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Dall'antropologia filosofica all'ermeneutica delle identità
di Salvatore Giammusso

 

«Nella vita – dice l‟Uomo senza Qualità – noi cerchiamo senza dubbio la solidità, con l‟accanimento di un animale terrestre caduto nell‟acqua. Perciò sopravvalutiamo tanto l‟importanza del sapere, del diritto e della ragione quanto la necessità dell‟obbligo e della violenza. Forse non dovrei dire proprio „sopravvalutiamo‟; ma in ogni caso la maggior parte delle manifestazioni della nostra vita hanno per fondamento l‟incertezza spirituale». Sulla scia di questa considerazione di Musil possiamo accostarci alla questione circa l‟attualità dell‟antropologia filosofica. Sappiamo infatti che l‟antropologia filosofica è sorta nel primo Novecento, e nei suoi autori classici sono senz‟altro visibili i segni di quell‟epoca senza qualità che si dibatteva tra il rifiuto delle certezze tradizionali e l‟esigenza di una nuova e solida immagine dell‟uomo. La questione è se il paradigma classico dell‟antropologia filosofica sia da ritenersi adatto a tempi fluidi come i nostri, che ancora di più hanno a fondamento l‟incertezza spirituale. In altri termini: che può significare lavorare all‟antropologia in una società divenuta “liquida”? Per anticipare il tema che andrò svolgendo, sostengo che nella tradizione antropologica possiamo trovare un ricco insieme di strumenti concettuali e principii metodologici. Penso ad esempio agli studi di Plessner sulla corporeità e sui sensi, alle ricerche di Bollnow sulle tonalità emotive e quelle di Straus e Buytendjik sulla stazione eretta e sul movimento; e penso anche ai principii ermeneutici del metodo strutturale. E tuttavia non esito ad affermare che nel suo complesso il paradigma antropologico della prima metà del secolo scorso si può ritenere obsoleto perché oscilla tra metafisica, ideologia e una forma di antropocentrismo in senso pratico, rispetto a cui oggi siamo divenuti scettici.


PUBBLICATO IL : 29-06-2011


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