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Cosė Habermas guarda al futuro dell'occidente Intervista all'autore dell'Occidente diviso (da Il Manifesto del 6 Febbraio 2005)
di Donatella Di Cesare

 

Jürgen Habermas, discutendo le tesi kantiane sul diritto internazionale, dice di considerare troppo forte la forma della «repubblica mondiale» e troppo debole quella della «lega dei popoli», i due modelli nati dalla rivoluzione americana e da quella francese. «Immagino una società mondiale - dice - costituita come un sistema a più livelli. La formazione di una volontà politica comune farebbe perdere ai global players quel diritto alla guerra una volta in possesso degli stati sovrani»
Atto di accusa. Intervista al filosofo tedesco. «Il concetto di imperialismo ha perso ogni pregnanza, tanto che alcuni neoconservatori lo usano in senso affermativo. Quel che a me interessa è il cambio di paradigma introdotto dal governo Bush: si è passati dal `realismo' di Kissinger a un falso universalismo con cui si è giustificata la guerra in Iraq»

Benché affronti temi di attualità politica, il nuovo libro di Habermas appena uscito da Laterza con il titolo L'Occidente diviso è una profonda e originale riflessione filosofica che, seguendo il filo conduttore delle sue ultime opere, mentre disegna criticamente il panorama contemporaneo propone l'alternativa di una costituzione politica della società mondiale. Per il filosofo tedesco la scissione che segna trasversalmente i paesi occidentali è stata provocata non dal terrorismo, ma piuttosto dalla politica degli Stati Uniti che dopo l'11 settembre hanno ignorato del tutto il diritto internazionale. La sua diagnosi è pesante: in pericolo è il progetto kantiano che mira alla abolizione dello «stato di natura» tra gli stati nazionali, cioè l'iniziativa più grandiosa volta a civilizzare il genere umano, che oggi conoscerebbe, dunque, una crisi del tutto inedita.

L'occidente è diviso: questa la tesi del suo libro. La divisione è stata provocata dalle scelte del governo Bush che rappresentano una rottura inaudita capace di far saltare i vincoli stessi della civiltà. Il suo, dunque, è un atto di accusa che non si limita però a tacciare di imperialismo la politica americana. Gli Stati Uniti, con il loro disprezzo per il diritto internazionale, ricadono nel «falso universalismo» degli antichi imperi che pretendevano di imporre agli altri i propri valori e le proprie forme di vita. Il che è in contrasto stridente con l'universalismo democratico e con il vocabolario dei diritti umani.

Il concetto di imperialismo ha perso oggi pregnanza; alcuni neoconservatori lo usano in senso affermativo. Quel che a me interessa è il cambio di paradigma che il governo Bush ha introdotto nella politica estera americana: si è passati dal «realismo» di Kissinger a un unilateralismo missionario. Un classico esempio di falso universalismo è il modo in cui Bush ha giustificato la sua politica in Iraq. Ha messo da parte i principi e i metodi del diritto internazionale richiamandosi alla validità generale che avrebbero i valori nazionali della tradizione americana. Evidentemente, Bush non riesce a immaginare che il proprio ethos politico, così come lui lo intende, non si adatta a nessuna altra cultura. Quel che è sbagliato è supporre che ci sia un nucleo universale nella democrazia e nei diritti umani. E sbagliata è l'arroganza cognitiva che consiste nel giudicare la propria causa dal proprio punto di vista. Carl Schmitt, di cui discuto la teoria politica nell'ultima parte del mio libro, denunciando ogni forma di fondazione universalistica ha buttato via il bambino con l'acqua sporca. Schmitt a mio avviso non ha capito l'importanza di un universalismo che miri a decisioni non di parte. Anche le procedure del diritto internazionale sono state introdotte con l'intento di far intervenire tutte le parti in causa, sollecitandole nello stesso tempo a considerare questioni controverse dalla prospettiva degli altri. Fin quando tutte le parti non avranno imparato a relativizzare la propria prospettiva rispetto a quella degli altri, non saranno in grado di risolvere i conflitti in modo imparziale.

