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Per una lettura di Pier Paolo Pasolini
di Daniele Mastrangelo

 

[…]
«giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia».
Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, - mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. E’
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…».

Ma dove sei, dove ti sei mai persa?

«E’ a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.
(Vittorio Sereni)


Nel 1962 poco dopo la morte di Marilyn Monroe, Pasolini le dedica una poesia che sarà poi cantata da Laura Betti su musica di Marcello Panni e che tornerà l’anno successivo nel film La rabbia questa volta recitata da Bassani. Ha l’andamento di uno stornello melanconico con un refrain sul mondo, crudele, che deruba l’attrice della sua bellezza insegnandogliela: «tu sorellina più piccola,/ quella bellezza l’avevi addosso umilmente,/ e la tua anima di figlia di piccola gente,/ non ha mai saputo di averla,/ perché altrimenti non sarebbe stata bellezza».
Innocenza, povertà, una vita che non si regge su di un’immagine ma è, come se potesse consumarsi nel semplice atto del suo accadere irriflesso. Marilyn evoca a Pasolini il suo mondo: è un volto che ha la stessa verità di quelli amati fra i mendicanti di colore, delle zingare, delle figlie dei commercianti. Questa è la bellezza per Pasolini . Ma Marilyn e il suo «pulviscolo d’oro» allora già non esistevano più. Ridotta a merce e consumata, il poeta vede nel suo suicidio una profezia: «sei tu la prima oltre le porte del mondo/ abbandonato al suo destino di morte». Pasolini non piange e per questo non conosce liberazione, rimpiange e si dispera. Tutta la sua idea del bello è affidata alla tonalità del rimpianto e non sa per questo né del presente né del futuro, è già una cosa morta.
Ma qui la morte non è quella che si dice riferita ai mortali, a noi uomini che seguiamo quel corso per cui si nasce, si diviene e si muore. Qui la morte è qualcosa se possibile di più radicale, perché riguarda ciò che non è mai nato. La Marilyn che nella poesia «corre dietro ai fratelli più grandi» è il sogno di un sogno, non ha mai avuto la sua realtà, è l’idealizzazione di qualcosa che già da sempre viveva dentro il mondo stupido e feroce. Per questo il suo dramma piuttosto era proprio quello di non esser mai stata innocente come nessuna zingara e nessuna figlia di commerciante.


Questa poesia, raccolta nell’edizione completa fra le «Poesie disperse», è esemplare nella misura in cui ci permette di portare in primo piano una traccia caratteristica dell’opera di Pasolini .
Questa traccia ha la forma di una aspirazione ad un mondo archetipico e perciò mitico.
Se torniamo indietro nel tempo alla prima raccolta di poesie in lingua italiana, «Le Ceneri di Gramsci», quello stesso concetto della bellezza lo troviamo riferito, secondo una ascendenza pascoliniana, al garrito delle rondini. Questa volta la bellezza in modo ancora più esplicito, è soprattutto un sentimento del tempo che l’«umilissima» voce dei volatili evoca, quello di un’Italia altrettanto umile (II,1-2), preindustriale, agreste e friulana (I, 21-40). E’ questo un tempo «puramente umano», «non è il tempo della storia, /questo», un tempo fossile monotono preistorico, che coincide quasi con l’eternità. Nei versi finali questo incanto «non torna, e torna/ sempre sopra il mondo che non ha rimpianti». Il suo esaurirsi nella storia, non avviene però nel presente. Il suo tempo che è quello dell’Italia, oscilla continuamente nell’ombra e nella luce tra una preistoria e una storia in un’ alternanza drammatica.
Ma cosa intendiamo quando parliamo qui di un mondo mitico?
Una delle immagini più efficaci per intendere il significato di una concezione mitica la troviamo in Ortega y Gasset. Il filosofo spagnolo interpreta l’agire dell’uomo antico alla maniera di chi indietreggiando, come il torero, prende lo slancio per inferire il colpo mortale. E Thomas Mann così rielabora questa immagine: «nel passato egli cerca un esempio in cui rinchiudersi come un palombaro nel suo scafandro onde, così deformato e nello stesso tempo protetto, immergersi poi nel problema del presente» (‘Freud e l’avvenire’, ed. it. in ‘Nobiltà dello spirito’, Milano 1997, p.1397). E’ dunque un vivere che potrebbe definirsi arcaicizzante salvo specificare subito che nasce dal bisogno di legittimare l’esistenza e quindi la continuità nel tempo storico.
Perché allora quella di Pasolini resta soltanto, come abbiamo detto, un’aspirazione? La voce di Pasolini, intendiamo non soltanto la sua ‘voce poetica’, anche quella propriamente fisica, che proveniva dal suo corpo e che con esso pativa affetti e mutamenti, riusciva attraverso questa immagine del passato ad alimentare quella tonalità emotiva definibile variamente come speranza, positività e che sempre, comunque, nel corso progrediente della storia doveva esser vissuta?


