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Intervista a Mario Tronti
I filosofi e la politica/7
di Giorgio Fazio

Molti fenomeni nell’attuale passaggio storico segnalano una difficoltà ed una crisi delle forme e degli istituti della politica. Ciò risulta tanto più evidente quanto più non si rinuncia ad un’idea del primato del Politico, e conseguentemente ci si continua a rivolgere alla “politica” e alle sue decisioni concrete, con forti aspettative, esigendo da esse la capacità di esprimere un progetto di orientamento e trasformazione complessiva della società. Prima di analizzare quali sono le linee di crisi della politica oggi, proviamo a partire da una questione più complessiva: in che stato versa oggi la democrazia? E i problemi che attualmente la attraversano sono di natura contingente, o al contrario sono espressione di impasse che si ripropongono puntualmente, portando alla luce delle soglie di crisi che afferiscono alla sua stessa forma politica?

Fare un discorso sulla democrazia è operazione sempre molto difficile. Mai come in questo ambito, infatti, la teoria si scontra con la realtà; i concetti riguardanti la storia del problema si introducono nei processi reali in modo contraddittorio, e si assiste ad un intreccio ambivalente tra teoria e prassi che deve essere dipanato, per chiarire anche solo preliminarmente i termini della questione.
Il primo passo in questo senso può essere quello di circoscrivere storicamente il discorso. Io mi rifiuto sempre di parlare della “democrazia degli antichi”. Ciò che m’interessa è “la democrazia dei moderni”, ragionare cioè su quella che in fondo è stata una forma di pensiero critico della modernità e del tipo di forma sociale che questa ha introdotto nel mondo. Letta in quest’ottica la democrazia ha avuto un inizio anche brillante ed una storia relativamente lunga, anche se non lunghissima, che non è andata tuttavia sempre nella direzione dello sviluppo delle idee originarie, anzi, molte volte, è andata in una direzione opposta, generando applicazioni assai distorte rispetto al piano ideale.
Questa parabola di involuzione storica è stata illuminata profondamente secondo me a partire da due direzioni critiche, diverse se non opposte, che oggi più che mai aiutano a sviluppare un discorso critico sul concetto di democrazia politica; due ordini di critiche che, pur partendo da punti di vista opposti, rivelano oggi insospettate zone di convergenza.
C’è stata in primo luogo una critica liberale della democrazia, che continua a trovare la propria espressione paradigmatica in Democrazia in America di Toqueville.
L’assunto di partenza da cui partiva Toqueville è che il proprium della democrazia moderna non vada cercato tanto nelle forme istituzionali di uno stato democratico, quanto nel profilo di una società democratica. Non a caso Toqueville sposta il proprio fuoco d’interesse sugli Stati Uniti, cioè sul paese dove si andava affermando pienamente un principio egualitario a livello sociale, e non esistendo antiche gerarchie sociali da distruggere, si ripartiva in un certo senso da zero, ex-novo, in un modo che certamente costituiva un enorme progresso rispetto alla contrapposizione vetero-europea tra governanti e governati.
Eppure Toqueville richiamava l’attenzione sul fatto che la società democratica che si andava concretamente profilando negli Stati Uniti, non si conciliava fino in fondo con l’idea di libertà, cosa che l’ideologia liberal-democratica ancor oggi dà per scontato, pensando che questo accordo sia cosa già fatta.
Il pericolo fondamentale della nuova società democratica era individuato da Toqueville nella sua tendenza ad involversi in una società omogenea, livellata, profondamente ostile ad uno sviluppo del singolo individuo. In riferimento ai processi individuati da Toqueville si è parlato di una critica al carattere totalitario della democrazia, ma si può parlare a questo proposito, forse meglio, di una critica al carattere illiberale della democrazia.
C’è stata in secondo luogo un’altra forma di critica della democrazia, di segno opposto, dicevamo, e cioè quella che ha preso corpo nella tradizione comunista. Il punto di partenza di questa critica è stata la famosa distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale, distinzione che trovava alimento dalla constatazione storica che le democrazie occidentali riconoscevano soltanto formalmente la sovranità popolare, riesibendo di fatto in forme solo mutate, il rapporto di forza e di dominio tra governanti e governati.
Io credo che queste due critiche alla democrazia possano oggi convergere nel fondare un’analisi critica delle grandi società democratiche occidentali contemporanee. Esse possono aiutare a rendere consapevoli del fatto che anche le società democratiche, nonostante non abbiano caratteristiche autoritarie, possono incorporare nel loro seno germi totalitari. La radice di ciò è che la democrazia sembra rivelare una tendenza intrinseca alla neutralizzazione della dinamica del conflitto politico, una tendenza a strutturarsi intorno ad un principio astratto di eguaglianza, che si risolve in un ordine concettuale identitario, con un fondamentale carattere inclusivo. La tendenza, prevalente, nelle democrazie “mature”, è non ad escludere, ma ad accogliere e a omologare. Il melting pot è ad esempio un dispositivo eminentemente democratico: l’integrazione per la neutralizzazione.
La democrazia moderna è senza autonomia del politico. E in questo senso è, anzi, uno dei vettori portanti di una crisi della politica, E’ rivelatore per me il fatto che la stessa parola democrazia abbia sempre la necessità di determinarsi attraverso un aggettivo che rinvia a qualcosa d’altro fuori da sè: si è parlato e si parla di democrazia-liberale, molto maldestramente si è tentato di realizzare una democrazia-socialista, e tra l’una e l’altra si è assistito e in parte tuttora si assiste all’emergere di una democrazia senza aggettivi, la quale però allora come tale incorpora pulsioni antipolitiche, in senso populista e plebiscitario.
La consapevolezza che deve essere sviluppata quindi, è che qualsiasi rivendicazione democratica ha bisogno di essere molto specificata per assumere un valore realmente emancipativo, non può cioè rimanere generica, senza assumere una veste ideologica.

