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Intervista a Emilio Garroni
di Isabella Aguilar

 

 

Quest’intervista è la seconda di una serie destinata a sviluppare la questione dei rapporti tra filosofia e letteratura. Lei ha affrontato in diversi saggi l’argomento, con uno spirito che mi è parso offrire ottimi spunti per esplorare il territorio di una sorta di fenomenologia del testo narrativo, da pensare in relazione e in opposizione a una fenomenologia del testo filosofico.

1) Nel suo saggio Comprendere e narrare, Lei si chiede a quale condizione consideriamo un testo filosofico o narrativo (1) La questione è impostata in modo che i suoi termini sono il testo filosofico e il testo narrativo; intesi non tanto come due generi letterari quanto come “due modi di usare il linguaggio”; cosicché si tratta di determinare le condizioni di distinguibilità tra i due modi. Si tratta, Lei scrive, di condizioni “formali”, o “trascendentali”.
Ora, Lei qui affronta la questione mosso dall’intenzione di opporsi alla posizione di Rorty, e di quei neopragmatisti che arrivano a negare del tutto la possibilità di distinguere i due generi letterari. Lei, al contrario, tende a condurre il discorso oltre il piano degli usi linguistici in quanto tali per collegare i due modi alla loro comune radice esistenziale; a partire dalla differenza reciproca, lei mostra la complementarità delle due esigenze, in quanto radicate in modo diversissimo in una comune “volontà di senso”. I due “modi di usare il linguaggio” si fondano, dunque, sulla duplice definizione: del filosofico come dire comprendente-spazializzante e del narrativo come dire raccontante e temporalizzante. Comprendere e narrare risultano così due modi chiaramente distinti e distinguibili di rapportarsi all’esperienza, di elaborarne un sapere; due modi che stanno in un rapporto paradossale: di complementarità, ma anche di distinzione.
1. Il comprendere mira ad una unità di senso, perciò la sua condizione di possibilità non può essere che la verità («una qualche accezione della verità») o, come anche si esprime, la coerenza, il principio del “se…allora”.
2. Invece nel narrare ciò che innanzitutto conta non è la coerenza, quanto piuttosto lo stabilire una successione: la condizione del narrare è dunque quella dell’istituzione di un “prima…e poi…”.
Questi due principi, a loro volta, sono compresi come espressione delle due dimensioni “estetiche” dell’esperienza: la spazialità, la dimensione propria dell’uso del linguaggio come comprensione, e la temporalità, propria del linguaggio come narrazione.
Ora, quel che mi interesserebbe chiarire ulteriormente, sono i motivi che L’hanno condotta a porre l’accento con tanta determinazione sulla distinzione e distinguibilità della spazialità e della temporalità della nostra coscienza. Al punto da fondare proprio in questa distinzione quella tra i due modi del linguaggio e dell’esistenza che sono la comprensione e la narrazione. Mi sono chiesta se questa impostazione potesse dipendere, nella sua possibilità, dal fatto che nel definire il filosofico Lei parli di verità e di coerenza come di due concetti quasi indistinti. Voglio dire: una “coerenza” intesa in senso stretto, e non in sinonimia con un’idea più o meno forte di verità, non diventa un’istanza parimenti anche della narrazione? E in questo caso non sarebbero piuttosto allora, rispettivamente nel testo filosofico e nel letterario, la “coerenza come adeguazione” e la “coerenza come coerenza interna” ad essere in questione?


