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“Governare al di là dello Stato nazionale” Intervista a Jürgen Habermas sul suo ultimo volume L’Occidente diviso (Laterza 2005)
di Giorgio Fazio e Mariano Croce

 

1) Partiamo dalla tesi centrale del suo ultimo volume, “l’Occidente diviso”. Le scelte di politica estera dell’attuale amministrazione statunitense hanno messo in discussione il quadro di valori, pratiche e riferimenti normativi che definiscono l’identità culturale e politica dell’Occidente. Davanti a questa constatazione, il suo sforzo sembra voler essere innanzitutto quello di richiamare la “vecchia Europa” alla sua responsabilità storica: invertire il senso di marcia storico-spirituale dell’Occidente, e riassumere quel ruolo di leadership politica e culturale che sembrava aver definitivamente consegnato all’America. In che senso oggi secondo Lei, il processo di unificazione europea può costituire la leva fondamentale per la ripresa di quel progetto kantiano di costituzionalizzazione del diritto internazionale per il quale, con tanta energia, nel suo ultimo volume si batte?

Lei caratterizza la mia intenzione in modo forse eccessivo. Io sono sempre appartenuto alla sinistra americana. Tanto più grande perciò è oggi, come ai tempi della guerra in Vietnam, la delusione per la politica contraria al diritto internazionale condotta dal governo americano in Iraq. Mi inquieta innanzitutto il cambio di paradigmi nella politica estera, che non viene sostenuto solamente da un paio di ideologi neoconservatori, bensì gode nella popolazione americana del consenso della maggioranza. Il collegamento tra unilateralismo, nazionalismo e moralismo missionario non spaventa solo me. Mentre però la divisione politica dell’Occidente separa l’Europa dagli Stati Uniti, la divisione culturale dell’Occidente corre all’interno della stessa nazione americana. Le elezioni presidenziali hanno reso evidente perfino geograficamente la spaccatura tra l’America liberale, dalla quale noi, europei del dopoguerra, abbiamo imparato molto, e la destra religiosa, che Bush tiene al potere: la sera del voto, sugli schermi, gli stati a maggioranza democratica si colorarono di blu, gli altri – ironicamente - di rosso.
D’altro canto lei ha ragione; credo che in questa fatale circostanza all’Europa spetti una particolare responsabilità. Io non sogno una guida politica o anche solamente culturale dell’Europa, ma come molti miei amici americani ritengo necessario che l’Unione Europea impari a parlare verso l’esterno con una voce sola. Essa dovrebbe in politica estera, come per esempio sta accadendo per i negoziati con l’Iran, ottenere un proprio peso e far valere le proprie rappresentazioni dell’ordine politico anche nelle organizzazioni internazionali. Solamente a questo punto l’Europa avrà l’influenza che Toni Blair, nonostante la sua fiducia nei Nibelunghi, non è riuscito ad ottenere su Bush. L’Europa deve spingere gli Usa, come alla fine della seconda guerra mondiale, ad assumere il ruolo storico di precursore nel cammino evolutivo del diritto internazionale verso una autentica costituzione politica della società mondiale. Per raggiungere questo scopo, dobbiamo innanzitutto badare ai fatti nostri e costruire una Europa unita, dalla quale al momento siamo molto lontani.

 


2) Lei insiste particolarmente sul fatto che il processo di unificazione politica e costituzionale europea potrà compiersi solo se i principi della nuova carta comune verranno effettivamente appropriati dai cittadini europei e riconosciuti come l’espressione di una identità comune. Sono molti gli elementi che indica come strumenti per la costruzione di questa identità. Tra questi quella che Lei chiama una “politica della memoria”, sul modello di quello che è stata per la Germania federale la memoria dell’Olocausto. Può spiegarci in cosa può consistere per l’Europa oggi una “politica della memoria”? E non crede che potrebbe rappresentare un elemento centrale di questa politica, e quindi del futuro stesso dell’Europa, il ricordo di quanto è avvenuto negli anni ’90 in ex-Jugoslavia?