Eppure, si potrebbe obiettare, nel secondo Novecento su scala nazionale le democrazie occidentali hanno saputo garantire meccanismi, per quanto imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza, e di partecipazione politica. Si può individuare pertanto un punto di rottura e di svolta negli ultimi anni, in grado di spiegare quella parabola di progressiva spolicitizzazione della democrazia a cui Lei fa riferimento? A questo proposito, Lei nei suoi lavori ha parlato di una sorta di mutazione antropologica della figura del cittadino contemporaneo, che si sarebbe consumata negli ultimi decenni. Può spiegare a cosa si riferisce con questa espressione?

Io ritengo che per approfondire il discorso sulla democrazia, e comprenderne l’involuzione a cui prima facevo riferimento, è necessario scendere su un livello di analisi antropologica, e comprendere in che modo la democrazia abbia investito e ridisegnato negli ultimi decenni lo stesso livello antropologico della politica. La mia tesi è che bisogna chiarire quale sia la natura del cittadino contemporaneo, e per farlo bisogna riconoscere come nel corso degli ultimi decenni si sia consumato un incontro ed una pericolosa identificazione tra homo oeconomicus e homo democraticus.
Con questa coppia concettuale intendo riferirmi al modo in cui per gran parte del Novecento si è ridislocata la distinzione, teorizzata da Marx in riferimento allo Stato borghese dell’Ottocento, tra buorgeois e citoyen.
Il bourgeois nel Novecento è divenuto sempre di più homo oeconomicus. Quest’ultimo è precedente al borghese, a ben vedere, esso è l’individuo scoperto dalla grande economia politica classica di Smith e Ricardo. E tuttavia successivamente, nella costruzione settecentesca e ottocentesca della società, la figura inizialmente a tratti perfino eroica del bourgeois, quella per intenderci ancora celebrata da Weber, è stata riassorbita nella figura umana della persona privata, rinchiudendosi via via nella forma dell’homo oeconomicus, dell’individuo acquisitivo e proprietario.
Il citoyen al contrario, a partire dalla grande stagione politica tra le due guerre, dove sono entrate in scena per la prima volta nella storia le masse in politica, sembrava aver preso definitivamente nel secondo Novecento la forma di homo democraticus, di cittadino sovrano in grado di prendere la decisione politica.
Attraverso questa duplice dislocazione della coppia originaria bourgeois-citoyen sembrava si fosse approdati cioè, nell’orizzonte della democrazia del secondo dopoguerra, ad un equilibrio per certi versi virtuoso tra due forme antropologiche: quella dell’homo oeconomicus da un lato, cioè della persona privata, e quella dell’homo democraticus dall’altro, cioè della persona pubblica, capace di esprimere un protagonismo politico, sulla base di una possibile contraddizione tra forma democratica e struttura sociale. E’ stata l’illusione storica della socialdemocrazia, quella classica, ancora marxista e revisionista.
E tuttavia questo equilibrio si è rotto a partire dagli anni ’70, per la stessa ragione che ha sancito la fine dell’epoca delle grandi masse organizzate: il venir meno cioè di una struttura di classe in grado di tenere unite le masse e di conferire loro un profilo identificabile, tanto dal lato oggettivo, attraverso una struttura di identificazione dotata di un’oggettività economica, tanto dal lato soggettivo, attraverso una coscienza collettiva unitaria, che riusciva ad esprimersi nelle organizzazioni politiche, in primis i partiti, prima fautori poi gestori di uno Stato sociale.