Lei afferma giustamente che le due dimensioni del linguaggio, spazialità e temporalità, che io ipotizzo nel mio saggio, sono soltanto formali e non danno luogo a due classi separate di testi, i testi filosofico-scientifici e i testi narrativi. Io quindi non parlerei di separatezza di quelle due dimensioni. Pur opponendosi, si richiedono a vicenda. Sarebbe come dire che c’è separatezza tra ordine sintagmatico e ordine paradigmatico. Forse io non mi sono spiegato sufficientemente, ma quelle due dimensioni, la spazialità e la temporalità, sono proprio e soltanto formali e concorrono entrambe alla realizzazione di qualsiasi testo o atto linguistico.
In particolare, per tornare al nostro argomento, i testi, la stessa comprensione spazializzante non può prescindere, al suo interno, da una narrazione temporalizzante, implicita e anche esplicita. Una comprensione, qualsiasi comprensione, nasce non come Minerva dalla testa di Giove, ma da una storia intellettuale e anche letteraria, non foss’altro in funzione della primaria formazione filosofica di chi si sforza di comprendere, se non addirittura dall’intera sua storia personale. Ciò non getta alcun discredito sul comprendere. Non si tratta di una storia che determina o causa la comprensione, ma di antecedenti esperienziali di diverse nature entro cui sorge via via una comprensione, per quanto ci è possibile, spazializzante e temporalizzante insieme.
La stessa cosa si deve dire di un testo narrativo: non c’è narrazione che non implichi una comprensione del mondo in cui viviamo. Se non abbiamo compreso nulla, non possiamo neppure raccontare: il racconto non nascerebbe neppure o, a una comprensione minima, si articolerebbe soltanto in forma schematica e, più che ingenua, rozza. Una storia, per essere avvertita come storia, deve presupporre e nello stesso tempo contenere una comprensione o più modi di comprensione raggiunti o ipotizzati o ricostruiti e in ogni caso anche manifestati nel testo.
Proprio per ciò, quando distinguo testi filosofici e testi narrativi, non li separo gli uni dagli altri, come lei stessa riferisce correttamente, ma guardo piuttosto alla modalità dominante nei vari testi. Voglio dire: io guardo alla modalità dominante, nel momento in cui lo faccio. Ma altri, e io stesso in altri momenti, potrebbero avvertire come dominante l’altra modalità. Ciò non crea confusioni inestricabili per i testi in cui una dominanza è indiscutibile o quasi, ma solo un’ambivalenza nei casi che appartengono a una zona d’intersezione, non mai determinabile con esattezza, tra i due gruppi di testi.
Per quanto riguarda la caratterizzazione spaziale (che, come è ovvio, non è immediatamente spazialità percettiva) come se essa rispondesse a un “se... allora...”, questa espressione logica, come mi pare di aver detto esplicitamente, è solo un espediente facilitante, che simboleggia la compresenza degli elementi che costituiscono una comprensione e che prende le mosse da un particolare tipo di comprensione o di verità, e che tuttavia può essere applicato analogicamente anche ad altri tipi di verità. (Lei certamente ha visto il mio saggio dedicato alla famiglia dei significati di verità, in cui elenco alcuni esempi possibili, ma non tutti, dei significati della parola “verità”). Per esempio si applica anche alla filosofia, non in stretto senso logico, quando essa incontra ai confini della riflessione paradossi insuperabili in cui si accordano concetti opposti: “determinato”-“indeterminato”, “particolarità-totalità”, “senso-nonsenso”, e così via. Per esempio: se c’è qualcosa di determinato nella nostra esperienza, allora deve esserci anche una sua indeterminatezza, e viceversa. Infatti il pensiero deve giungere almeno a mettere in chiaro, evitando contraddizioni distruttive per il pensiero stesso, anche quei termini opposti, che paradossalmente debbono anche richiedersi l’un l’altro. Quindi, non credo che si possa dire che “verità” e “coerenza” siano concetti diversi che vanno definiti ciascuno in modo diverso, innanzi tutto perché la “verità” non è affatto definibile univocamente (è una famiglia di significati, non una classe), in secondo luogo perché la “coerenza” logica è solo un membro di quella famiglia.
In sostanza i termini “spazialità” e “temporalità” debbono essere intesi non solo in riferimento alla spazialità e temporalità percettiva, ma anche, per estensione, al linguaggio comprendente-narrante, come, rispettivamente, “simultaneità” e “successività”. Che poi ci sia anche una coerenza narrativa, certo, si può dire, basta mettersi d’accordo sulle parole usate. Ma non si tratta della medesima coerenza, se non nella misura in cui una narrazione implica una comprensione, ma piuttosto di un plausibile venir l’uno dopo l’altro dei successivi, un loro snodarsi l’uno dall’altro come se essi appunto con-seguissero l’uno dall’altro (non in senso logico, appunto, neppure largo, né in senso analogico “filosofico”!).
Tuttavia io non credo che questo tipo di coerenza debba essere attribuito necessariamente alla narrazione in generale, che prevede anche, di solito intenzionalmente e anche non intenzionalmente, salti, incongruità, sovrapposizioni di storie diverse e non omologabili, contrapposizioni di comprensioni inconciliabili, e addirittura contraddizioni. Infine la coerenza narrativa è vicina al verosimile aristotelico. Ma la narrazione moderna, e non solo moderna, spesso usa la categoria opposta, quella dell’inverosimile. (E non mi riferisco naturalmente ai romanzi di fantascienza, ma a scrittori classici, da Dostoevskij a Joyce, da Musil a Kafka, da Calvino a Bernhard, ma anche Rabelais o Cervantes o Swift o Diderot o tanti altri).