Lei dice più volte: non è più la «mia» America. Ed esprime la speranza di un cambiamento. Ma cosa avverrà ora che Bush è stato rieletto?

La mia generazione, dopo la seconda guerra mondiale, ha avuto l'occidente, e l'America in particolare, come punto di riferimento culturale. Per me, che ho fatto sempre parte della sinistra filoamericana, la delusione è tanto più grande. Ho seguito a Chicago l'ultima contesa elettorale da cui è emersa la divisione culturale che squarcia la società americana. I modi di pensare più diffusi in Europa sono in una relazione di affinità più che mai stretta con la parte liberale della società americana. Perciò gli sviluppi politici che ci saranno in Europa potrebbero avere un influsso, anche solo indiretto, sulla polarizzazione d'oltre Atlantico.

Dopo il secolo americano quello appena iniziato dovrebbe essere - secondo i suoi auspici - un secolo europeo. Nell'appello firmato con Jacques Derrida e ripubblicato nel suo libro Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei lei indica nelle grandi manifestazioni di Londra, Roma, Madrid, Barcellona, Parigi, Berlino, il «segnale della nascita di un'opinione pubblica europea». Insomma, grazie a una identità che si è sempre articolata nelle differenze, l'Europa sembra sia per lei una sorta di laboratorio per nuove forme di governo transnazionale basate sulla solidarietà civica. È così?

No, io non sogno un secolo europeo. Ma una Europa che impari a parlare all'unisono in politica estera potrebbe forse contribuire a ricordare agli Stati Uniti il loro ruolo di battistrada verso una costituzione politica della società mondiale. Se si guarda alla integrazione europea, ci sono oggi ovviamente ben pochi motivi per essere ottimisti. Già le reazioni alla nostra piccola azione concertata, che lei ricorda, sono state molto deboli. I media dovrebbero fare sì che le opinioni pubbliche nazionali serrino le fila. Sono deluso soprattutto dallo zoppicante tandem Francia-Germania da cui non vengono più impulsi per la politica europea. Non vedo da nessuna parte una iniziativa energica volta a consolidare l'Unione Europea: essa dovrà differenziarsi all'interno per evitare che i passi futuri verso una estensione dei suoi confini ad est e sudest non le sottraggano ogni capacità politica d'azione.

Lei si è battuto per una Costituzione dell'Unione Europea che è stata firmata dopo la stesura del suo libro. Cosa ne pensa ora, dopo la firma?

La ratifica della Costituzione da parte del Parlamento Europeo non significa gran che. E il processo successivo può contribuire ad affinare l'identità europea tra i cittadini solo se verrà evitato ogni referendum. A tal fine dovrà esserci una mobilitazione sufficiente. Alcuni governi hanno scelto la via di una campagna nazionale. Così ha fatto ad esempio l'Inghilterra dove ora come ora è possibile che, in caso di referendum, voterebbero un rifiuto. In questo caso si esporrebbe la Costituzione a un fallimento. Non possiamo non guardare con ansia a quel che succederà.

La guerra in Iraq - come lei nota - ha approfondito le divisioni già presenti tra i diversi paesi europei. Il caso dell'Italia mi sembra particolarmente significativo anche per la schizofrenia che sussiste tra la vocazione europeista di molti cittadini e la politica del governo palesemente filoamericana. Quale ruolo dovrebbe svolgere per lei l'Italia, dato che non fa parte di quello che chiama il «nucleo d'Europa», cioè di quei paesi che avranno un ruolo politico più attivo?

Se mi permette l'osservazione, il fenomeno Berlusconi, visto dall'esterno, è molto irritante: la cultura politica del suo paese sembra modificarsi sempre più profondamente sotto il regime di questo imprenditore mediatico di successo. Ma l'Italia resta una democrazia e, se la depoliticizzazione di una società sempre più riorientata verso altri valori non sarà andata troppo avanti, possiamo ancora sperare che ci sia presto un governo guidato dall'europeista Prodi. A Roma le proteste di massa contro la guerra in Iraq non sono state meno imponenti che a Madrid, dove il governo Aznar ha avuto la risposta che meritava. Un nucleo, o un gruppo di paesi, che dovesse costituirsi all'interno dell'Unione Europea non sarebbe concepibile senza l'Italia.