E’ a partire da questo punto di svolta, che la democrazia ha assunto sempre più a parer mio il ruolo di fattore di identificazione collettiva dentro una società data, che fa leva sull’espulsione di ogni antagonismo e contrapposizione sociale. Le masse sono diventate sempre di più la massa, cioè un insieme di individui senza classe, incapaci come tale di autorganizzazione politica: masse manovrabili quindi, come lo erano state nelle società totalitarie, soltanto che mentre allora esse erano tali perché sottoposte ad un processo di nazionalizzazione gestito autoritativamente dall’alto, dentro i sistemi democratici esse lo diventano perché sottoposte ad un processo di borghesizzazione livellatrice. All’interno della massa democratica tutti gli individui sono ridotti a borghesi, e la figura dell’homo democraticus, inizialmente separato dall’homo oeconomicus, si eclissa totalmente nell’individualità isolata di quest’ultimo.
L’homo democraticus, il cittadino politico, non è più quindi la persona che sovranamente partecipa dell’agire pubblico e decide autonomamente, ma si è ridotto tendenzialmente ad essere un pezzo di massa tendenzialmente manovrata, un individuo che crede di scegliere e invece viene scelto, crede di decidere ma invece è deciso, crede di contare ma invece è contato.
Per me questo processo è particolarmente visibile in quella forma politica che viene dagli Stati Uniti e si cerca di esportare anche da noi: le primarie. In queste forme di consultazione è per me assai evidente, che ad essere chiamate in gioco non sono masse autodirette, ma masse eterodirette, e questo al di là dei risultati volta per volta prodotti dalle consulazioni, siano questi buoni o cattivi. Le primarie per me sono un procedimento che intrinsecamente va più nella direzione di un’alienazione politica che di una riappropriazione politica.
Io da questa ricostruzione storica traggo la conclusione che il sociale oggi è molto più organico all’attuale assetto proprietario capitalistico del politico, e per questo continuo a ritenere che solo attraverso una riattivazione della dimensione propriamente politica si possano innescare processi di trasformazione della società.
Paradossalmente, infatti, risulta ancora molto difficile ricomprendere la politica dentro il sociale, e non a caso essa continua ad essere vista come qualcosa che sta fuori dalla società. Questo stare fuori è percepito di solito soltanto in forme negative. Da una parte il distacco del politico dal sociale è accentuato dall’autoreferenzialità del mondo politico: ciò che, come reazione, produce il fenomeno dell’anti-politica; d’altra parte il distacco del politico dal sociale è congelato in un’idea alternativa ed antagonistica della politica, che rimane qualcosa di elitario, non in grado di modificare realmente il sociale stesso.
Manca ancora la capacità di far leva sull’irriducibilità del politico al sociale per innescare delle trasformazione di quest’ultimo, che si oppongano all’egemonia borghese in cui esso è attualmente rappreso.
E’ importante ribadire come la posta in gioco di tale questione è né più e né meno che la democrazia, poiché solo se la politica riprende terreno la democrazia può ritornare ad avere il suo senso autentico, non di un valore assoluto ma di un terreno di conflitto.