Pasolini era un comunista, questa definizione di sé la troviamo dovunque nei suoi scritti senza alcun discrimine cronologico. Ma detto questo occorre subito aggiungere che egli era al contempo critico inflessibile di quei concetti di progresso e sviluppo sui quali l’ideologia comunista, affidando la sua verità alla storia, si costruisce.
Pasolini era un comunista ma lo era in maniera contraddittoria e dunque, usando una sua espressione, “scandalosa”. Lo scandalo nasceva non dall’intelligenza, non da quel razionalismo che fu suo e capace di analizzare la realtà del nostro paese senza infingimenti, in maniera persino spietata e, per questo, accolto talvolta come una violenza. Lo scandalo nasceva dalla forza degli istinti, dalle viscere e quindi dall’amore. Lo scandalo era nella verità che per Pasolini la classe rivoluzionaria valeva come una categoria etica o estetica ma non economica. «…è per me religione/ la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la natura, non la sua/ coscienza» (Le Ceneri di Gramsci, IV, 9-12). Soltanto in questo modo può esser capito il tono apocalittico delle sue analisi su quella nuova forma di dittatura che è stata ed è l’Italia consumista a cominciare dalla fine degli anni ’60. Questa infatti lo angosciava perché aveva di fatto distrutto il sottoproletariato, distruggendone i valori ( e non sottraendolo alla miseria). In questo modo non era più possibile contrapporre al tempo della storia borghese quello mitico del popolo: «Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo. Tale unificazione è avvenuta sotto il segno della civiltà dei consumi: dello ‘sviluppo’» (‘Lettere Luterane’, Torino 1976, p.11). Queste sono analisi che nella loro struttura formale e argomentativa potrebbero tutte esser ricondotte a qualche già acquisito discorso sociologico o antropologico, tutte mostrate come la ripetizione di qualcosa di già detto ma pur tuttavia, così procedendo, non si coglierebbe l’essenziale.
«Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente tale cataclisma che almeno per ora è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Poiché la mia vita sociale e borghese si esaurisce, nel lavoro, la mia vita sociale in genere dipende integralmente da ciò che è la gente» (‘Scritti corsari’, Garzanti, 7ed., p.107). La distinzione che Pasolini qui pone fra la sua attività di intellettuale e la sua vita sociale in genere è l’espressione di una lacerazione di cui ne risentivano entrambi i termini che entravano in conflitto. L’intellettuale come tale – Pasolini lo sapeva bene - è un borghese. Partecipa dunque di quella classe che ha il potere e che è responsabile lungo tutto il corso della storia moderna, dell’esistenza di dominanti e dominati.
In una lettera aperta ad Italo Calvino del ’74 (ibidem, p.52) si può leggere allora: «io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché è in parte anche la mia vita. Lettere, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io come il Dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e spingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio». Questo mondo, qui la ragione dello scandalo, se da un lato era amato, ed in maniera abbiamo detto viscerale, profonda, commovente, disperata, dall’altro aveva oramai perso qualsiasi potenzialità rivoluzionaria. Poteva soltanto esser l’oggetto di un rimpianto o, magari, poteva esser cercato fuori dall’Italia, nei paesi del Terzo Mondo dove il poeta riconosceva ancora lontani, seppur per poco, i segni dello Sviluppo e dove spesso amava trascorrere lunghi periodi. Insomma il punto è che in Pasolini, politica e letteratura vivevano un dissidio inconciliabile. E’ come se l’uomo greco si fosse trovato nel breve volger di anni, improvvisamente privo di quell’esistenza che il suo universo mitologico avrebbe dovuto legittimare. Ma chi aveva ucciso gli antichi Dei? Oppure, immaginando che a questo punto risuoni quella nenia schilleriana dove si piange la caducità della bellezza, che cosa aveva reso l’amore verso quel mondo impossibile e perciò drammatico?