2) In Comprendere e narrare, arrivati alla risposta secondo cui la narrazione si fonda innanzitutto nella temporalità, e la comprensione nella spazialità, pare che non si possa proseguire l’indagine, essendo tempo e spazio nozioni “liminari o trascendentali”. Ma poi di fatto lei prosegue un passo oltre: esiste, si chiede, un qualche modo per saperne di più della temporalità, che sia legittimo? E la risposta è positiva: possiamo pur sempre chiederci, lei scrive, se esista e come e quando si manifesti un’esperienza qualitativa primaria della temporalità. L’esplicito presupposto di questa questione nuova è, come lei scrive, che la temporalità non sia consustanziale alla coscienza, quale che sia la sua forma, ma che essa si instauri nella coscienza solo ad un certo punto e in un certo modo, durante la fase di latenza, comportando una sua trasformazione. Mi interesserebbe chiarire meglio questa Sua affermazione. Quel che Lei suggerisce è di pensare una coscienza ancora senza temporalità, ma già “spazializzante”? Una coscienza incentrata sull’astratto principio di comprensione come coesistenza strutturata e priva di memoria? Mi è parso che una tale concezione emerga per esempio dalla sua descrizione della condizione del bambino fino a 4-6 anni come una condizione edenica, onnipotente, immortale, assolutamente spaziale-spazializzante. «L’esperienza prende forma in una mappa priva di tempo», si legge; mentre non è ancora possibile comprendere nemmeno che una storia sia propriamente una storia. Influenzata dalla mia esperienza personale, leggendo il Suo saggio ho pensato per esempio che invece io ho ricordi abbastanza precisi già dei miei due anni e mezzo, organizzati in quelle che mi sembra di poter chiamare sequenze temporali vere e proprie.
In questo modo Lei intende forse suggerire un rapporto forte tra sviluppo della capacità linguistica e della temporalità da un lato e sviluppo della capacità percettiva, pre-linguistica, e di una capacità logica, sincronica, di comprensione dall’altro? (2)