Proprio su questo punto, tuttavia, sembrano addensarsi le questioni più spinose. Il primato della politica nel Novecento, emergeva su uno sfondo di presupposti che oggi non sembrano più darsi: in primis, come Lei ha detto, l’esistenza di una dinamica sociale ben più polarizzata rispetto a quella attuale, tale da produrre, per certi versi in maniera automatica, una convergenza collettiva tra individui investiti dagli stessi meccanismi di eslcusione. In secondo luogo, l’esistenza di uno sfondo ideologico attraverso cui quei soggetti venivano richiamati ad un percorso politico comune e ad una chiara meta da raggiungere attraverso le loro lotte. Due condizioni queste che permettevano alla politica, per usare una distinzione a cui Lei fa spesso riferimento, di non ridursi a “rappresentanza” ma di esprimere “rappresentazioni”, cioè di mettere in forma e render presenti faglie di trascendimento della società data, in grado di mobilitare e appassionare verso il futuro. Come riattualizzare queste istanze del Politico in un panorama radicalmente mutato come il nostro?

La mia critica del concetto di rappresentanza si fonda essenzialmente sulla constatazione che il sociale, come ho detto, sia in questa fase completamente inserito nella logica capitalistica. Io non riesco a scorgere nel sociale la presenza di elementi conflittuali forti, in grado di sottoporre a critica la forma capitalistica che la società ha assunto. Qualsiasi movimento sociale puro, anche se mosso da intenzionalità antagonistiche, oggi sembra non poter non scontare una subalternità all’attuale egemonia culturale e politico-economica. Questo mi sembra un dato di realtà, così come un dato di realtà mi sembra il fatto che ogni tentativo di rappresentare il sociale in questa fase finisce con il dare rappresentanza ad una realtà immodificabile. E’ per questa ragione che avanzo il tentativo di trovare qualcosa fuori.
Ciò detto è indubbio che alcune categorie novecentesche del politico fanno difficoltà oggi ad essere riproposte come soluzione della questione sociale: far riferimento ad un concetto di politica come autonomia, come primato, come espressione di forza e di forza organizzata, suona oggi come un ricorso ad uno spettro di categorie improprie, tanto più tali quanto più le si commisura alla vivacità del nuovo sociale-civile, che la fa da protagonista.
Ciononostante, io penso che continua ad esserci la necessità di rimettere al centro il problema della ricostruzione del terreno politico, delle forme politiche, della decisione politica, e ciò attraverso la formazione di nuove élites, in grado di tenere in pugno la fase che attraversa la società, ed in grado di riproporre un progetto di ampia trasformazione di quest’ultima.
Non si può ancora definire il modo in cui questo lavoro possa essere realizzato, anche perché le forme politiche sono state travolte dall’esaurimento di quelle categorie novecentesche della politica. Si pensi a questo proposito alla crisi dell’organizzazione del partito di massa.
E tuttavia, pur assumendo che le future forze politiche non possano ripercorrere sic et simpliciter la strada battuta dalle forme politiche del passato, ritengo comunque ineludibile riscoprire il senso del politico come dimensione dotata di una sostanza e di una forza esterna alla società, in questo senso trascendente, una dimensione in grado per questo di riproporre i temi del cambiamento dal di fuori del sociale, anche dal di sopra se si vuole.
Più che una soluzione politica questa io la concepisco come una forma di ricerca: come si potrebbe dire, la ricerca di un terreno nuovo e tuttavia già sperimentato. A cambiare devono essere le forme, ma cambiando le forme bisogna recuperare il senso di una politica in grado di intervenire sul sociale, in grado di orientarlo, di dirigerlo, per ricomporre a partire da queste basi i termini della decisione politica.

Sulla base di una radicale diagnosi negativa del sociale dunque Lei si appella ad un concetto verticale del Politico e della politica. Non si sottovalutano in questo modo però le potenzialità positive che emergono nel sociale stesso, espresse da gruppi o singoli, che attaverso pratiche e stili di vita alternativi, trascendono dall’interno, come si potrebbe dire, le attuali forme di pensiero egemoniche? Il tramonto della “grande politica”, in questo senso, non può essere l’occasione per rivalorizzare la libertà e l’autonomia dei singoli, e per riorientare queste ultime su contenuti realmente emancipativi?