Sono molti gli elementi importanti per la formazione di un sentimento di coappartenenza dei cittadini europei. Accanto alla nuova costituzione europea e accanto a una comune politica estera, con la quale i cittadini possano identificarsi oltre i confini nazionali, nominerei qui la creazione di una vasta sfera pubblica europea e, cosa alla quale Lei si riferiva, la coscienza di una comune provenienza storica. In questo contesto giocano un ruolo anche comuni esperienze negative: il fine politico del superamento del nazionalismo e della sanguinosa guerra tra le nostre nazioni, era già per i padri fondatori dei Trattati di Roma uno dei motivi più importanti. In Germania la responsabilità per i crimini mostruosi del governo è divenuta una spina per ciò che noi da Adorno in poi chiamiamo “rielaborazione del passato”. Alcuni notano che questa politica della memoria dagli anni sessanta ha condotto ad una “seconda fondazione della repubblica federale”. Come l’Onu ha appena mostrato, l’Olocausto è divenuto nel frattempo però, ben oltre l’Europa, oggetto di un autoaccertamento e di una rammemorazione politicamente ritualizzata. Lei ricorda perciò un particolare fallimento degli Europei nel recente passato. Srebrenicka è diventata per molti di noi un simbolo delle orribili conseguenze della incapacità e della non volontà di agire propria dell’Europa. Da ciò abbiamo per lo meno tratto insegnamenti. L’Unione Europea per esempio ha nel frattempo assunto la responsabilità militare per la pacificazione, da poco assicurata, del Kosovo. Ma da Sarajevo, un altro simbolo del fallimento di una convivenza tra diverse comunità religiose e culture, abbiamo imparato qualcosa per la nostra politica di immigrazione e per la nostra politica estera? Per ciò che riguarda la Repubblica Federale non direi.

 


3) Le manifestazioni contro la guerra in Iraq che il 15 febbraio del 2003 hanno portato nelle piazze di tutto il mondo qualcosa come 120 milioni di persone sono state salutate dai media americani come la nascita di una opinione pubblica globale in grado di sfidare la superpotenza americana. Eppure, nei suoi ultimi interventi, Lei si è per lo più limitato a parlare di nascita di un’ opinione pubblica europea e ha fatto notare, sollecitato al riguardo, come le ragioni e le motivazioni della protesta nell’Oriente islamico non possano essere associate a quelle occidentali. E’ forse questo il segno di una difficoltà a rendere fruibile oggi su scala globale la nozione di sfera pubblica come ambito dell’interazione dialogica, normativamente orientata all’accordo sulle regole dei sistemi democratici? E il drammatico primato che hanno oggi le tensioni e i conflitti tra diverse identità culturali, non dovrebbe indurre a valorizzare, al fine di un’ attivazione di una sfera pubblica post-nazionale, ancor prima del confronto tra ragioni, il reciproco riconoscimento della diversità di esperienze simboliche, comunitarie, emozionali?


Negli Stati Uniti il resoconto circa le proteste mondiali in quel fine settimana era piuttosto scarso e altamente selettivo. Comunque, come ho già detto, io penso che le ragioni e i motivi che hanno portato le masse in strada da una parte a Roma e a Londra, e dall’altra nel Medioriente e nel sud-est asiatico, sono esattamente tanto diversi, quanto le situazioni di vita di questi uomini. Questo è, se interpreto la cosa correttamente, lo sfondo della sua domanda: si lasciano risolvere dialogicamente tensioni e conflitti esistenti tra diverse forme di vita e identità culturali?
Il mio concetto di sfera pubblica non si riferisce assolutamente soltanto agli istituzionalizzati processi deliberativi e decisionali che hanno luogo nei parlamenti e nei tribunali. Esso include del tutto i processi comunicativi informali e “selvaggi”, non domati dalle istituzioni, collocati nelle sfere sociali raggiunte dai mass-media. Anche all’interno dei nostri stati nazionali, ciò che noi chiamiamo sfera pubblica politica è solamente un campo di risonanza per problemi che nascono nella società civile e che sollecitano l’agenda politica. Questa opinione pubblica non-organizzata si dà in forma tale da produrre, in un dissonante groviglio di voci, temi e contributi rilevanti, nei quali sono sempre anche presenti forme di espressione verbali o non verbali, polemiche o non polemiche. Una formazione del consenso è in questo caso assolutamente non necessaria, piuttosto lo è solamente all’interno delle istituzioni, dove devono essere prese le decisioni. Questo vale più che mai per una nascente sfera pubblica mondiale, che si cristallizza in maniera puntuale intorno a drammatici eventi come l’undici settembre o la campagna militare in Iraq.
In tutti i confronti è presente l’alternativa tra violenza e dialogo. Finché ci si riconosce reciprocamente come possibili partner di un dialogo, non ci si uccide gli uni con gli altri. Nella politica la comunicazione pubblica è in prima linea un medium per lo scambio di informazioni e opinioni e per la composizione degli interessi – per arguing and bargaining. Alcuni temi richiedono anche di conquistare empatia per ciò che all’altro è estraneo. In tali contesti la comunicazione di sentimenti può essere più importante della comunicazione di ragioni. Sentimenti morali sono già da soli ragioni implicite. Io qui non ci vedo nessuna contraddizione. Ogni tentativo di comunicazione ha come scopo quello di convincere l’altro di qualcosa, della verità di una asserzione, della giustezza di un divieto, del valore di una condotta di vita – oppure quello di far sì che io stesso mi convinca del contrario.
Se non si vuole esercitare violenza, ci si deve, come per esempio nella carta delle Nazioni Unite, mettere d’accordo sulle regole delle relazioni internazionali o della convivenza interculturale. Anche sull’interpretazione di queste norme ci sarà sempre di nuovo conflitto, ma un conflitto che può essere superato con argomenti. Solamente norme capaci di consenso possono assicurare una tollerante convivenza tra le collettività, che, sebbene siano l’una per l’altra estranee e così vogliano rimanere, si riconoscono reciprocamente nella loro alterità culturale.

