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Filosofia in contrappunto Intervista a Giorgio Baratta
di Sandra Dugo

 

1. Sottolineando il “carattere dialogico” del pensiero di Gramsci, Lei ne propone uno sviluppo nella direzione di quello che Edward Said chiamava il “contrappunto” tra culture diverse. Lei sostiene la necessità di far viaggiare Gramsci, più in generale la cultura europea “fuori dell’Europa”. Si tratta, considerando insieme questi due motivi, di una stessa esigenza?

Valentino Gerratana ha per primo evidenziato la presenza ideale di un interlocutore attivo nei monologhi carcerari dei Quaderni: un tema ripreso e sviluppato da Francisco Buey. A livello teorico questo stile dialogico del pensiero si esprime nella teoria della “traducibilità” dei linguaggi culturali e scientifici, che sempre più intriga ma fa anche impazzire gli studiosi di Gramsci. Sia “dialogo” che “traducibilità” in realtà travalicano l’ambito del discorso, scritto o parlato. Forse non sono che metafore di ciò che sta soprattutto a cuore a Gramsci: l’unificazione, in primo luogo culturale, del genere umano, che egli vede iscritta oggettivamente come tendenza inarrestabile nel processo storico, e che si manifesta in modo contraddittorio. Americanismo e imperialismo, per un verso, comunismo e nuovo umanesimo o nuovo senso comune, per altro verso, sono le due facce opposte e conflittuali di questa tendenza. Da che cosa deriva e in che cosa essa consiste? Con quali strumenti teorici e politici la si deve affrontare da sinistra? Alla prima domanda Gramsci risponde con un grandioso sforzo analitico ed empirico di conoscenza, che egli chiama “filologia vivente” della realtà, cioè l’esame delle capillari, complesse connessioni e relazionalità che tessono la trama della contemporaneità (nazionale-internazionale). Alla scarsità di informazioni e strumenti egli reagisce attivando la sua profonda cultura storica e sociale. La seconda domanda lo stimola a dispiegare in molteplici direzioni la categoria di “egemonia” che esprime un’idea di politica decisamente innovativa rispetto alla tradizione marxista e socialista.
Edward Said non ha avuto modo di studiare a fondo l’opera di Gramsci. Ne ha messo però a frutto alcuni motivi essenziali, a cominciare proprio dal concetto di unificazione del genere umano che avrebbe spinto Gramsci ad approfondire la dimensione spaziale-territoriale dell’analisi, in senso sia economico-sociale che politico-culturale, fino a gettare le basi di un pensiero eminentemente, strutturalmente “comparativo”. Gramsci attraversa e indaga una terra nuova, fonte insieme di unità e di conflitto, che nasce, per usare le parole di Gerratana, dalla confluenza di “internazionalismo nella vita economica e nazionalismo nella vita statale”. Da questo osservatorio, che mostra processi in atto di confluenze e sconfinamenti, Gramsci ci aiuta, secondo Said, a spingere la comparazione verso un modello diverso da quello goethiano-auerbachiano, a Gramsci stesso non ancora chiaramente estraneo, che presuppone un centro del mondo (l’Europa o l’Occidente).
Nasce da qui, dall’esigenza di una rinnovata metodologia comparativa il contrappunto, leit-motiv dell’opera di Said, emblematicamente espresso dal pensiero “storie che si intrecciano, territori che si sovrappongono”. Esso rappresenta un’estensione, sotto diversi aspetti, un superamento dell’unità-traducibilità con cui Gramsci ha guardato agli orizzonti di civiltà del “mondo grande e terribile e complicato”. Said sottolinea che la modalità gramsciana di analisi della relazione Nord-Sud, già a livello nazionale, rappresenta un’anticipazione dell’atteggiamento contrappuntistico con cui andrebbe affrontata, sia nello studio del passato, sia nella politica del presente, l’imbricazione nel mondo globalizzato tra unità e conflitto.
La nozione di “contrappunto” è non a caso una metafora musicale, che si contrappone agli aspetti centralistici ed etnocentrici della dialettica di tipo hegeliano, esprimibile secondo Said con una diversa metafora musicale, la forma-sonata.
Anche Gramsci, così attento alle vicissitudini della ricerca filosofica e scientifica, in molte elaborazioni rivela la presenza di una spiccata sensibilità artistica (oltre che antropologica). Non va trascurata questa dimensione latamente estetico-letteraria dell’opera di Gramsci per spiegare la sua fortuna pressoché planetaria (si pensi agli Stati Uniti o al Brasile o all’India, per fare solo alcuni esempi). Non siamo noi a far viaggiare il pensiero di Gramsci fuori dell’Europa: il suo contrappunto con il resto del mondo nasce dalle cose.

