Il tema che rimane costantemente sullo sfondo delle tre interviste qui presentate 
  - con le quali si dà avvio sul Giornaledifilosofia.net ad un 
  percorso di riflessione a più voci sul tema “la politica al tempo 
  della globalizzazione”- non è altro che una presa d’atto, 
  tutt’altro che nuova: gli spazi e i tempi della politica, nelle società 
  odierne e su scala globale, sono visibilmente in crisi. Se si assume per politica 
  quanto si è venuto concretizzando nelle esperienze più mature 
  delle democrazie novecentesche – dove, rischiando di semplificare, essa 
  è stata una dimensione dell’accadere sociale che ha avuto come 
  proprio livello di condensazione principale le grandi organizzazioni di massa 
  come i partiti e i sindacati, il quasi esclusivo spazio di esercizio in territori 
  circoscritti dai confini nazionali e i propri tempi scanditi dalle procedure 
  delle democrazie parlamentari. E se ci si riferisce alle due funzioni fondamentali nelle quali in passato si è concretizzata la politica e la sua opera: da una 
  parte la formazione, l’espressione e la rappresentazione sulla scena pubblica 
  di interessi e valori collettivi; dall’altra la mediazione, il confronto 
  e la traduzione di quegli interessi e di quei valori in decisioni aventi la 
  capacità di produrre nuove normazioni di carattere coercitivo. 
  La presa d’atto che rimane implicitamente sullo sfondo di queste interviste 
  è che questa politica riesce a consegnarsi alla rappresentazione pubblica 
  quasi ormai solo sotto le forme della difficoltà e della debolezza, del 
  ritardo e dell’inadeguatezza, al limite sotto le vesti della sua semplice 
  assenza o più o meno colpevole mancanza; i tempi e i luoghi delle sue 
  decisioni avendo perso gran parte del loro grado di realtà, e la sua 
  capacità di intercettare bisogni, riconoscere interessi e offrire orizzonti 
  di trasformazione mobilitanti apparendo seriamente pregiudicata.  
  Stretta tra globalizzazione dei processi produttivi e segmentazione del lavoro, 
  tra de-nazionalizzazione e atomizzazione del corpo sociale, tra diffusione delle 
  fonti normative e concentrazione dei poteri economici, la sensazione che attraversa 
  le interviste è che la politica oggi si presenti spesso semplicemente 
  come l’immagine sfocata di tempi trascorsi, mimati a volte in forme caricaturali, 
  dietro le quali si nasconde spesso la semplice realtà di un’incapacità 
  radicale ad accordarsi con i movimenti di un tempo in cambiamento. Quasi sempre 
  inseguito senza un orientamento proprio e autonome griglie interpretative.  
  Se si è tentato di leggere in questi fenomeni i segni di un tramonto 
  destinale della politica, le interviste qui presentate, al contrario, 
  partono dall’assunto che debbano essere interpretati, più semplicemente, 
  come il segnale che sia necessario oggi sottoporre la politica ad un processo 
  di radicale riorientamento culturale. 
  Come affermano tanto Mario Pianta quanto Saskia Sassen, nelle esperienze più 
  compiute delle democrazie nazionali, l’equilibrio virtuoso venutosi a 
  creare tra politica e dimensione complessiva dell’accadere sociale si 
  reggeva spesso sul dato di fatto che la società nel suo insieme riusciva 
  a restituire di sé un’immagine dai contorni maggiormente stabili 
  e netti rispetto al presente e, con un più elevato grado di definizione, 
  consentiva inoltre di riconoscere le geografie dei soggetti sociali e degli 
  interessi di cui essi erano portatori.  