Le sembra imperseguibile e sorprendente che io voglia sapere qualcosa di più della temporalità, dato che il tempo stesso sarebbe un trascendentale non ulteriormente esplicitabile. Non voglio affatto saperne di più, dato che non è possibile. Ma anche il trascendentale è una presupposizione necessitante e, come tale, dobbiamo forse riuscire a capire come funziona e si attiva nella nostra coscienza. Questo è il problema che mi sono posto e sul quale ho formulato un’ipotesi, sulla base di un fatto che, mi pare, non può essere facilmente revocato in dubbio. Vale a dire: la connessione tra il venire a sapere della propria nascita, di cui in prima persona non sappiamo nulla, solo per testimonianze esterne, e l’insorgere di una coscienza della temporalità.
In un mio ultimo libretto, di prossima pubblicazione, dico che spazio e tempo sono indisgiungibili nella stessa percezione spaziale. Ora vedo più chiaramente e in modo più preciso il perché. Ma anche nel saggio cui lei si riferisce la questione non sta tanto nel tempo agito, o che ci agisce, quanto appunto nella coscienza della temporalità. Forse io ho usato qualche espressione equivoca. Tuttavia, non metto in dubbio che anche il bambino si muove in uno spazio secondo una scansione di momenti del tempo. Del resto, lo fa anche un gattino, come scrivo non senza un tono scherzoso. Ma una coscienza della temporalità, cioè la finitezza, il non-essere già da sempre, l’avere coscienza dell’esperienza del mondo anche nella sua storicità, non sembra ancora imporsi nell’età in cui ci sforziamo di dominare l’ambiente circostante spazialmente mediante un’intelligenza senso-motoria. Infatti non si pone neppure un problema dell’essere o non-essere già da sempre, ma, per così dire, si è già da sempre nel momento in cui semplicemente si è. Il che genera ciò che tecnicamente si chiama “onnipotenza”. Si tratta, naturalmente, di un’onnipotenza fragile, ma gli opposti si accordano anche, e forse soprattutto, nella coscienza della prima infanzia. Non so se la mia ipotesi sia in tutto e per tutto accettabile. Per la verità ciò che dico non solo è frutto di mie osservazioni non sistematiche, ma mi è stato anche confermato da seri specialisti di psicoanalisi infantile, che non ho citato solo per non coinvolgerli. (Non a caso un trattamento psicoanalitico per i bambini consiste soprattutto nel manipolare oggetti, nel comporli, scomporli, giocarci insomma, e non in una relazione propriamente linguistica).
In particolare, può darsi che lei abbia ricordi di quando aveva due anni e mezzo di “sequenze temporali vere e proprie” . Ma questa non solo non è un’obiezione che mi riguarda, dal momento che io non ho detto che nello spazio in cui il bambino si forma non ci siano scansioni di momenti del tempo, ma anche che è un’obiezione raramente da prendere per oro colato. I nostri ricordi, suoi e nostri, che risalgono a quell’età sono sempre assai dubbi. Può darsi che noi ricordiamo correttamente. Ma penso anche che lei, come tutti, abbia ricordi dell’infanzia che il tempo trascorso, le tante informazioni dirette o indirette avute successivamente dall’ambiente familiare e in ogni caso la loro ulteriore elaborazione possono aver trasformato in modo da farci ricordare oggi le poche immagini più o meno statiche di ieri in una sequenza chiarissima, esattamente come accade nel riferimento di sogni durante la veglia.


3) Vediamo dunque, dall’indagine sull’esperienza originaria della temporalità come successione, cosa derivi in merito alla questione della narrazione. Alla domanda su quale sia questa esperienza-chiave della temporalità, e dunque della finitezza, Lei risponde: non si tratta di una qualche esperienza della mortalità; piuttosto, «prima della morte, cronologicamente dunque, il bambino deve incontrare il mistero della propria nascita». La nascita, lei dice, «è il mistero attraverso il quale nel bambino matura la coscienza della propria finitezza nel senso del non essere già da sempre». Attraverso questa esperienza matura l’io nella sua “originalità” e “irriducibilità”, come un essere contingente rispetto a un’origine che affonda in un abisso insondabile. Mi sembra di capire che, questa della propria nascita, sia un’esperienza che riguarda tutti, e che dunque non sia destinata a trasformarsi necessariamente in un essere-per-l’origine filosoficamente deciso, paragonabile e speculare rispetto all’essere-per-la-morte heideggeriano.
Comunque sia, mi interesserebbe comprendere meglio perché lei assegni tale privilegio all’esperienza dell’origine: sia nel primo insorgere di una consapevolezza della finitezza, sia nell’elaborazione eventualmente decisa di un pensiero legato alla finitezza, non è possibile che l’esperienza della propria nascita e quella della propria morte possano svolgere di diritto lo stesso ruolo, in quanto si richiamano vicendevolmente come i due estremi che testimoniano della finitezza dell’uomo? E non è possibile che dunque, di fatto, sia magari aleatorio quale delle due consapevolezze preceda l’altra?

