Maurizio Ferraris
di Federico Lijoi

1) Dei rapporti tra Heidegger e Derrida si è parlato a lungo. Si tratta di una filiazione concettuale piuttosto evidente che comunque non ha escluso oscillazioni o addirittura nette prese di distanza. A questo proposito il decostruzionismo sembra rimandare al ben noto concetto di Destruktion e al progetto di una Destruktion della storia dell’ontologia di cui Heidegger fa cenno nel § 6 di Sein und Zeit. Quali tracce restano di questa movenza concettuale heideggeriana nell’impresa decostruttiva tentata da Derrida?

La filiazione è molto evidente sul piano terminologico, ma le due decostruzioni sono molto diverse. Heidegger si limita a riscrivere la storia della filosofia, mettendo se stesso in cima, è una operazione puramente storiografica e accademica, che lascia intatto tutto: la politica (in cui Heidegger è sempre stato a dir poco conformista), la vita e tutto il resto. Derrida, invece, smonta per davvero le cose. Se lo immagina, lei, Heidegger che prende posizione contro gli Stati Uniti nella guerra in Iraq?

2) Il tema della traccia riveste sicuramente un’importanza cruciale nell’opera di Derrida. Traccia che non è traccia di qualcosa bensì di ciò che non c’è, che non si presenta né può mai presentarsi. La traccia dunque rimanda a se stessa nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla ma a partire dalla quale qualcosa appare. In che modo e in che senso questo insieme di rimandi è comunque in grado di costituire un orizzonte di senso inteso come orizzonte della mancanza?

L’idea è semplicemente questa: una presenza piena non si dà mai, e questo è piuttosto ovvio, persino banale. Se vedo un lato di un oggetto, non ne vedo un altro. Figuriamoci poi con le persone e con i loro sentimenti. E se anche, per assurda ipotesi, avessi perfettamente presente l’oggetto, o l’alter ego, questi prima o poi spariranno, e comunque presto o tardi sparirò io, me ne andrò o morirò.

3) Nell’opera di Derrida concetti come quello di aporia, di ospitalità/ostilità, di irriducibilità dell’altro tendono a privilegiare l’aspetto della conflittualità rispetto a quello dell’accordo e del dialogo. Il decostruzionismo rivendica la propria peculiarità di contro all’ermeneutica proprio nel riuscire a dire l’interruzione del dialogo, nel pensare l’interruzione del dialogo come momento costruttivo e dinamico. In che cosa si consuma più precisamente questa differenza tra ermeneutica e decostruzionismo?

Semplicemente in questo: l’ermeneutica sostiene che l’interpretazione è infinita, e che anche il dialogo può durare all’infinito. Ma è ovvio che non è così. Non si può né interpretare né dialogare all’infinito, prima o poi, e in genere più prima che poi, viene il momento in cui si deve decidere e scegliere. Così anche nel dialogo. Francia e Inghilterra hanno dialogato per anni con Hitler, sperando che questo portasse a qualcosa, e la storia gli ha dato torto, è un tipico caso in cui voler dialogare a tutti i costi porta alla catastrofe, è proprio vero che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e di pie illusioni: quelle con cui l’ermeneutica ha dipinto il mondo, indorando tante pillole. Credo che sia questo il nocciolo delle obiezioni della decostruzione all’ermeneutica, suggerisco di rileggere in questa luce il confronto tra Gadamer e Derrida nel 1981.

4) Il decostruzionismo è innanzitutto pensato da Derrida come una prassi della scrittura. Come qualcosa che sfugge costitutivamente a qualsiasi tentativo di definizione teoretica. Una prassi che vive di pause, di tracce, di differenze, in particolare nell’intento di decostruire l’identità, il carattere definitorio e la difesa dall’alterità propugnate dalla metafisica della presenza. Nell’ultima fase del suo pensiero Derrida sembra rivolgere questa idea di prassi, attraverso un’attenzione al problema etico, alla critica della struttura politica e giuridica dell’Occidente. Si tratta di una cesura rispetto ai primi presupposti del pensiero derridiano o piuttosto di una logica conseguenza di essi?

Kant scriveva che tutto, alla fine, si risolve nel pratico, e credo che avesse pienamente ragione. Si giudicano gli uomini dalla vita che conducono, e purtroppo si giudicano anche i padri dal comportamento dei figli. Mi sembra del tutto naturale che, una volta sviluppata la propria teoria, un filosofo voglia anche vederla in atto, è per questo che Platone è andato a Siracusa e che Nietzsche, purtroppo per lui ma per fortuna per noi, è andato in manicomio. Senza mire egemoniche di questo genere, credo che l’attenzione per l’etica del Derrida degli ultimi anni fosse un esito della teoria sviluppata in precedenza, ma anche un tentativo di far capire che il decostruzionismo è tutt’altro che un irresponsabile gioco di parole.

5) Nell’ultimo periodo di attività filosofica, riflessione teoretica e testimonianza di vita sembrano in Derrida fondersi l’una con l’altra, intrecciandosi indissolubilmente. Si tratta di un tema ricorrente nella filosofia francese del Novecento (Sartre, Deleuze, Blanchot etc.). Qual è in Derrida la specificità e il valore di questo intreccio?

Lei dice “filosofia francese del novecento”. E Pascal? E Montaigne? E lo stesso Cartesio che scrive le Meditazioni Metafisiche nella forma di un soliloquio, come descrivendo una serie di esperimenti privati sulla propria coscienza, e anche raccontandoci un poco la sua vita, come sa. Questo modo di fare filosofia viene molto da lontano ed è molto classico. Derrida, illustre figlio di quella tradizione, non fa eccezione.

6) Quanto all’eredità filosofica che ci viene lasciata in consegna da Derrida, cosa occorre secondo Lei abbandonare e che cosa invece sviluppare e continuare a pensare?

Bisogna liberarsi dal derridismo, dalla maniera, che è il contrario di Derrida, ed è pura imitazione. In questo senso, certo, bisogna liberarsi da Derrida (a un certo punto l’ho fatto anch’io, o almeno ho pensato di farlo o ho provato a farlo, non mi piaceva fare il clone o il clown), e quando si è ben ben lontani, in altri campi, registri, e in tutt’altri modi, ci si accorge quanto Derrida abbia contato per noi. Quando ho finito di scrivere Goodbye Kant! mi sono accorto di aver fatto una decostruzione della Critica della ragion pura, ma le assicuro che non ci pensavo assolutamente, quando lo scrivevo.

7) Conclusivamente, Lei che ha avuto l’occasione di conoscere oltre che il filosofo, anche l’uomo Derrida, che ricordo ne conserva?

Sarebbe un lunghissimo discorso, ho provato a esprimermi un poco su questo nel mio ricordo a Roma del 9 novembre. Non posso ripetermi qui, e mi limito a due tratti fondamentali. Primo: è stato l’uomo più innamorato della vita che io abbia mai conosciuto. Secondo: l’uomo, per come ho potuto conoscerlo, era all’altezza delle sue opere, il che, in effetti, è rarissimo.

PUBBLICATO IL : 06-02-2005
@ SCRIVI A Federico Lijoi
 

 
www.giornaledifilosofia.net - rivista elettronica registrata - ISSN 1827-5834