  Oltre a questo dato di fatto, si potrebbe aggiungere che ad animare la politica 
  del passato vi era spesso la fiducia che la dinamica sociale, messa in movimento 
  dai processi di produzione capitalistici nel suo stadio di sviluppo fordista, 
  generasse da sé, sotto forma di aggregazioni sociali createsi intorno 
  ad interessi non riconosciuti, i propri anticorpi alle polarizzazioni e alle 
  disuguaglianze prodotte dallo sviluppo economico. Fiducia che aveva come suo 
  naturale corollario l’idea secondo cui la politica stessa dovesse essere 
  un ambito distinto dalla società e che nella società stessa fosse 
  da far valere una ben marcata divisione di ruoli: alle rappresentanze sociali 
  il compito di portare ad espressione gli interessi a partire dai luoghi in cui 
  essi si formano e si cristallizzano e ad un ceto distinto il compito di tradurre 
  quegli stessi interessi in programmi e decisioni, entrando così nel vivo 
  della vera e propria battaglia politica.  
  L’assunto di partenza delle tre interviste è allora più 
  concretamente che questa forma mentis è oggi difficilmente perseguibile 
  per un dato storico e oggettivo: la dinamica della globalizzazione, infatti, 
  ben lungi dall’aggregare, seppure a contrario, soggetti collettivi, 
  sta creando una scomposizione e moltiplicazione senza precedenti degli aggregati 
  sociali in cui gli interessi giungono ad auto-rappresentazione o, travolti e 
  sommersi, non giungono a rappresentazione affatto. E non lascia nemmeno presagire 
  come da questa molteplicità si possano ricostruire politicamente soggetti 
  unitari in grado di imitare le forme e i modelli organizzativi del Novecento. 
   
  I piani che nelle interviste vengono richiamati per articolare questo discorso 
  sono di tre tipi. Il primo è di taglio sociologico: nelle interviste 
  viene richiamata la parabola di consumazione dei vincoli di socializzazione 
  tradizionale che si sta attuando nel Sud del mondo, dove, come ricorda Pianta, 
  l’ingresso nei mercati globalizzati sta disarticolando repentinamente 
  i tessuti delle comunità locali. Il secondo è di natura strettamente 
  economica: le trasformazioni degli assetti produttivi avviate grazie all’introduzione 
  delle nuove tecnologie e l’implementazione di politiche di deregolamentazione 
  e di compressione dei diritti sociali, con i loro effetti a catena di segmentazione 
  e scomposizione del mondo del lavoro. Il terzo è infine di natura culturale, 
  in quanto vengono richiamati i fenomeni di sovrapposizione, contaminazione e 
  riconfigurazione degli immaginari simbolici indotti dal potere di diffusione 
  e di comunicazione globali dei vecchi e nuovi media, nonché i flussi 
  di migrazioni di massa incrementatisi negli ultimi anni, di cui uno degli effetti 
  più vistosi, nominato da Saskia Sassen, è quello della “perdita 
  di forza agglutinante verso il centro”, venutasi a creare con la crisi 
  simbolica, oltre che politica, dello Stato-nazione. 
  Tali piani di discorso tendono a mettere in evidenza come le trasformazioni 
  prodotte dai processi di globalizzazione economica, finanziaria, tecnologica 
  e culturale sottraggono il terreno a vecchi motori di aggregazione collettiva 
  senza restituirne di nuovi; e, soprattutto, intervengono nel cuore di meccanismi 
  centrali di formazione delle identità: da una parte rendendole più 
  fluide e recettive, dall’altra, però, dematerializzandole o semplicemente 
  annientandole, creando dei vuoti e delle inedite mancanze.  
  Il punto su cui da ultimo sembrano incontrarsi le argomentazioni sviluppate 
  nelle interviste quindi è che, insieme a esclusione sociale e a enormi 
  disuguaglianze economiche, le trasformazioni oggi in atto stanno sollevando 
  inedite domande di riconoscimento e nuovi bisogni di identificazione; 
  bisogni che, nonostante siano immateriali e non sempre univocamente riconducibili 
  ad interessi, sono a ben guardare decisivi oggi proprio per la partita della 
  politica. 