Forse siamo più d’accordo di quanto non facciano pensare le sue osservazioni e le mie risposte. Lei pensa che spazialità e temporalità agiscano da subito nella coscienza, fin dalla primissima infanzia, e che via via maturino in una coscienza linguistica e riflessa più complessa. Per un certo verso ha ragione, come ho già detto, dato che una pura spazialità non è neppure concepibile. E’ precisamente ciò che dico anche nel mio saggio. Ma, per altro verso, non capisco perché lei si rifiuti di avvertire e riconoscere l’insorgere forte della temporalità via via che nasce la coscienza dell’essere nati e si forma l’idea che la realtà vissuta è per noi anche storica. Il nascere della coscienza dell’essere nati è un fatto “straordinario”, alla lettera, per ognuno di noi. Un fatto che conferma nello stesso tempo la predominanza della spazialità prima che esso accada.
La sottovalutazione di questo fatto fondamentale mi lascia perplesso e mi riesce difficile capire come si possa non valutarlo nel suo carattere decisivo, anche nel senso dell’essere-per-la-morte. Lei vorrebbe riunire in un’unica coscienza della finitezza e l’essere nati e il dover morire, e ciò fin dalla prima infanzia. Io credo che sia una violazione immotivata, sulla base della coscienza adulta, dell’effettivo svolgersi della formazione di una coscienza del mondo nell’infanzia. Certo, per un adulto, il problema della morte è generalmente più incalzante e invasivo di quello della nascita. Eppure resta il fatto che la coscienza dell’essere nati precede la coscienza del dover morire, e in certi casi ci sembra forse più sorprendente che noi, proprio noi, siamo nati una volta. Almeno per me accade qualcosa del genere. Non mi è chiara, poi, l’osservazione che, dato che la scoperta di essere nati e l’abisso che così si spalanca alle nostre spalle “è di tutti”, essa non sarebbe destinata a trasformarsi in un essere-per-l’origine “filosoficamente deciso, paragonabile e speculare all’essere-per-la-morte heideggeriano”. Forse la filosofia non avrebbe il compito di comprendere proprio ciò che è di tutti? Se non fosse così, che senso avrebbe l’essere-per-la-morte heideggeriano? Sarebbe solo una concettualizzazione svolta separatamente dall’esperienza nel felice recinto della filosofia? E che ne sarebbe allora della filosofia? Sarebbe solo uno sport specialistico per pochi eletti?


4) La questione è di particolare interesse anche perché lei sostiene, sulla base di questo presupposto, che tutti i racconti, tutte le narrazioni, non fanno che tematizzare implicitamente il mistero dell’origine. Appoggiandosi alle conclusioni di Kerenyi, lei sostiene che nel mito questa tematizzazione sarebbe esplicita. Nel mito, infatti, (per esempio nelle teogonie greche o nel Genesi) il tema della morte è secondario rispetto a quello della nascita. La mitologia risponde in primo luogo non al “Perché?” ma a “Da dove? Da quale origine?”, è mito iniziale, non finale; a livello implicito ogni narrazione non sarebbe che una ripetizione del tema dell’origine.
Ora: un testo narrativo, si muove di volta in volta nelle molteplici sterminate scelte che implica una singola storia da raccontare, limitate da un inizio e da una fine che è anche il fine a cui ogni parola tende; se la narrazione ha per tema implicito il mistero, questo non è dunque il mistero della finitezza in entrambe le sue “facce”?
Mi spiego meglio: mi piace pensare alla narrazione come ad un modo esemplare di accettare entrambi i momenti, l’inizio e la fine in quanto non assolutamente motivabili, e di farli “cortocircuitare”, di dimostrare che comunicano internamente come le due facce della finitezza; un modo di lavorare, sporcandosi le mani, con questi due momenti, praticando una accettazione attiva, positiva, un dire sì nei confronti del mistero, in quanto è ciò che circonda l’opera così come è ciò che circonda noi, relativamente a entrambi gli estremi (dell’opera come della vita)…