Leggendo il suo libro mi hanno sorpreso alcune affermazioni che lei fa sul modo in cui la Germania sta elaborando il proprio passato. «Il marchio della Shoah si è trasformato in un monito universale». Così la «politica della memoria» contribuirebbe a isolare le posizioni della estrema destra e sarebbe un antidoto per l'antisemitismo sempre in agguato, per quanto - lei dice - meno violento che altrove. Non voglio soffermarmi qui né sulle vette raggiunte ultimamente dall'estrema destra né su quei numerosi rigurgiti di antisemitismo che anche in Germania si nascondono dietro l'antiamericanismo. Le chiedo però di indicare le responsabilità dell'Europa: cosa ha fatto per arginare il conflitto fra israeliani e palestinesi? Non è stata questa una grande occasione mancata? E come può l'Europa presentarsi da autorevole protagonista sulla scena mondiale se Auschwitz, la cesura che è al suo centro, riaffiora ovunque nelle forme più radicate dell'odio razziale?

Lei tocca qui un punto dolente di cui non possiamo fare a meno di parlare. E giustamente distingue anche tra l'eredità antisemitica dell'Europa e la responsabilità specifica che noi abbiamo in Germania per lo sterminio degli ebrei europei e per le conseguenze prodotte da questa frattura della civiltà. L'antisemitismo è il parto dell'Europa cristiana e nazionalista, divenuta alla fine anche razzista. Il fatto che dopo Auschwitz, in alcuni paesi europei, non siamo ancora riusciti ancora a rompere radicalmente con questo modo di pensare resta davvero una tara. Anche perciò gli Stati Uniti godono in Israele di una fiducia maggiore di quanta non ne abbia l'Europa, di cui si teme una presa di posizione a favore della parte araba. A prescindere dalla incapacità degli europei di assumere una posizione comune, gli Stati Uniti sono stati fino a poco fa l'unica potenza che abbia potuto esercitare un influsso sulla soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, perché vengono accettati come gli unici mediatori. Tanto più dobbiamo sforzarci in Europa non solo di prevenire l'odio razziale, l'antisemitismo e la xenofobia nella famiglia e nella scuola, non solo di affrontarli nel dibattito politico, ma anche di opporci con coraggio civile per le strade e nelle piazze. Per quanto riguarda la Germania, qui gli stessi pregiudizi e gli stessi casi di antisemitismo assumono un peso ben diverso da quello di ogni altro paese. Dobbiamo tener conto della diffusione dell'antisemitismo che riguarda il 15% della popolazione. Fin quando questo potenziale è rimasto nell'ombra, o è stato risucchiato dai partiti democratici, il problema non si è posto. Ma ora è sorto un clima di paura sociale. Forse anch'io ho sottovalutato le conseguenze derivanti dal rigetto di un processo di riunificazione non riuscito. In ogni caso, i neonazisti puntano sempre a «successi» raggiunti con colpi spettacolari. La questione politicamente decisiva sorgerà quando questi pregiudizi razziali avranno voce in capitolo nella società. Sembrano purtroppo contribuire a ciò il pubblico cordoglio per i caduti di guerra in Germania, avvenuto con ritardo, e un asfittico antiamericanismo che con la guerra in Iraq ha avuto un nuovo impulso. Siamo ancora al di qua o siamo già al di là di quello spartiacque oltre il quale i pregiudizi di cui parliamo rischiano di trovare eco nella società? Sono sempre abbastanza ottimista per quel che riguarda la forza della vecchia Repubblica federale. Ma lei ha assolutamente ragione: si può auspicare capacità di azione politica solo per una Europa che vede chiaro in se stessa quanto basta. Altrimenti finirà per riprodurre all'esterno i conflitti interni.