  Deve essere ricondotto a ciò il motivo per cui, alla domanda sulle prospettive 
  future della politica, l’attenzione degli intervistati viene a spostarsi 
  automaticamente, anche se con sfumature diverse, su terreni tradizionalmente 
  considerati pre-politici. Come a registrare il fatto che, venuti meno molti 
  dei riferimenti giuridici, sociali, economici, culturali del passato, a balzare 
  in primo piano non possono non essere i luoghi dove vengono a generarsi i nuovi 
  bisogni di riconoscimento e identificazione. Proprio quanto non può essere 
  più considerato come base di partenza per programmi di aggregazione elaborati 
  ad un livello meramente politico, proprio ciò in cui l’effetto 
  spaesante della perdita di garanzie ed assicurazioni dischiude soglie antropologiche 
  di apertura fatte di nuovi bisogni, di movimentazione continua di identità, 
  ma anche di esposizione alla volubilità, al rischio e, ovviamente, alla 
  manipolazione e al controllo.  
  Nel corso delle interviste vengono richiamati in particolare due fronti nei 
  quali quei bisogni, invece di essere riconosciuti, stanno trovando pericolosamente 
  la strada di quelli che potrebbero essere definiti processi etero-diretti di 
  sublimazione e di rimozione.  
  Infatti, da una parte viene fatta menzione del potere di disturbo sui meccanismi 
  di formazione dell’immaginario detenuto dal mezzo televisivo e, più 
  in generale, dall’industria dilagante dell’entertainment 
  e dello svago. A conferma della tesi secondo cui le forme della produzione capitalistica 
  tendono oggi a colonizzare, mercificandoli e sottraendoli al loro naturale e 
  libero sviluppo, processi essenziali di socializzazione e di espressione umana. 
  Vendendo esperienze e stili di vita più che semplici merci tangibili, 
  s’istituisce un processo nel quale la soddisfazione mediata dal denaro 
  dei nuovi bisogni immateriali rende il loro appagamento relazionale sempre più 
  lontano. 
  D’altra parte si fa riferimento al fenomeno per cui soggetti che vogliono 
  sottrarsi agli invasivi processi di mercificazione economica trovano sempre 
  più risposte in programmi anti-universalistici di critica della Modernità, 
  che riescono ad occupare gli spazi gestiti in passato dalle forme della politica 
  democratica, veicolando modelli di socializzazione identitaria e puntando a 
  ridefinire, intervenendo direttamente nella sfera politica, la griglia dei diritti 
  civili normata nei decenni trascorsi (su questo si veda quanto afferma Micheal 
  Albert sul nuovo fondamentalismo religioso dell’amministrazione Bush e 
  Mario Pianta sulle vicende relative all’elezione del nuovo papa). Modelli 
  che, sgravando gli individui dal peso di difficili scelte esistenziali, hanno 
  il vantaggio di fornire contesti di rassicurazione e appartenenza comunitaria. 
  La conseguenza che è possibile trarre da tali argomentazioni indica come 
  i problemi che la politica si trova oggi costretta a sciogliere, per riuscire 
  a stare al passo con tempi ed esigenze mutati, non possono essere più 
  riducibili a quelli della elaborazione di contenuti programmatici e della costruzione 
  di ambiti di partecipazione pubblica, finalizzati a far sì che ciascun 
  singolo sia facilitato a riconoscere l’interesse che, in quanto membro 
  di un collettivo, gli è già proprio. Ben al di là 
  di questo, la sua possibilità di riprendere terreno è legata alla 
  capacità di mostrare attenzione alle domande di riconoscimento e, quindi, 
  di senso delle particolarità individuali come tali. Quelle domande che, 
  appena emerse, si stanno spegnendo nelle nuove merci immateriali da una parte 
  e nelle derive neo-fondamentalistiche dall’altra. 