2. Nel Suo libro Le rose e i quaderni Lei ricorda che Gramsci, con riferimento alla gestazione di un “uomo nuovo”, auspicava con qualche ironia l’avvento di un “Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa pur mantenendo le sue caratteristiche individuali”. Nei suoi studi su Leonardo Lei ha rivendicato, più che l’universalità, la “parzialità universale” di questo intellettuale-artista “pre-moderno”. Qual è il senso di questa espressione? Come può un pre-moderno diventare modello di personalità per la società di massa? Quale linea di continuità si può tracciare tra Leonardo e Gramsci?

Mi consenta, in un primo momento, di ampliare ulteriormente il quadro.
Cesare Luporini ha studiato, nella sua ricerca sulla storia della cultura italiana, tre autori collegati, se non altro, da una prosa frammentaria, aliena dalla forma-libro: Leonardo, Leopardi, Gramsci. Varrebbe la pena, credo, interrogarsi su una possibile linea di pensiero comune, nonostante le distanze in parte abissali, a questi tre intellettuali-artisti, interpreti con diverse modalità della necessità di una “transizione” a una forma diversa di civiltà. Tutti e tre, fortemente ancorati alla realtà rispettivamente scientifico e artistica, poetico-letteraria, politica e culturale del proprio tempo, manifestano rispetto ad esso una singolare inattualità, che li proietta verso il futuro. Gramsci stesso ha evidenziato con forza questo aspetto a proposito di Leopardi (si veda la lettera a Tania del 5 settembre 1932).
Per quanto riguarda, più specificamente, il rapporto Leonardo-Gramsci, vorrei osservare che il pensiero da Lei citato da una lettera a Giulia va, per un verso, inquadrato nell’ambito della metafora-Rinascimento con la quale Gramsci sottolinea il ruolo decisivo della individualità nel processo di costituzione di una “coscienza collettiva” capace di promuovere un “ordine nuovo” nella società di massa; per altro verso va interpretato a partire dall’istanza tecnico-scientifica che, secondo Gramsci, modifica fortemente i punti di riferimento marxiani nella considerazione interculturale del processo rivoluzionario. Marx aveva individuato nell’intreccio tra filosofia tedesca, politica francese ed economia inglese il laboratorio della rivoluzione. Gramsci scrive, immediatamente prima della frase citata, che “l’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono… ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando, per così dire, l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa, ecc.”. Siamo nel cuore del problema della traducibilità dei linguaggi, rispetto al quale il genio relazionale di Leonardo rappresenta un modello, anche agli occhi di Gramsci, pressoché ineguagliabile.
Ancora qualche considerazione sulla questione della modernità. Parlare di “premodernità” significa rifarsi alle intuizioni utopiche, in qualche modo organicistiche, del giovanile “programma universale” (come lo chiamava Chastel) di Leonardo, il quale realizza le sue più importanti acquisizioni dal punto di vista scientifico in contrasto con quel programma, dopo aver preso coscienza del suo fallimento. Ma alcune delle originarie intuizioni restano costitutive della “mente di Leonardo”, per riprendere il titolo del libro troppo poco studiato di Luporini. Penso alla non-separazione tra senso e intelletto e tra qualità primarie e qualità secondarie delle cose, come anche alla non separazione tra scienza e arte, più in generale alla connessione tra ricerca specialistica e orizzonte cosmologico unitario, ciò che impedisce a Leonardo di avvicinarsi a quella divisione del lavoro e del sapere sulla quale stava cominciando a edificarsi la società moderna.
La mia perplessità a proposito della nozione di “post-moderno” dipende fondamentalmente dalla convinzione che la cultura dei nostri tempi in Occidente, oltre ad alcuni fenomeni che potrebbero rendere accettabile quella nozione, sia caratterizzata fortemente da un processo di acutizzazione di quella stessa “divisione del lavoro” e del sapere, caratteristica della modernità, che oggi convive in modi drammaticamente contradditori con le istanze, anche se perversamente, relazionali e unificatrici della globalizzazione. Di qui l’uso del termine “ipermoderno”.
Se non vogliamo arrenderci all’evidenza di quel calderone irrazionale-multimediale che esprime oggi una capacità impetuosa di egemonia, dovremmo rivendicare, correndo il rischio del paradosso, l’attualità sia di Gramsci che di Leonardo: non già in antitesi ma in sintonia con la centralità della ricerca tecnico-scientifica, oggi messa in discussione da varie direzioni di fuga imboccate dal pensiero postmoderno. Sia Leonardo che Gramsci erano certamente, oltre che maestri di razionalità, anche creatori di fantasmi, frutti della loro immaginazione creativa. Ma la concretezza, la laicità, l’avversione a ogni evasione fideistica o mistica erano qualità intrinseche del loro modo di sentire, di pensare e di immaginare. Entrambi, ognuno nel suo spaziotempo, erano, avrebbe detto Brecht, figli dello spirito scientifico.