La risposta sta tutta nella frase “tematizzare implicitamente”. L’espressione, lo riconosco, può essere infelice e trarre in inganno, ma quell’“implicitamente” dovrebbe fugare ogni sospetto. Non ho voluto dire che tutte le narrazioni puntino sul mistero dell’origine. Io porto soltanto esempi in cui ciò accade, senza pretendere di riferirli all’intera letteratura narrativa. Nella narrativa, senza dubbio, i temi sono i più svariati, in funzione, come lei dice, delle «molteplici sterminate scelte che implica una singola storia da raccontare». Io dico soltanto che il racconto rievoca quel mistero dell’origine in continuazione, in forme anche occulte, per il fatto stesso che si decide di cominciare a narrare una storia e in un certo senso si rinasce con quella decisione. Naturalmente, nello stesso tempo, esso si riferisce anche all’essere-per-la-morte, e quindi alla vita stessa.
Si può essere d’accordo o no sulla mia interpretazione, che è senza dubbio alquanto “speculativa”, nel senso di “non verificabile”, ma non si può opporre ad essa il fatto che, nell’ambito delle infinite scelte che offre la vita nella sua finitezza stretta da nascita e morte, ci sono tante storie diverse e diversamente motivate, che tematizzano esplicitamente infiniti altri argomenti. Questo è semplicemente ovvio.

5) Nelle sue interessanti considerazioni sulla favola, è spesso oggetto di critica l’interpretazione strutturalista di Propp e, specialmente, la sua radicalizzazione in Lévi-Strauss; Lei mette in evidenza, per esempio, quanto sia inadeguato, se la natura della narrazione è la successione, considerare il ritorno dell’eroe come il semplice inverso della partenza. Dall’altro lato, però, Lei ha anche sostenuto che la fiaba è un esempio di non-racconto; essa inizia con quel “C’era una volta” che, Lei dice, significa propriamente “c’era e non c’era” (come in effetti recitano i narratori maiorchini). E quell’indeterminatezza temporale non avrebbe un valore negativo solo nei confronti della verosimiglianza (come sembrerebbe a me), ossia con quella coerenza come verità-adeguazione, ma avrebbe un valore negativo anche nei confronti della coerenza interna, e del suo carattere di coerente successione temporale: la favola e il mito, Lei dice, «sono più simili a un congegno strutturale che a una vera e propria storia, ricca della contingenza che costituisce ciò che di più caratteristico ha una storia: sono sistemi più che processi». Insomma, in base a quelle che potrebbero sembrare caratterizzazioni discordanti, mi piacerebbe chiarire ulteriormente la sua concezione della favola: per Lei si tratta o meno di una narrazione?