Io sono molto sensibile al tema della libertà, e anzi credo che una delle accuse fondamentali che vanno mosse all’attuale realizzazione dei sistemi democratici, è proprio la soppressione cui esse mettono capo, di fatto, della libertà sostanziale del singolo, nonostante proclamino ogni giorno essere esattamente questo che formalmente vogliono conservare e garantire.
In realtà nessuno di noi è singolarmente libero, siamo dentro una gabbia, una gabbia che forse non è più d’acciaio, è di plastica ormai, oppure virtuale, composta da comunicazioni che provengono dall’alto verso il basso…, ma poi forse non c’è più nemmeno bisogno di figurarsi una gabbia, a tal punto abbiamo interiorizzato in noi stessi l’incapacità di essere liberi dai vincoli dell’opinione comune.
Io credo che sia in corso una decadenza della forma individuale umana, una decadenza che ha a che fare non più con la crisi della “libertà di espressione”, ma con la crisi della “libertà di pensiero”. La cosa meno diffusa oggi, la cosa più rara, è la mentis libertas di cui parlava Spinoza, cioè la libertà intellettuale, il ragionare per sé, al di là dei dettami dell’opinione corrente. Questa è la cosa più grave, questa dittatura dell’opinione, dell’opinione maggioritaria, a cui tutti si attengono e a cui tutti si inchinano. E non si fa più nemmeno lo sforzo di ubbidire perché questa communis opinio è stata interiorizzata: ognuno crede di pensare liberamente e per sé, ed invece non fa che ripetere quello che pensano tutti.
Io considero questo l’esito dei cosiddetti sistemi democratici, e in ciò io vedo il fallimento del progetto moderno. La modernità è partita da una grande enfasi sull’individuo che si è incarnata nell’ideale dell’uomo del Rinascimento, ed approda a quei fenomeni che già Nietzsche aveva stigmatizzato parlando di “ultimo uomo” e di “gregge”. La criticità della situazione contemporanea è per me che il gregge, la massa, di cui parlava Nietzsche, oggi non ha più nemmeno bisogno di un pastore per essere gregge, nonostante poi sia disponibile a correre dietro al pastore di turno che arriva. Ma non è questo o quel pastore secondo me che deve preoccupare, quanto invece “l’autonomia del gregge”, come si potrebbe dire.
Questa è secondo me la critica della democrazia che dovrebbero fare coloro che provengono dalla storia del movimento operario, dalla tradizione socialista e comunista, ed invece non fanno, attardandosi al contrario ad abbracciare un’idea di società liberale che nella realtà non c’è più.
Ciò che un pensiero critico dovrebbe mettere a nudo è l’esautoramento della libertà individuale a cui oggi si assiste, a causa non di una soluzione autoritaria, ma di una soluzione democratica. E’ questo un discorso molto difficile da fare, quasi incomprensibile ai più, e forse la ragione di ciò sta nel fatto che non è ancora maturo per essere espresso in forme chiare. Tuttavia non è escluso che nei prossimi anni riusciremo a trovare il bandolo per dare a questo problema un’espressione chiara. Solo allora potrà risultare un argomento comprensibile e convincente, acquisibile forse anche a livello di grandi numeri.

Nell’attuale sfera pubblica, anche a causa del venir meno della funzione prima svolta dalla politica, si assiste all’emergere di un nuovo protagonismo pubblico delle religioni, spesso attraversate da forme di integrismo e fondamentalismo. Eppure, spesso si contrappone a questa emergenza pubblica della religione un concetto di laicità che sembra non riuscire ad offrire orizzonti valoriali propri. Da dove ripartire quindi per ricostituire un concetto di laicità che possa offrire un ambito reale di incontro tra atei e credenti?