3. In un recente convegno da Lei ha organizzato il 22 febbraio 2005 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, è emersa la proposta di un “umanesimo della convivenza”, ispirato al dialogo tra Said e Gramsci, orizzonte di “impegno” degli intellettuali e delle culture di tutto il mondo contro l’ideologia della guerra quale soluzione dei conflitti. Che cosa intende per “convivenza”? Perché riprendere una categoria che a molti appare obsoleta quale “umanesimo”?

Cultura e imperialismo, pubblicato da Gamberetti nel 1998 - un libro che non ha avuto la fortuna che merita – illumina da un punto di vista critico-letterario la trama dell’originale, contrastata posizione di pensiero che Edward Said ha assunto nei confronti dell’universo geopolitico, con impegno diretto sulla questione palestinese, ma con sguardo aperto alle lotte di potere e di egemonia in tante parti del mondo. Estremamente attento alle tragiche ma a tratti anche luminose vicende africane della seconda metà del Novecento, egli ha ricercato in personalità sia del mondo intellettuale che politico, come Fanon e Mandela, la fonte di un atteggiamento di ampio respiro, scevro da pregiudizi, che lo ha portato ad assumere tesi decisamente controcorrente rispetto alla complessiva dialettica politica palestinese, pur godendo di riconoscimento e affetto anche in larghi strati popolari.
Ho ritenuto necessario tratteggiare rapidamente alcuni aspetti della personalità di Said perché è da lui, nel contrappunto con Gramsci, che ricavo il filorosso di un umanesimo della convivenza.
Said si è spinto sino a schierarsi per uno Stato unitario con Israele, contro il riconoscimento di uno Stato autonomo palestinese. Il suo rifiuto di ogni forma anche embrionale di odio razziale o di intolleranza religiosa lo portava non solo a lottare contro l’antisemitismo di molti palestinesi, simmetrico all’antiarabismo di molti israeliani, ma a ritenere altresì che solo la riconciliazione, e perciò una positiva e consapevole convivenza tra gruppi sociali etnicamente e culturalmente diversi, all’interno di un organismo statuale comune, potrebbe assicurare un avvenire di pace e di stabilità a un territorio tanto martoriato. Da questo punto di vista Said ha proposto una soluzione molto avanzata a una problematica sulla quale si è incagliata gran parte della storia del movimento operaio internazionale, e cioè il rapporto tra questione sociale e questione nazionale.
Umanesimo, come sappiamo da Gramsci, è una categoria per antonomasia ambivalente. C’è stato, e c’è, l’umanesimo del vir, elitario e politicamente evasivo, che si è affermato all’epoca del Rinascimento italiano, e c’è quello dello homo, rivolto a tutte e a tutti, abbozzato nella stessa Italia durante il periodo comunale, poi sconfitto, che ha espresso tutta la sua energia, anche se egemonizzata dalla parzialità borghese, con l’Illuminismo francese.
In senso generale umanesimo è sinonimo di immanentismo e quindi di opposizione per lo meno tendenziale a ogni tipo di trascendenza, e di laicismo.
Quando Gerratana definiva Gramsci un comunista laico, esprimeva un giudizio che, rispetto a interi periodi e correnti del movimento socialista, suona quasi come un ossimoro! Oggi il valore insopprimibile di un atteggiamento laico sta nel suo carattere di avversione al fondamentalismo, sotto qualsiasi veste, molto spesso nascosta, esso si presenti.
Il carattere forse più delicato di un possibile rilancio dell’umanesimo, perché ha a che fare con una intrinseca contraddizione, è la sua vicinanza all’antropocentrismo. Ritengo che lo stesso Gramsci, con la sua insistenza sulla necessità di coniugare la storia con la natura, e quindi con la scienza, la filosofia e la politica con lo specialismo, e quindi con la tecnica, abbia creato degli antidoti a quella vicinanza. Bene hanno fatto, credo, Negri e Hardt in Impero a sottolineare una linea di pensiero, da Spinoza ad Althusser, che delineerebbe ciò che essi paradossalmente chiamano (ma tutto Impero è ricco di paradossi, a volte salutari) un “umanesimo antiumanista”.
In un libretto postumo, concepito nella temperie che lo ha indotto a scrivere una nuova prefazione a Mimesis di Auerbach - Humanism and democratic criticism - Said ha riproposto le molteplici sfaccettature dell’ambivalenza dell’umanesimo, fino a mostrare la presenza specifica e certo ingombrante di un umanesimo americano, o militare, o – come è più ovvio – etnocentrico, ecc. Said ha tuttavia fornito la chiave per cogliere l’estrema attualità, e insieme la profonda verità storica, dell’umanesimo. Questa chiave sta nel nesso strettissimo tra filologia e umanesimo (ciò che nuovamente ci riporta a Gramsci: abbiamo già accennato alla “filologia vivente”).
Said ha rivendicato l’origine araba, ancor prima che europea, dell’approccio filologico ai testi, ma anche lo storico intreccio tra le due civiltà, che esso storicamente rappresenta. Filologia significa rispetto per l’autenticità e la verità di un testo, e quindi simpatia profonda (per non dire amore) per le parole, intese quali individui che vivono e operano in un testo, qualsiasi esso sia, membri di un organismo perciò, che va riconosciuto e conosciuto per quello che realmente è, prima di poter venir criticato, respinto o utilizzato.
In un’accezione larghissima e fondante, filologia significa, o implica laicismo, tolleranza, antifondamentalismo, spirito scientifico.
Prima di essere stato tematizzato, assieme a Gerardo Marotta, Mario Martone, Patrizio Esposito, Iain Chambers, Pasquale Voza, Lidia Curti, ed altri nel convegno di quest’anno a Napoli, l’espressione Umanesimo della convivenza (Humanismus des Zusammennlebens) fu da me proposta presso l’Università di Bremen, assieme a Jörg Sandkühler, in una iniziativa del Network Immaginare l’Europa nel 1999.