  A conferma di ciò viene richiamato il fenomeno sul quale in ultima analisi 
  maggiormente vengono interpellati i tre intervistati: l’irruzione sulla 
  scena pubblica globale registratasi negli ultimi anni di nuove forme di impegno 
  pubblico, giocate pressoché per intero al di fuori dei tradizionali canali 
  di mediazione politica. Forme che, se hanno una radice storica in quei movimenti 
  contemporaneamente volti all’ottenimento di risultati concreti e alla 
  trasformazione delle strutture della mentalità, come il femminismo, l’ambientalismo, 
  il pacifismo, come ricorda Mario Pianta, rappresentano d’altro canto una 
  netta cesura rispetto al passato per il modello di interdipendenza a rete tra 
  dimensione locale e dimensione globale che riescono a mettere in atto, facendo 
  uso dei mezzi tecnologici della nuova economia, ribaltandoli però di 
  senso rispetto alla loro direzione di utilizzo originaria. Forme di partecipazione 
  e impegno politico, inoltre, meno astratte rispetto a quelle sperimentate nei 
  partiti e dove il singolo individuo riesce a trovare più risposte ai 
  bisogni e ai desideri, spesso frammentati anche al proprio interno, di identificazione 
  sociale, di impegno etico e di partecipazione e confronto pubblico, avendo la 
  possibilità di inscrivere quegli stessi in un orizzonte che da quella 
  del vicinato, saltando la dimensione nazionale, raggiunge molto spesso direttamente 
  quella globale. Contesti d’altro lato particolarmente fragili e, se isolati 
  e non sorretti da risposte istituzionali, alla lunga destinati al fallimento. 
   
  Il messaggio che in conclusione sembrano voler lanciare gli intervistati è 
  dunque che una politica in grado, tramite un nuovo impegno per i diritti e per 
  la democrazia, di stare all’altezza della sfida lanciata dalle nuove domande 
  di liberazione individuale da una parte e di riconoscimento economico-sociale 
  e protezione solidale dall’altra, emerse con l’avanzata dei processi 
  di globalizzazione, non può essere che una politica in grado di entrare 
  in un rapporto di tensione oppositiva con due fondamentali principi guida del 
  suo recente passato.  
  Il primo è l’idea, assunta quasi come una legge di natura nel Novecento, 
  secondo la quale sul banco degli interessi collettivi e dei principi di giustizia 
  possano esser sacrificati i valori morali e i mezzi dell’agire pubblico. 
  Una politica capace di entrare sul terreno aspro, ma sempre più decisivo, 
  della costruzione, del confronto, dello scontro e del tentativo di mediazione 
  tra identità e valori dovrà essere costretta a sperimentare, come 
  afferma Mario Pianta, che per raggiungere l’obiettivo della giustizia 
  sociale, riaggregando e portando ad espressione gli interessi esclusi dai meccanismi 
  di redistribuzione della ricchezza, questi stessi interessi, di per sé 
  soli, faranno paradossalmente sempre più fatica a trasformarsi in 
  canali di mobilitazione e partecipazione. La testimonianza che saprà 
  dare di sé e la promozione che saprà risvegliare nel corpo sociale 
  di prassi etiche e stili di vita alternativi costituiranno uno dei principali 
  volani con cui essa potrà ri-identificare e ri-aggregare.  
  Il secondo è quella convinzione che ha attraversato come una bussola 
  le forme della politica nel secolo trascorso, la convinzione secondo la quale 
  siano da perseguire ad ogni costo l’unità e la centralità 
  come ultime forme della propria organizzazione e auto-rappresentazione. Non 
  rinunciando alla sua vocazione alla sintesi, come afferma Saskia Sassen, la 
  politica dovrà essere costretta ad accettare il fatto che il potere - 
  a tutti i livelli, locale, nazionale, regionale e globale - sarà in futuro 
  sempre più funzione diretta della capacità di creare reti e stabilire 
  connessioni tra realtà molteplici, piuttosto che capacità di conquistare 
  un palazzo che, come unico luogo del potere stesso, non esiste più.  
  Come si potrebbe dire in altro modo: accettare il fatto che quell’universale 
  che, sotto la figura della classe si era pensato di riconoscere come via d’uscita 
  dal dominio, è qualcosa di non dato, ma da costruire a partire dall’universale 
  riconoscimento degli irriducibili bisogni e delle tante domande delle molteplici 
  persone, vedendo in questo stesso riconoscimento la strada principale 
  per far sì che al centro dell’agenda collettiva possa ritornare 
  il tema dell’emancipazione umana. 
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