 


4) Nel discorso tenuto alla fiera del libro di Francoforte poco dopo i fatti dell’11 settembre, Lei faceva notare come il fondamentalismo vada interpretato come l’effetto reattivo di una modernizzazione che non ha saputo offrire nessuna contropartita alla distruzione di forme di vita tradizionali, recidendo drasticamente i legami con le tradizioni religiose. Al di là dell’alternativa tra un modello restaurativo ed uno dissolutivo, Lei affermava quindi come l’urgenza del problema del rapporto tra religioni e società post-secolari vada sciolto oggi in chiave di traduzione. I contenuti religiosi tramandati devono essere valorizzati dalla sfera pubblica democratica e tradotti in valori e criteri fondativi per il mondo secolare.
E’ possibile leggere intorno al tema della religione uno spostamento della sua ultima riflessione, quasi un’ammissione del fatto che i principi normativi del Moderno non sono oggi più in grado da soli di costituire motori di integrazione sociale e di coinvolgimento collettivo?

Non lo direi in questo modo. Io difendo l’autocomprensione normativa del Moderno come sempre, per esempio contro persone che vorrebbero utilizzare la congiuntura di una rivitalizzazione politica del religioso, osservabile a livello mondiale, per spezzare la separazione tra Stato e Chiesa. Tendenze fondamentalistiche non si trovano solo nel mondo islamico, ma anche nelle comunità evangeliche degli Stati Uniti. La costituzione statale secolare, che ha reso per la prima volta possibile il pluralismo religioso, è una conquista della Modernità dietro la quale non ci possiamo permettere di ricadere. Ma ciò non ha niente a che vedere con un secolarismo avverso alla religione, che nega alle comunità religiose un ascolto di pari diritto nella sfera pubblica.
Questa riserva può unirsi al dubbio, se il Moderno, utilizzando le proprie riserve, sia in grado di mobilitare forze sufficienti contro una mutilazione economicistica ed uno straniamento scientista della nostra autocomprensione normativa. Fondamenti normativi contano per noi fino a quando ci comprendiamo come persone che agiscono in modo responsabile. Questa era un’ovvietà culturale, ma rimarrà tale? Abbiamo perciò buoni motivi per trattare con cura tutte le risorse normative.
Come filosofo secolare sono convinto con Hegel, che il passaggio dal Mito alle grandi religioni mondiali, che si è compiuto per la prima volta nel “periodo assiale” (Jaspers) a metà del primo millennio a. C., appartenga alla storia della Ragione stessa. Io sono contro un secolarismo che nega fin dall’inizio ogni contenuto cognitivo alle tradizioni religiose. Anche cittadini secolari non dovrebbero escludere che, nei dibattiti su questioni di rilevanza pubblica, potrebbero imparare qualcosa dai contributi religiosi dei loro concittadini. Anche queste voci dovrebbero trovare ascolto nella sfera pubblica politica. Si dovrebbe esser chiari sul fatto però che i potenziali semantici incapsulati nel linguaggio religioso hanno bisogno di una traduzione prima di poter guadagnare influenza politica. Poiché in una comune essenza liberale tutte le leggi sanzionate attraverso il potere dello Stato, tutti i giudizi di tribunale, le prescrizioni, i provvedimenti, devono non solo poter essere formulate ma anche giustificate in un linguaggio accessibile paritariamente a tutti i cittadini.

 

5) In Fatti e norme, Lei profila i diritti umani come quei diritti costituenti la condizione di possibilità dell’esercizio della volontà popolare e la volontà popolare come quel processo orizzontale in cui cittadini separati si uniscono riconoscendosi l’un l’altro i diritti fondamentali. L’instaurazione di corti internazionali, deputate a decidere circa l’azionabilità e l’applicabilità di diritti già dati, non rischia di svuotare questo rapporto di reciproca integrazione tra diritti umani e sovranità popolare ponendo i primi in una sfera preordinata ai processi di revisione democratica? Un processo di revisione transculturale dei contenuti dei diritti umani non dovrebbe costituire la precondizione all’estensione dei sistema dei diritti umani quale modalità regolativa di base cui tutti i sistemi politici particolari dovrebbero adeguarsi? E in cosa potrebbe consistere oggi questo processo?