4. Negli sviluppi più recenti del Network Immaginare l’Europa, da Lei ideato in collaborazione con Antonio Ruberti, Étienne Balibar, Luciana Castellina e poi Renzo Imbeni negli anni Novanta, si auspica una capacità/volontà del Vecchio Continente di riproporre a livello mondiale la centralità della lotta egemonica, e quindi culturale, rispetto a una politica di pura potenza come quella affermata dal neoamericanismo statunitense. Non avverte qui il rischio di un’ideologia “intellettualistica” o di un rifugio nell’utopia?

Nel 1991 costituimmo, tra Colleghi di diverse Università europee, con la collaborazione di Roberto Barzanti e più tardi di Luciana Castellina (entrambi, successivamente, vicepresidenti del Parlamento Europeo) l’Associazione di docenti Socrates con sede principale presso l’Ateneo di Urbino, il cui Rettore era Carlo Bo. L’Associazione accompagnò quell’anno la nascita di un progetto Erasmus di “studi filosofici, storico-sociali e intermediali” cui demmo il nome Immaginare l’Europa. Antonio Ruberti chiamò poi Socrates il programma comunitario per l’Università (come Leonardo quello per la formazione professionale). Nel 1996 Immaginare l’Europa divenne una Rete Tematica del Programma Socrates. Il logo della Rete, ideato insieme a Edoardo Sanguineti e a Carlo Predetti, fu un SoLe rinascimentale, in omaggio ai due Programmi comunitari. Fu Ruberti a suggerire, e discutere insieme con noi, alcuni temi portanti di Immaginare l’Europa e la sua trasformazione in un Network of Universities, Institutes and Research Centers, tuttora esistente. Organo del Network è stato l’Annuario elettronico ImagEuro diretto da Paolo Andruccioli, molto apprezzato da Renzo Imbeni, anche lui vicepresidente del Parlamento europeo, che dopo Ruberti divenne un ispiratore, oltre che un amico di Immaginare l’Europa. (Spero che l’Annuario, tuttora in rete – www.imageuro.net - possa presto riprendere la sua attività).
Nel 1996, presso la Protomoteca del Campidoglio, inaugurando le attività della Rete Tematica, un dialogo tra il politico Antonio Ruberti e il filosofo Étienne Balibar ebbe come titolo Immaginare l’Europa: una nuova cittadinanza. Furono gettate in quella occasione le linee di pensiero del Network che tematizzava “identità e differenze in un continente-mosaico che cambia” e sosteneva, con riferimento a Penser l’Europe di Edgar Morin, che “il pensiero critico si è infranto sullo schermo televisivo: ma già affiorano i segni di una immaginazione critica”.
Ruberti e Balibar (che hanno tenuto per noi molteplici conferenze e seminari) sottolinearono il processo in atto di indebolimento e democratizzazione dei confini tra paesi, culture, discipline, e auspicarono lo sviluppo di un dialogo tra politici e intellettuali. Il Network ha ricevuto adesioni importanti, come quelle di Jacques Delors, Eric Hobsbawm, Ernst Gombrich, Stuart Hall, Antonio Tabucchi, Dario Fo, Franca Rame, João Bénard da Costa.
Da Ruberti abbiamo appreso la nozione di “sapere” quale “capitale immateriale” e abbiamo ereditato la necessità di perseguire il “triangolo virtuoso tra istruzione, formazione e ricerca”. Balibar ci ha aiutato a chiarire alcuni obiettivi indilazionabili per una Europa progressiva, come una cittadinanza capace di superare il dilemma inclusione-esclusione, una politica migratoria democratica, la formazione, a livello europeo, di “intellettuali organici” di nuovo tipo.
La questione dei confini è decisiva sia dal punto di vista politico internazionale (“cittadini d’Europa, cittadini del mondo”) che ideologico (dialogo, o meglio contrappunto tra culture) ed epistemologico (enci-clopedia del sapere, intermedialità ossia circolarità tra parole, immagini, suoni).
Che cosa ha a che fare con la questione Europa-America tutto ciò? Con Balibar potremmo parlare della possibilità-necessità di una politica di in-potenza dell’Europa. Si tratta cioè di immaginare un’Europa capace di esprimere le potenzialità di un modo alternativo, rispetto a quello egemone negli Stati Uniti, di concepire la potenza di un organismo politico, nazionale o sopranazionale, rispetto al mondo globalizzato. Non so se siano qui in gioco intellettualismi, fughe o utopie. Potrebbe anche darsi. So però che il mondo ha bisogno di una strategia politica, non puramente economico-militare dei conflitti, e di una governance non imperialistica o non imperiale. A questo fine occorre lottare e resistere contro una prassi politica dominante che tende a chiudere e ad annullare gli spazi del confronto egemonico. È questo l’umanesimo della convivenza.

