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Tempo, musica, immagine Due contributi su Robert Cahen
di Giorgio Baratta e Marco Maria Gazzano

 

 

 

Tempo come musica
di Giorgio Baratta

Un grande videoartista ha dedicato la sua opera alla relazione-continuità-unità-differenziazione tra tempo e movimento nella e attraverso la “immagine”: Robert Cahen. Il suo videocinema è figlio della musica concreta di Pierre Schaeffer. “Musica con gli occhi” – diceva Ejzenstejn. “Immagini con le orecchie” – potrebbe dire Cahen. Il suono-rumore è qui come una cellula germinale del gesto cinematografico che dalle orecchie si irradia nella sinestesia dei sensi, producendo ciò che Michel Chion (collaboratore musicale di Cahen) chiama la “audio-logo-visione”: che è il contrario, o il rovesciamento, della “immagine sonora pura” - “disgiunta” dalla “immagine visiva” - che Deleuze ritrova nel cinema di Duras e di Straub.
Il suono-rumore di Cahen (che per lo più rinuncia alla parola), nella sua dilatazione nella immagine sinestetica, riduce la distanza tra l’esteriorità-azione del movimento e la interiorità-passione del tempo, tra l’attualità del presente e la virtualità del passato-futuro, tra l’evidenza quasi hopperiana della luce-colore e le sfumature-vibrazioni di un gioco audiovisivo dai mille riflessi, tra la persistenza di alcuni visioni-suoni lunghi sostenuti e l’immediatezza di certi lampi-rumori… Stiamo entrando nel mondo incantato e incantante di Hong-Kong-Song o in quello favolistico di Juste le temps (sono solo due esempi).
Juste le temps è esemplare. Sandra Lischi ha efficacemente descritto “il respiro del tempo” nel cinema di Cahen, che non solo ha contribuito e contribuisce a demolire definitivamente i confini tra “cinema” e “video”, ma consente al cinema, attraverso le tecnologie e i linguaggi elettronici, di  stabilire un contatto-contaminazione con altre arti visive (pittura, scultura).[ Sandra Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, ETS Editrice, Pisa, 1991.] Si può tentare di sintetizzare l’idea di Juste le temps come un viaggio di andata e ritorno dalla materia-luce (ricordando Deleuze) alla coscienza-tempo e viceversa; o forse anche come un Anti-Proust: il tempo della coscienza è visto attraverso il movimento del mondo esterno, non viceversa.
Juste le temps è un film di fiction, certo un po’ misteriosa. C’è una story, eventuale e inessenziale: un possibile amore nasce nel corso di un viaggio in treno. (Il viaggio è centrale nel cinema di Cahen: cinema e viaggio, cinema è viaggio.) Hong-Kong-Song è invece un documentario elettronico sui suoni e le immagini di una metropoli. Affiora alla mente, guardando-sentendo-immaginando il volto magico evanescente della ragazza “protagonista” di questo cineviaggio (cinesaggio), un’espressione pregnante di Deleuze: “l’immagine allo specchio”. Forse questo specchio siamo ognuno di noi?
Jean-Marie Straub disse una volta che un film finito è sempre il documentario delle sue riprese. L’immagine, ri-presa dalla realtà, si rispecchia nel film. Quello di Straub è e vuole essere uno specchio fedele. Quello di Cahen è deformante. Opera qui una differenza essenziale e invalicabile, a livello di montaggio soprattutto, tra cinema ottico e cinema elettronico: differenza che è articolazione interna a un’unità essenziale.
L’elaborazione elettronica dell’immagine ripresa straripa sulla ripresa stessa, producendo una confusione affascinante inquietante tra realtà e immagine della ri-presa. Immagine allo specchio: ma che cosa si specchia o si rispecchia, la realtà o l’immagine? C’è ancora differenza tra immagine e realtà? Immagine allo specchio o immagine-specchio? Se il dispositivo approntato da Cahen è talmente sofisticato da consentire un travaso dallo specchio del suo cinema a quello della nostra coscienza, non si corre il rischio di annullare la diversità e la distanza tra noi e il mondo esterno? C’è nuovamente una minaccia – per quanto dolce e  lusingante – di solipsismo?
C’è un fondo misterioso ed enigmatico nel cinema di Cahen, nel suo approccio alla realtà. Ma c’è una realtà? E’ la domanda che sorge improvvisa e perturbante quando viaggiamo con lui. E’ come se il pensiero critico (Cahen è non solo un osservatore, ma un fine critico del mondo che lo circonda) si fosse tradotto in modo definitivo e quindi eccessivo nell’immaginazione critica.
Il mistero della realtà, suggerito da Cahen, non ha tuttavia nulla di mistico o di irrazionale: scaturisce dal dubbio iperbolico che la realtà stessa propone e impone (la realtà sociale) nel correre oggi il rischio di venir fagocitata dall’immagine.
Cahen lavora con pazienza analitica (la pazienza è virtù rivoluzionaria…) sullo statuto dell’immagine: sui nessi tra vedere, ascoltare e pensare, e vorrei dire anche sul difficile equilibrio che la audio-logo-visione istituisce nel mondo dei sensi. Che cosa avviene dell’odorare, del gustare e soprattutto del toccare se si produce un’alleanza egemonica (come nel cinema) tra vedere e ascoltare? L’immagine sinestetica di Cahen è fortemente problematica. La sua forza e il suo merito stanno nella capacità di rinviare costantemente oltre se stessa: al misterioso mondo della realtà. Quando un film di Cahen giunge al termine, si sente il mondo vibrare.