Alla sua domanda-obiezione si può rispondere rapidamente. Ne ho trattato solo di sfuggita, ma non mi pare proprio di averne dato caratterizzazioni discordanti. Anche questo argomento deve essere considerato da un doppio punto di vista, temporalizzante e spazializzante. Infatti le mie critiche agli strutturalisti, più che a Propp, vertono sul fatto che essi considerano le fiabe come solo strutturali, fornite cioè di una struttura addirittura calcolabile, annullando completamente il versante temporale. Io sostengo invece che la fiaba è un particolare testo orale, in cui spazialità e temporalità svolgono un ruolo alternante o, in certi casi, paritetico. Così che, se non è possibile ridurre la fiaba, e tanto più qualsiasi altro racconto in modo ancora più forte, a pura struttura, non è possibile neanche ridurla a pura narrazione. Questo, dal punto di vista dello studio della fiaba. E dico inoltre che per un verso le fiabe si apparentano ai miti, in cui l’ambivalenza spazialità-temporalità privilegia nella forma la prima, pur essendo essi sorti su una coscienza mitologica della temporalità. La ripetizione che è propria dell’uso del mito e della fiaba, e che i bambini addirittura pretendono dai raccontatori adulti di quest’ultima, è una conferma che la comprensione spazializzante è in molti casi prevalente, tale da assomigliare a un’ispezione di uno spazio di oggetti-eventi per ricollocarli continuamente al loro posto e acquetare l’ascoltatore. Ma, naturalmente, fiaba e mito possono essere riletti dagli adulti in modo opposto, privilegiando la successione e non la coesistenza. Credo, in particolare, che le riduzioni delle fiabe in cartoni animati facciano precisamente questo.


6) In Un esempio di interpretazione testuale: “Korrektur” di Thomas Bernhard, Lei si interroga sulla distinzione tra testo filosofico e letterario (e scientifico) a partire dalla prospettiva dell’interprete, del lettore in quanto interprete: la domanda guida del saggio è infatti cosa significhi interpretare un testo. E tale domanda subito si articola internamente: le condizioni di interpretabilità di un testo variano a seconda del genere letterario. Lei sostiene così che i testi “scientifici” per essere interpretati dipendono da una condizione di verità intesa come adeguazione all”’extratestuale”. Che i testi “filosofici” non sono sottoposti rigidamente a quella condizione, ma certamente a una “condizione di con divisibilità”, ossia hanno il carattere strutturale del poter essere discussi. Invece, il testo letterario richiede solo una “condizione di partecipabilità”, una “partecipazione intellettuale-emotiva”.
Il lettore, nel testo narrativo non cerca una verità obiettiva, e nemmeno una condivisione, ma una partecipazione identificante. Ciò dipende dal fatto - lei dice - che in linea di principio sempre vi si narra di noi, di una storia che potrebbe essere la nostra. Nella necessità dell’identificazione si rivela così la nostra inseparabilità dagli altri, poiché l’alone di indeterminatezza che costitutivamente ci circonda «è il luogo del possibile e comune a tutti, dove ogni storia si unisce nell’idea o nella coscienza puramente emotiva di una storia in genere». L’esigenza che ci spinge, sul fondamento di questa possibilità, a interessarci di volta in volta a un testo narrativo, non potrebbe essere considerata, invece, quella di incontrare un’altra determinatezza in quanto tale?
Non si tratta forse, per la narrativa, di “regole del gioco” diverse e complementari rispetto a quelle filosofiche? Nessun filosofo, immagino, accetterebbe di concepire un mondo senza narrativa. Almeno tanto quanto non accetterebbe di essere ridotto a narratore, come sembrerebbe voler fare Rorty. Questo perché filosofia e narrativa sembrano scaturire da istanze diverse. Se l’elemento comune alle due è la sfida alla finitezza, il fatto di doverne avere un’esperienza, l’elemento di distanza, mi sembra, è il modo in cui questa finitezza è avvertita, innanzitutto emotivamente: per il filosofo, nella gran parte della tradizione occidentale, si è trattato finora di un “nemico da combattere”, nella misura in cui la si è voluta cogliere frontalmente e non piuttosto guardare-attraverso, per usare una Sua felice espressione. Per il narratore si tratta invece di piegarsi tanto continuamente quanto volontariamente alla finitezza. Ma il narratore può legittimamente mettere la parola fine alla sua singola opera d’arte, mentre il filosofo non può fare nulla di simile alla conclusione del suo testo. E paradossalmente, ciò è collegato proprio alla pretesa di unicità del lavoro filosofico e alla pretesa di ulteriorità, in sé e negli altri, del lavoro letterario…