5. Oggi appare più importante ciò che guardiamo e intuiamo di quello che sentiamo ed elaboriamo mentalmente. Si è imposto un nuovo tipo di espressione/ comunicazione, che appare scavalcare la dimensione della riflessione, attraverso un linguaggio multimediale che ci immerge nella con-fusione impedendoci di cogliere e valorizzare le distinzioni. Il “pensiero critico”, o quello che Lei chiama “immaginazione critica” e “intermedialità”, cioè circolarità e traducibilità dei linguaggi, può ritrovare il suo ruolo nella ricerca di un’alternativa all’appiattimento ideologico e all’omologazione culturale?

Nel Libro di pittura Leonardo chiama la pittura un “discorso mentale”, sostenendo l’identità tendenziale di scienza e arte; traduce la pittura in “poesia muta”, la poesia in “pittura cieca”, la musica in “figurazione di cose invisibili”. È la quintessenza di una concezione e di una prassi, antitetica a una divisione rigida del sapere e delle arti, che è stata travolta dal pensiero egemone della modernità, come si è configurato con Michelangiolo, Galilei e Descartes. Non vogliamo certo… regredire e dichiararci antimoderni! Si tratta solo di riconoscere il fatto che alcuni tagli sono stati realizzati e sono stati dolorosi (come ricorda in modo esemplare Edmund Husserl in apertura della Crisi delle scienze europee).
La cosiddetta crisi dei fondamenti ha pian piano costretto a rivedere certe sicurezze. Tra le scienze e le arti sono avvenuti processi che forse solo oggi, in piena epoca elettronica, giungono a maturazione. In questo contesto, fluido e non facilmente determinabile, la posizione che Leonardo assunse allora rivendica, per così dire, riconoscimento e diritti. Nel campo artistico ad esempio, già all’inizio del Novecento – quando l’immagine del movimento si combinerà con il movimento dell’immagine – la memoria di Leonardo ispirerà il cinematografo di Ejzenstein. Negli anni Sessanta Nam June Paik, fondatore della videoarte, nel crogiuolo del movimento Fluxus parlerà di “intermedialità”: una pratica artistica, con fondamenti scientifici, che ci riporta a mio avviso a Leonardo, in particolare al Paragone delle arti, prima parte del Libro di pittura. (Su questi temi anni fa ad Urbino ci fu un’interessante iniziativa di studio assieme a Carlo Predetti, Pietro Montani e Marco Maria Gazzano; spunti importanti li ha forniti Adriano Aprà).
I linguaggi scientifici e artisti vanno riconosciuti e valorizzati nella loro distinzione e autonomia; nello stesso tempo va mostrata la loro reciproca estensione, relazionalità, intreccio; con la terminologia di Gramsci, la loro reciproca “traducibilità”. È evidente che un tale processo entra in contraddizione, si potrebbe dire in concorrenza, con la divisione del sapere e con uno “specialismo” obiettivamente, e quindi necessariamente sempre più spinto e avanzato. In questo senso ho parlato, celiando, di “premodernità” di Leonardo, il quale coltivava innumerevoli forme di specialismo, ma in un orizzonte relazionale: un’esigenza, questa, che sarà riconosciuta e messa al centro dell’attenzione nel Novecento da pensatori illustri, come Whithead e Merleau-Ponty.