 

 

Suono Musica Immagine
di Marco Maria Gazzano

 

«Contrariamente alle apparenze» – ha notato quasi dieci anni fa Jean-Paul Fargier – «in Cahen voi non avete, da una parte la musica da ascoltare e, dall’altra, le immagini da vedere. Ma due tipi diversi di materia che si comprendono: una materia sonora e una materia visiva che si comprendono tra esse». E ancora – era viva l’impressione lasciata dalla straordinaria impresa del Boulez-Répons: «Paradossalmente, è tagliando il loro (legame con il) suono che le immagini dei musicisti diventano veramente sonore».
Se infatti Cahen ha saputo dar attualità e concretezza alle intuizioni piú avanzate delle avanguardie padroneggiando l’esperienza storica del cinema e radicalizzandone le promesse nelle peculiarità dell’elettronica, è intrecciando la dimensione del visibile con quella del sonoro (rinunciando per di piú all’attualizzazione del tempo indotta dal dialogo, utilizzando la parola con grande parsimonia e sempre “fuori campo”) che egli ottiene un ulteriore risultato. In opere come L’entr’aperçu o Juste le temps, Boulez-Répons e Solo, Cartes postales e Honk Kong Song o l’ultima Voyage d’hiver, la relazione tra le varie colonne espressive messa in campo da Cahen rende finalmente l’antica utopia cinematografica della “audio-visione” – come Michel Chion ha recentemente indicato, un rapporto pertinente tra suono, musica e immagine – a uno dei suoi possibili, ma piú maturi e coerenti approdi. Una considerazione che deve, tra l’altro, tener conto della relazione – anch’essa ben padroneggiata – con il colore, del quale, con effetti oscilloscopici o di numerizzazione di immagini analogiche si individua non solo la “sonorità” e a volte la “musicalità” ma, nella “grana”, nella tessitura stessa del colore, la corporeità. Fin da Juste le temps, «offro all’immagine una sorta di vita interiore, certamente artificiale poiché non si vede questo genere di colore nella natura, ma quanto mai adeguata a tradurre un’impressione inaspettata di trascendenza».
E non è indifferente che a tali risultati Cahen sia pervenuto dalla scuola della musica concreta: è lì che ha imparato a riconoscere come del tutto analogo il trattamento elettronico di un suono e l’elaborazione tecnica di una immagine elettronica; è da quella esperienza che ha imparato a tradurre concettualmente – dal suono all’immagine – effetti come quello di phasing (scivolamento di due suoni identici e quasi sovrapposti) e altri quali sfasature, persistenze, stratificazioni, alterazioni, ricoloriture, interruzioni, decontestualizzazioni: fondamenti essenziali del suo ralenti e delle sue dissolvenze incrociate. Ma non è neppure indifferente notare come Germaine Dulac nei primi anni Venti ipotizzasse (al futuro) una «cinégraphie intégrale» proprio come «orchestrazione di ritmi, linee e forme in movimento»; o che Pirandello individuasse nel «linguaggio visibile della musica» in grado di «sommuovere il subcosciente che è in tutti noi con immagini impensate, mutevoli come nei sogni […] raccontate col movimento stesso del ritmo musicale», il piú alto grado di maturità espressiva auspicabile in «cinematografia».






PUBBLICATO IL : 10-01-2006


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