Lei riprende il progetto kantiano di una «condizione cosmopolitica». Ma in che cosa poi se ne allontana?

La parte centrale del libro è costituita da un lungo saggio sullo sviluppo del diritto internazionale in cui cerco di difendere l'idea kantiana di un passaggio dal diritto degli stati al diritto cosmopolitico contro idee opposte, soprattutto contro la visione neoconservatrice del liberalismo egemonico e contro la concezione elaborata da Carl Schmitt. Kant ha dato alla sua idea due forme diverse; io considero troppo forte la forma della «repubblica mondiale» e troppo debole quella della «lega dei popoli». Kant era affascinato dai due modelli di repubblica che proprio allora erano nati dalla rivoluzione americana e da quella francese. E poteva immaginarsi un ordine cosmopolitico solo come uno stato costituzionale democratico in grande formato oppure come una associazione, liberamente scelta, di singole repubbliche. La chiave per una concezione che eviti i lati deboli di entrambi i modelli sta, per me, nella idea di una politica interna mondiale senza governo mondiale. Ma per trovare le forme giuste di un «governo al di là dello stato nazionale» occorre separare al livello della organizzazione sovrastatale i tre elementi che nello stato nazionale sono intrecciati. Nello stato nazionale sono infatti fusi insieme: la costituzione politica che garantisce a tutti i cittadini la stessa autonomia privata e pubblica, l'apparato burocratico dello stato che traduce la volontà politica dei cittadini e dei loro rappresentanti e infine la coscienza della solidarietà fra i cittadini di uno stato che sanno di essere membri della stessa comunità politica. Per contro, le organizzazioni internazionali possono avere una costituzione senza assumere il carattere della autorità statale. E la solidarietà che ci si aspetta dai cittadini dell'Unione Europea e dai cittadini del mondo può essere molto più astratta e modesta di quanto non sia la coscienza nazionale. Se si intuisce come questi elementi siano separabili, si potrà capire meglio la possibilità di un «governo transnazionale».

Le tendenze della globalizzazione sembrano assecondare la progressiva costituzionalizzazione del diritto internazionale e favorire dunque un ordinamento cosmopolitico, non le pare?

In una società mondiale che, pur crescendo unitariamente si è differenziata, i problemi che superano i confini e che non possono più essere risolti nell'ambito dei singoli stati sono sempre più numerosi. Sono problemi che richiedono coordinamento, cooperazione e la formazione di una volontà politica comune al di là dei confini nazionali. Mi immagino una società mondiale costituita politicamente come un sistema a più livelli. Al di là degli stati nazionali si erge già oggi l'organizzazione mondiale delle Nazioni Unite. Tra questi due livelli, però, non è stato ancora sufficientemente sviluppato il livello transnazionale, quello cioè della formazione di una volontà politica comune. A questo scopo una Unione Europea, divenuta capace di agire in politica estera, potrebbe fornire un buon esempio. Su questo piano i governi continentali, che in tutte le parti del mondo potranno formarsi accanto a potenze mondiali come gli Stati Uniti o la Cina, dovranno costituire sistemi di negoziati per affrontare i problemi della politica interna dei vari stati. Penso soprattutto ai problemi dell'economia mondiale e dell'ecologia globale. Certo ci sarebbero ancora residui di quella politica di potere che ci è ben nota nelle relazioni internazionali. Ma almeno i global players perderebbero quel diritto alla guerra che una volta era possesso degli stati sovrani. Sarebbero infatti membri di una comunità internazionale che al livello sovranazionale avrebbe assunto la forma di una organizzazione delle Nazioni Unite riformata. Non è necessario mutare l'Onu in un governo mondiale che abbia il monopolio della forza per far sì che svolga le due funzioni essenziali di assicurare la pace e affermare nel mondo i diritti umani. In questo modo ne risulterebbe, alla fine, alleggerito il livello sovranazionale della politica in senso stretto.


PUBBLICATO IL : 06-02-2005


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