Indubbiamente la possibilità di combinare autonomia-specialismo e relazionalità-traducibilità dei linguaggi scientifici è controversa, e oggettivamente problematica, oggi probabilmente più di ieri. Occorre guardarsi da ipostatizzare ideologicamente una tale possibilità, sostenendo acriticamente l’unità o unificabilità del sapere, o, ancor peggio, ipotizzando in modo generico che quella possibilità sia stata causa ed effetto, dal punto di vista epistemologico, della globalizzazione. Anche in questo caso c’è bisogno di una “filologia vivente”, e quindi di un’analisi puntuale delle particolarità nelle quali il problema si presenta. Ciò che non è eludibile è l’esistenza del problema, nel quale è implicata, oltre che la filosofia, anche una politica della scienza.
Dal punto di vista artistico ed estetico, credo che il dito nella piaga l’abbia posto l’ultimo Marcuse (morto nel 1979) il quale, in una serie di acuti frammenti, con un linguaggio strutturalmente diverso dalla forma sistematica nella quale prevalentemente egli ha scritto, ha sottolineato la necessità di reagire al consumismo vieppiù dilagante promuovendo una pratica artistica popolare, nel senso nel quale Beuys diceva: “siamo tutti artisti”. Marcuse sostiene che la rivoluzione è tanto più necessaria quanto più impossibile. La cultura dominante ha distrutto, nella mentalità popolare, il gusto del diverso e perciò del cambiamento. L’estetica, intesa insieme come analisi delle sensazioni e dell’arte, è una teoria della varietà, del movimento e del cambiamento. (Ciò che Fortini chiamava il Sempreguale, e che oggi si presenta come Eternopresente, è il cavallo di battaglia della cultura dominante nella sua furia devastatrice di ogni Differenza). C’è bisogno di arte, continua Marcuse, più propriamente di “arte per l’arte” – abbandonata dalla borghesia – intesa però non come produzione di “opere”, bensì come ripresa, a livello di massa, della capacità di lavorare, giocare, sperimentare con le parole, con le immagini e con i suoni, quali modi e strumenti di esprimersi e comunicare, che oggi sono diventati cose inerti, sempre più manipolabili. (Gramsci parlava di “rivoluzione passiva”). Anche Paolo Volponi, parlando del suo capolavoro Corporale, laboratorio di sperimentazione linguistica e culturale, in una intervista a Bettini, aveva detto qualcosa di analogo.
In questa strategia di resistenza può racchiudersi il senso della intermedialità, che si oppone al governo dei linguaggi da parte dei mass-media.
Le “nuove tecnologie” della parola, dell’immagine e del suono hanno prodotto la multimedialità, la quale è per un verso un processo di integrazione oggettivo, fondamento forse di una nuova lingua, con un nuovo vocabolario, grammatica e sintassi. Per altro verso però essa costituisce un’arma micidiale, al servizio di un’egemonia culturale che consapevolmente, sistematicamente, capillarmente cerca di mettere fuori gioco quelle che Marx chiamava le armi della critica. Si pensi all’ideologia neo-con negli Stati Uniti e ai vari berlusconismi sparsi per il mondo.
Intermedialità è, o vorrebbe essere, un punto di vista che, come sostiene Gazzano, interpreta, corregge e arricchisce la multimedialità; si oppone al solipsismo televisivo di massa, con la promozione di uno spirito critico e sperimentale, che richiede l’educazione democratica dei giovani all’autonomia e alla relazionalità, insieme, dei linguaggi artistici e scientifici, così come al sodalizio tra ragione e passione.

6. Che rapporto c’è, nella Sua attività, tra il lavoro teorico-filosofico e la produzione audiovisiva che, dopo essersi avventurata assieme a Dario Fo in un “viaggio nel mondo di Gramsci”, oggi La vede impegnata in un contrappunto con la musica popolare brasiliana?