Io credo che mai come in questo momento sia necessario farsi carico di una critica del fondamentalismo, dovunque esso alligni: oggi c’è un fondamentalismo religioso, non meno che un fondamentalismo laico, c’è un fondamentalismo teocratico, non meno di un fondamentalismo democratico. Laddove soluzioni teologiche o politiche diventano definitive o senza alternativa, lì il pericolo del fondamentalismo cresce, e diventa un fattore assai preoccupante.
D’altra parte per me, la critica del fondamentalismo non è la stessa cosa della critica della religione. Io faccio sempre una distinzione tra la religione e il religioso: la religione è fatta di apparati chiesastici, di gerarchie e strutture, il religioso al contrario è una dimensione ed un bisogno umano, legato alla imperfezione, alla fragilità e transitorietà di noi esseri terreni.
Il religioso è una dimensione eterna con cui bisogna fare i conti, ed è stato un errore storico delle ideologie novecentesche emancipatrici e liberatrici quello di contrapporsi al sentimento del religioso nell’uomo, contrapposizione del resto insensata, anche perché l’appartenenza ad una fede ideologica terrena, trae alimento secondo me anche da questa dimensione del religioso.
Credere in qualche cosa per me è molto importante, ho più paura dell’incredulità che del credere. E’ stato detto che il problema oggi non è che non si crede più a niente, ma che si crede a tutto, ma a veder bene si crede a tutto proprio perché non si crede più a niente, cioè perché non si ha più una fede propria, e si diventa disponibili a credere a ciò che viene raccontato e offerto dal mercato.
Secondo me, al contrario, bisogna riscoprire il senso di fedi collettive, non di una verità che vale per tutti ma, come si potrebbe dire, di una verità assoluta di parte, cioè non di una verità che vale per tutti, ma di una verità che vale per una parte, per un pezzo di mondo. Il credere in qualche cosa collettivamente, insieme, non ha il senso di contrapporsi ad altri, ma quello di diventare coscienti di sé, ed anche il singolo individuo, se vuole approfondire se stesso e la propria interiorità, deve in qualche modo ritrovarsi insieme ad altri individui che camminano nello stessa direzione di ricerca, deve inscriversi in un’appartenenza.
Io credo che questo accordarsi ad un’appartenenza comune sia necessario, perché la laicità assoluta
rischia di lasciare il singolo individuo in balia solo di se stesso, lasciandolo con ciò in balia di tutto, senza più la forza di contrapporsi come individuo al resto. Per contrapporsi bisogna che si sia in tanti, in tanti a pensare la stessa cosa., ma ognuno a pensarla liberamente da sé e in sé.
Questa funzione era svolta un tempo da quelle che sono state chiamate, in termini per lo più dispregiativi, le grandi narrazioni ideologiche, di cui ci si è convinti sia stato un bene che siano morte. Però la loro morte ha aperto questo panorama preoccupante, fatto di fondamentalismi da un lato e di incredulità assoluta dall’altro, cose opposte ma entrambe negative.
Riscoprire il senso di un’appartennza collettiva, di una fede in qualche ideale comune è per me una via di mezzo che bisogna continuare a cercare. Io con ciò penso ad una fede politica, più che religiosa, e tuttavia ogni fede politica attinge secondo me necessariamente ad una dimensione profonda, che è quella del religioso, cioè ad una dimensione che non ubbidisce a gerarchie, ma ad un bisogno interiore da condividere. E’ una frontiera molto aspra da conseguire, però anche molto interessante da ricercare.

Che ruolo assegna in questa ricerca alla filosofia, e più in generale che funzione deve svolgere secondo Lei la filosofia come sapere critico e razionale nella sfera pubblica?

Io non ho molta fiducia nei filosofi, specialmente nei filosofi di oggi. Scorgo anzi un segno di decadenza del pensiero, una sua svendita al supermercato, in questo moltiplicarsi di festival e di occasioni piazzaiole, la filosofia-spettacolo, da cui mi tengo debitamente distante.
Io continuo ad essere fedele ad una concezione militante della filosofia, ad un’idea di filosofia come qualcosa di indissolubilmente legato all’impegno della prassi. E tuttavia l’esperienza storica ci ha insegnato che occorre coniugare impegno e disincanto. Lavorare su se stessi per essere bene contro il mondo. Ecco, io credo che oggi, più di ieri, non si possa fare filosofia se non nel segno di un costante atteggiamento di critica su tutto ciò che è.

PUBBLICATO IL : 02-08-2008
@ SCRIVI A Giorgio Fazio
 
Tema
I filosofi e la politica
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