Questa è una domanda interessante. I giudizi dei tribunali internazionali troveranno riconoscimento mondiale nella massa, così come sono accettate universalmente anche le norme che i giudici pongono a fondamento dei loro giudizi. D’altra parte, se prendiamo come esempio i tribunali internazionali fondati all’Aia, penserei che le fattispecie del nuovo diritto penale internazionale, che molto difficilmente hanno peso, sono anche pochissimo controverse. Si tratta di guerre d’aggressione e di autodifesa, di genocidio e di altri crimini contro l’umanità. Io non voglio contestare il fatto che l’applicazione di queste norme nel singolo caso possa essere controversa sulla base di valide ragioni. Ma questi crimini vengono meno a doveri negativi, che sono radicati così profondamente in tutte le tradizioni culturali, che in tali spettacolari occasioni c’è da aspettarsi piuttosto un grande accordo delle reazioni morali. Similmente vale per le procedure fondamentali della giustizia internazionale, che si ritrovano nella gran parte della tradizione giuridica. Ma la sua domanda ha un carattere più radicale. Quanto legittima sia la domanda, lo mostra la necessità di un dialogo interculturale sui diritti umani, che già dall’inizio degli anni novanta è stato condotto non solamente nell’ambito dell’Onu, ma anche a livelli del tutto diversi. D’altra parte la disputa sugli Asian values ha anche mostrato che questo conflitto interpretativo (come a suo tempo a Singapore) può essere manipolato dai governi autoritari per giustificare, attraverso gli imperativi dello sviluppo economico, la massiva limitazione di fondamentali diritti liberali. Non è affatto un caso che anche in altri continenti minoranze oppresse si avvalgano della retorica occidentale dei diritti umani. Dall’altro lato sono convinto che l’Occidente debba farsi ascoltare in un dialogo, condotto lealmente con altre culture, sulle false percezioni della propria tradizione.

 


6) La democrazia cosmopolitica (specie nella prospettiva di David Held) si presenta quale tentativo di introdurre la rule of law entro quei contesti regolativi transnazionali che attualmente funzionano senza alcun rispetto per le regole di trasparenza e di accountability. Di conseguenza, per controbattere le tendenze egemoniche delle superpotenze e delle lobbies economiche loro alleate che tendono a monopolizzare e influenzare i processi decisionali, la democrazia cosmopolitica difende il «principio dei coinvolti». Quale potrebbe essere oggi la via attraverso la quale costituire ambiti discorsivo-deliberativi che obblighino gli organismi politici internazionali a conformarsi alla volontà degli individui coinvolti in quelle questioni che spesso vengono affrontate più nelle green rooms che negli ambiti legittimante deputati a ciò? Crede che una modalità decisionale talmente complessa (che coinvolgerebbe non solo Stati, bensì anche Ong, gruppi sociali e culturali appartenenti alle differenti società civili, rappresentanti di gruppi etnici minoritari) possa integrarsi in un sistema delle Nazioni Unite opportunamente riformato?

In Fatti e Norme mi limitavo ancora soltanto al modello statal-nazionale. I legami di legittimazione, che nelle costituzioni statali democratiche sono istituzionalizzati con un grado di effettività se non pienamente soddisfacente, quanto meno sufficiente, non si lasciano tuttavia prolungare a piacimento molto al di là dello Stato nazionale. La sua domanda tocca perciò un problema di legittimazione irrisolto: finora non c’è stata alcuna proposta istituzionale convincente per un riagganciamento delle organizzazioni internazionali alla formazione della volontà delle popolazioni coinvolte dalle decisioni di queste organizzazioni. Anche le Ong, che non si costituiscono in maniera rappresentativa, non formano realmente un equivalente per l’agganciamento, venuto a mancare, di partiti politici parlamenti e burocrazie, di norma regolato nelle parti organizzative delle nostre costituzioni. Il quadro di una democrazia cosmopolitica proposto da David Held è troppo semplice. Per la costituzione politica della società mondiale ho proposto in Occidente diviso un altro modello, che prende sul serio l’idea di una politica interna mondiale senza governo mondiale, e divide il governare al di là dello Stato nazionale in due diversi livelli di funzioni sovrastatali: l’organizzazione mondiale su un livello sopranazionale si concentra essenzialmente su due funzioni, l’assicurazione della sicurezza internazionale e la diffusione globale dei diritti umani. Su un livello transnazionale, tra Onu e i singoli Stati, si dovrebbero formare regimi continentali ( sul modello di un Unione europea divenuta capace di agire), che potrebbero concordare e implementare insieme politiche per il superamento dei problemi globali, prima di tutto quelli relativi all’economia mondiale e all’ecologia.


(Traduzione dal tedesco di Giorgio Fazio e Federico Lijoi. Un ringraziamento particolare va a Katja Pufalt)


PUBBLICATO IL : 07-02-2005


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