Nel 1985-86 una casuale esperienza di attore, assieme ai miei figli, in un film di Straub-Huillet, La morte di Empedocle dall’omonima tragedia di Hölderlin, ha determinato in me una svolta. La re-citazione (come diceva Brecht) di un testo poetico-filosofico, e la sua traduzione in immagini audio-visive, mi hanno fatto toccare con mano, o meglio con gli occhi e con le orecchie, la verità e attualità di quel pensiero di Leonardo che ho citato dianzi.
Poco dopo, nel 1987, cinquantenario della morte di Gramsci, mi accinsi alla preparazione di un libro su di lui, che invece ho scritto oltre dieci anni dopo. Ebbi infatti l’opportunità di trasformare quel progetto di scrittura in un’impresa di “scrittura con la luce”, e cioè nella realizzazione del film televisivo “Gramsci, l’ho visto così”, di cui fui coautore insieme al regista Gianni Amico. Gianni, che aveva collaborato con Rossellini, Bertolucci, Godard, Glauber Rocha – ed era stato autore nel 1967 di un capolavoro, Tropici - ha praticato e teorizzato il “cinema-saggio”, che è anche cinema di pensiero. Al termine di quell’indimenticabile anno di lavoro in comune, Gianni mi disse che la sua/nostra ambizione era di aver realizzato un film gramsciano su Gramsci.
Ci ripromettemmo di continuare con Gramsci. Ma Gianni morì e mi lasciò solo con questo progetto, che non volli abbandonare. Fortunatamente fui assistito splendidamente da sua figlia Valentina, oltre che da collaboratori e tecnici preziosissimi, che mi hanno aiutato a improvvisarmi regista in un videofilm, dedicato a gianni amico di gramsci, che ebbe la generosissima partecipazione di Dario Fo e Franca Rame. Titolo del film New York e il mistero di Napoli. Viaggio nel mondo di Gramsci, con riprese effettuate tra il 1987 (da Gianni) e il 1994. Fu una sorpresa verificare come la figura di Gramsci fosse uscita indenne dallo straordinario/terribile 1989. Il film-saggio - promosso da un’associazione cofondata a Urbino con Paolo Volponi, il cui nome divenne poi il titolo del mio libro Le rose e i quaderni - non ha mai avuto una vera edizione; si è conquistato però un circuito privato e amicale, in città sparse per il mondo.
L’anno di lavoro con Gianni amico querido, che mi chiamava “il filosofo”, fu per me occasione di un’esplorazione in un territorio di confine tra Cinema e tre P (poesia, politica, pensiero). Grande assente fu la Musica, che solo dopo la scomparsa di Gianni, frequentando la sua moglie-compagna Fiorella, scoprii essere stata il suo dèmone africano-americano (jazz in Nordamerica, samba in quel “continente parallelo” agli Stati Uniti che è il Brasile).
Si determinò un contagio: la Musica tropicale, in contrappunto con il Cinema e quei tre P, mi conquistò, accompagnandomi nella “scoperta” di Napoli e del suo contrappunto con Bahia. Nel 2000 nacque il progetto NapoliBahia, che ha avuto successivamente due illustri mentori: Caetano Veloso e Gilberto Gil. Spero che prossimamente si associ il loro ideale partner partenopeo, Pino Daniele.
Gli abitanti di Salvador di Bahia vengono chiamati (dalle parole greche soteros e polis) “soteropolitani”. Da questa espressione scaturisce Caetano soteronapoletano, che ha dato nome a un corto da me realizzato in occasione del concerto tenuto nel 2002 da Caetano all’Arena Flegrea.
Attualmente sto ultimando un corto che ha avuto la “grazia” di venir girato da un grande maestro di arte-video, Robert Cahen, anche lui, come Gianni Amico, incantato dalla musica (il cinema di Cahen è nato dalla collaborazione con Pierre Schaffer, ideatore della musica concreta). Il video, che verrà presentato a Napoli entro l’anno e poi a Salvador, in occasione della settimana di NapoliBahia, si chiama Sirene in canto ed è ispirato ad una canzone su testo di Gilberto Gil, La novità. Essa descrive il sogno di liberazione determinato dal ritorno delle sirene sul palcoscenico del mondo, ma anche la lacerazione prodotta dalla guerra tra il poeta, che vuole amare la sirena, e l’affamato che la vuole divorare. “Oh mondo tanto diseguale! Da un lato questo carnevale, dall’altro la fame totale”.
Il testo di Gil e il dialogo con lui mi hanno aiutato a imprimere la giusta dimensione politico-sociale a un’idea poetica il cui rischio era di navigare in acque troppo idilliache. L’idea consiste nella nascita di una nuova sirena tropicomediterranea, simbolo della musicalizzazione della civiltà, attraverso l’incontro tra l’immagine di Partenope, sirena archetipa di Napoli, e la sirena, simbolicamente viva e vegeta, di origine africana, di Bahia: Yemanjá, regina del mare. Chi conosce la convivenza di modernità e incanto, che Yemanjá tuttora rappresenta a Bahia, con le sue luci e le sue ombre, capisce che cosa intendo dire.
La guerra ideata da Gil tra il poeta e l’affamato è una guerra più nobile di quella che si va consumando nel mondo tra i neocolonizzatori e gli affamati. Stimola un impegno, e indica una speranza, che conosce purtroppo tante disillusioni: come quella, a livello politico, che oggi proviene proprio da Terra Brasil.