Ricordiamo come il poeta aveva visto dissolversi quel ‘pulviscolo d’oro’ che era Marilyn Monroe: la bellezza rapita soggiace alle vicende corrotte e corruttrici del tempo storico, la storia è «destino di morte» (v.49). La Storia doveva esser per Pasolini qualcosa di simile al fantasma del padre per Amleto, un presente da esorcizzare e poi, allo stesso tempo, un passato da vendicare.
Nel 1973 Pasolini recensisce per ‘Il Tempo’ l’unico libro di racconti di Sandro Penna: «Un po’ di febbre» (‘Scritti corsari’, cit., p.143 sgg.). Il mondo evocato in queste piccole prose, quello dell’Italia durante il periodo fascista, è fatto di città con grandi viali, palazzoni popolari e poi subito distese dominate dal verde. E ancora ragazzi dai vestiti rozzi e poveri ma dalla grande volontà di vita e tutto, per un periodo storico così tetro, paradossalmente «illuminato dalla grazia». Pasolini leggendo il libro e descrivendocelo lascia libera la voce della sua commozione e del suo sconvolgimento: «il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre». Il piacere può allora sopravvivere soltanto nella finzione letteraria, come una cosa morta e insieme eterna. Può persino suggerire l’illusione che quello non era un mondo ma ‘il’ mondo e così il libro «Un po’ di febbre» si trasforma in qualcos’altro «tanto che è difficile parlare di ‘Un po’ di febbre’ come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato». E’ singolare allora che un intellettuale così consapevole del valore civile della letteratura non metta in questione, recensendo il libro di Penna, la voluta omissione del fascismo ossia di quel fenomeno che in quanto totalitario pervase la storia di quegli anni: «Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l’ha considerata esistente». Questa omissione viene invece intesa nei termini di una condanna «assoluta, implacabile, senza appello».
Ma perché dunque Pasolini, pur essendo un poeta civile, poteva intenderla in questa maniera? Se la poesia civile ha il suo compimento nella critica dell’esistente, non inteso in termini assoluti, ma quello specifico della realtà storica in cui il letterato vive, dove trovare il valore della critica in una operazione letteraria come quella compiuta allora da Sandro Penna?
Il punto è che per Pasolini la realtà storica del fascismo fu essenzialmente indifferente alla coscienza degli individui, un involucro incapace di mutare il mondo rurale nei suoi valori e di dissolverne quel tempo irraggiungibile dalla storia borghese. Il fascismo era quindi del tutto trascurabile rispetto all’ideale realtà della poesia civile. In questo senso ‘letteratura civile’ assume un significato nuovo, non è l’espressione di un impegno politico volto a educare e a far maturare (magari turbando ma comunque sempre con un ideale pedagogico) i cittadini, né l’esaltazione di un gruppo o una classe per il suo valore all’interno della cittadinanza. Letteratura o poesia civile è l’affermazione di ciò che è degno, di ciò che esprime la dignità dell’uomo e questa dignità oscilla continuamente fra preistoria e storia, comunque non rientra nel tempo dello Sviluppo. Significa essenzialmente povertà e umiltà (etimologicamente: «fedele alla terra»). La critica politica è soltanto indiretta, presuppone la consapevolezza da parte del lettore di ciò da cui quel frammento di realtà ‘illuminato dalla grazia’ si distacca. Ecco perché rispetto al fascismo Penna può esser considerato persino crudele: «non ha pietà per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della ‘realtà’, figurarsi per ciò che ne è fuori o contro». Sono parole rispetto alle quali al lettore è richiesto di sostare e di valutarle rispetto al loro giusto peso.