7. Lei dedica tempo ed energia anche al lavoro organizzativo. Per un verso Lei è il Presidente della International Gramsci Society-Italia. Per altro verso è impegnato in un Network interuniversitario con una dimensione continentale – Immaginare l’Europa – e una euro-brasiliana: Transito Atlantico. Il suo precoce pensionamento dall’insegnamento universitario presso l’Università di Urbino probabilmente la aiuta a districarsi tra ambiti di attività così diverse. Quale bilancio si può trarre da questa Sua versatilità?

Il rischio costante del mio modo di lavorare è la dispersione di energie. Invecchiando, cerco di essere più sobrio e di agire in modo più mirato.
La costituzione del Network Transito Atlantico è in corso: si tratta di un progetto italo- ed euro-brasiliano, estensione fuori dell’Europa, lungo itinerari scientifici e didattici, artistici e culturali, di Immaginare l’Europa. La base di partenza sono strutture universitarie (a Napoli, Roma, Siena, Bologna, Osnabrück, Düsseldorf, Barcellona, Coimbra, Bucarest, Salvador di Bahia, San Paolo, Rio de Janeiro, Niteroy, Marília). Le sedi italiane del Network sono attualmente in costituzione presso L’Orientale di Napoli (con il rettore Pasquale Ciriello), Roma Tre (con Eligio Resta) e Federico II di Napoli (con Renata Viti Cavaliere e Giuseppe Cacciatore). L’espressione Transito Atlantico è stata proposta da un illustre epidemiologo, rettore dell’Universidade Federal da Bahia, Naomar de Almeida-Filho. Lo stesso Naomar, un direttore d’orchestra come Gil Jardim, una psicoanalista come Denise Coutinho, una regista teatrale come Célia Tolentino, un filosofo come Giovanni Semeraro e altri stanno lavorando a un progetto che sconfina oltre gli Atenei e riconosce nel regista cinematografico Nelson Pereira dos Santos un “maestro”. Una iniziativa di arteducazione e di pedagogia del desiderio come il Projeto Axé di Bahia, che coinvolge migliaia di meninos da rua (in gran parte oramai ex “ragazzi di strada”) è il punto di riferimento per la promozione di una “università aperta” alla cittadinanza e di una “università popolare” capace di scendere nelle piazze.
L’idea di una International Gramsci Society è nata ad Amburgo a metà degli anni Ottanta in occasione di “università popolari” indette in una grande ex-fabbrica per promuovere l’incontro tra il pensiero di Gramsci e personalità come Rosa Luxemburg e Mariategui. Nel 1987 un incontro tra Valentino Gerratana, Joseph Buttigieg, Cornel West, Frank Rosengarten, John Cammett, Antonio Santucci e il sottoscritto precisò il progetto, che fu presentato al Convegno “Modern Times: Gramsci e la critica dell’americanismo”, organizzato dal Cipec di Democrazia Proletaria nello stesso anno. Il progetto fu rilanciato al Convegno internazionale di Formia del 1989, organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma. Giuseppe Vacca partecipò, assieme agli studiosi citati, alla costituzione ufficiale dell’Associazione, formalizzata a Roma e a New York.
La figura di Antonio Gramsci è esemplare anche dal punto di vista dello stile della sua partecipazione alle lotte di egemonia. Basti pensare alla lealtà e solidarietà che hanno sempre caratterizzato il suo rapporto con il rivale politico Amedeo Bordiga. Attorno a Gramsci, dopo l’arresto, si sono invece addensate, in carcere e fuori del carcere, manifestazioni di segno contrario, che hanno finito per lasciare il fondatore del Pci in una condizione di sostanziale isolamento politico. Più tardi Togliatti e il togliattismo, nonostante evidenti forzature nell’interpretazione del suo pensiero, hanno fortunatamente gestito l’eredità di Gramsci per lo meno con coerenza.
Nel suo piccolo, la vicenda italiana della International Gramsci Society ha risentito di una nuova stagione di insofferenze. Contraddizioni che, per usare il linguaggio di Mao, avrebbero dovuto svilupparsi “in seno al popolo”, si sono trasformate in “antagonistiche”. Renato Zangheri ha fatto molto per ricomporre difficoltà e malintesi. Oggi la situazione si è disincantata e forse si preannuncia un periodo di possibili armonie, nell’articolazione di una concordia discors. Il terzo convegno-congresso della IGS, preannunciato in Sardegna dopo quello di Napoli (1997) e di Rio de Janeiro (2000), potrebbe giovarsi di un clima favorevole.


PUBBLICATO IL : 02-10-2005


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