Il sentimento poetico, la matrice della poesia di Pasolini rimandano direttamente alla critica che egli fece dell’Italia degli anni ’70, al riconoscimento dell’inutilità di distinzioni quali quelle fra fascismo ed antifascismo, alla rabbia degli ‘scritti corsari’ degli ultimi anni della sua vita, al furore icastico del film Salò. Quest’ultima opera può esser assunta come un contrario simmetrico di ‘Un po’ di febbre’ secondo quanto abbiamo finora detto. Così come Penna aveva potuto ignorare il fascismo e per questo spingere la critica fino alla dissoluzione del suo oggetto offrendoci quel mondo attraverso l’idillio, allo stesso modo in Salò non è la realtà del fascismo che si rappresenta, ma appunto la sua irrealtà.
A supportare quest’affermazione all’apparenza paradossale, vale ricordare il commento che di quel film diede Primo Levi in un’intervista del 1986: «mi è sembrato un rigurgito, l’opera di un uomo disperato, infatti Pisolini era disperato. E io non amo la disperazione. Mi pare che la disperazione paralizzi. Credo che sia un film che ha nuociuto, questo…non mi ricordo neanche più il titolo esatto. Credo di aver rimosso. Non era così, non è vero che fosse così. Questa ferocia totale non è esistita. C’era un’ampia zona grigia . Anzi era quasi integrale. Allora eravamo quasi tutti grigi» (‘Conversazioni e interviste 1963-1987’, Torino 1997, p.251).
Perché Salò è fatto soltanto da oggetti dal colore accecante (vedi la descrizione di certe tazzine stile Bauhaus adoperate per il film: «non potevo guardarle senza provare una fitta al cuore, seguita da un profondo malessere», ‘Lettere Luterane’, p.43), che sembrano quasi voler condensare nell’aspetto la violenza e la barbarie? Perché non ci sono grigi?
Se Pasolini fosse riuscito a darci un ritratto di quella realtà cui Levi accenna non avrebbe più retto la distinzione – così come era stata da lui posta – fra vecchio e nuovo fascismo. La violenza si dovrebbe dire semiotica di tutto ciò che entra come presenza in Salò sta lì a indicarci che il fascismo non fu in grado di intaccare quella dignità e bellezza degli uomini che lui amava e che lo Sviluppo, nel suo giudizio, avrebbe distrutto.


Le considerazioni sin qui svolte sembrerebbero preludere ad un esito unico, a riconoscere come soverchianti nell’esperienza artistica di Pasolini le tonalità cupe del rimpianto e della disperazione, sostenute con l’animo come di un martire e per questo racchiuse nella esemplarità del vissuto più personale ed intimo. Di fronte ad esse ci si è di solito posti trasformando Pasolini in un paradossale santo laico, facendo della sua tragica esistenza l’oggetto di un atteggiamento pietoso, che lui avrebbe giudicato ‘tollerante’, e per questo ipocrita e fondamentalmente volto alla rimozione.
Qui a tal proposito, si vorrebbe arricchire l’immagine del poeta con un ultimo carattere, rispetto al quale – così si ritiene – non soltanto quella risulterebbe maggiormente compiuta, ma noi allo stesso tempo ne ricaveremmo l’idea di un modo d’essere che al di là di ogni rivoluzione di classe, con più forza e forse sofferenza potrebbe guidarci in quella che Montale dice essere la fatica del quotidiano rinascere sempre uguali.
Nell’agosto del ’75 su ‘Il Mondo’, Pasolini si occupa di una vicenda di cronaca riguardante una guardia di pubblica sicurezza e immagina la possibilità di trarne il soggetto per un film (‘Lettere Luterane’, pp.99 sgg.). La storia è quella di un giovane poliziotto uccisosi dopo che il detenuto che gli era stato affidato era fuggito approfittando della sua fiducia. Tale poliziotto era un ragazzo educato nella famiglia del Sud dalla quale proveniva, al valore dell’ «obbedienza». Obbedienza è fedeltà alle leggi – quelle che per scelta ci si dà o quelle cui si sceglie di sottomettersi - ed intransigenza verso se stessi, capacità di stringere un patto sulla base dei sentimenti, responsabilità e coraggio, non altruismo ma rispetto, libertà che si compie nel difendere una forma non disobbedienza. Tutto questo non importa se sia stato poi come rubato, cristallizzato, mistificato dalla cultura clerico-fascista o, piuttosto, importa nella misura in cui contro una obbedienza retorica è possibile ancora commuoversi «ed ammirare la ‘forma’ dell’obbedienza» (ibidem, p.106).
Questo era per Pasolini non una mitologia, ma il significato più profondo che si può dare alla parola cultura: «perché la cultura – in senso specifico o, meglio, classista – è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso» (ibidem, p. 86). Per essa c’è bisogno di una vitalità – non importa quanto oscura o lacerata – ma purchè sia accanita, fino a cercare il possesso di ciò che può rendere chi si incammina per questa strada una sua felice occasione.


PUBBLICATO IL : 18-06-2006


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