A proposito dell’interpretazione del testo e delle ragioni che ci spingono a leggerlo e interpretarlo, ho cercato di dire tutto ciò che si poteva dire nel saggio al quale lei si riferisce. Non credo che sia lecito dire di più. Il di più fa parte delle infinite ragioni personali e circostanziali che si associano, connotandola fortemente, alla ragione principale: ritrovare in una storia la nostra storia o la possibile storia che non ci appartiene e che in tal modo diventa anche nostra, noi stessi in altri, e gli altri in noi, infine: il mondo stesso, in cui viviamo o potremmo vivere, e nella sua determinatezza e nell’indeterminatezza di fondo che vi si associa. Qual è, lei domanda, la «profonda esigenza che c’è dietro a questa condizione di partecipabilità»? Che dire? Non credo che sia, come lei dice, l’esigenza «di incontrare un’altra determinatezza in quanto tale». Una determinatezza in quanto tale ci lascerebbe del tutto indifferenti: sarebbe un ente, una cosa. E’ un’esigenza più radicale che include anche l’indeterminatezza di ciò che è determinato. Essa ci appartiene in quanto specie umana, tale che l’individuo non sopravvive se non socialmente e non può comprendere il mondo che lo avvolge se non attraverso una percezione interpretante, che coglie il determinato in un alone di indeterminatezze, e un’intelligenza linguistica che è già di per sé, per definizione, sociale e aperta anch’essa all’indeterminatezza semantica, che permette appunto le tante determinazioni possibili. Entro questo quadro vive una storia che dipende anche dalla storia degli altri. Un individuo, infine, può riconoscersi tale solo in quanto sociale, volto al controllo dell’ambiente circostante, alla conoscenza e alla comprensione, nonché alla coscienza della propria intrinseca storicità determinata-indeterminata.
Quanto all’immagine che lei propone del filosofo e del narratore, in cui il primo combatterebbe la finitezza come un nemico e il secondo vi si piegherebbe volontariamente, non si tratta di un’immagine che abbia significato. Nel caso del filosofo (lei sa bene come la penso su questo punto), non è affatto vero che egli abbia la finitezza di fronte a sé, dato che la stessa finitezza è un’unità di determinato e indeterminato avvolgente, non una “cosa”. L’espressione “guardare attraverso” e ciò che essa comporta, intende prendere atto innanzi tutto di questa situazione imbarazzante del cosiddetto filosofo, e per questo il suo sforzo di comprensione, che esige internamente di essere ultimativo, è invece sempre costretto a ritornare su se stesso per comprendere di nuovo. Ma anche il narratore, badi, si trova in una condizione simile: la parola “fine”, posta al termine di un romanzo, così come il suo stesso inizio, non sono affatto un inizio e una fine in tutti i sensi. L’inizio potrebbe essere diverso e la fine potrebbe essere prolungata a piacere, se una storia raccontata è il proseguimento letterario della nostra storia, della storia del gruppo a cui apparteniamo, di una storia che intravediamo in un altrove storico o in un altrove solo possibile. Del resto, in quanto anche comprensione, una storia non può avere inizio e fine tassativi. Inizio e fine sono però espedienti utili praticati, accettati e spesso utilizzati sapientemente, per tentare di raccogliere una storia in un tutto unico: compito impossibile e tuttavia capace di illuderci che quel tutto unico è riuscito.


7) Torniamo alla domanda sul significato dell’interpretare un testo narrativo. Secondo lei, in ogni testo si dà un “principio regolativo” tale che, se non garantisce mai la giusta e definitiva interpretazione, tuttavia la impone in linea di principio, salvandola dal rischio di esser presa per soggettiva, momentanea, contingente. Ma questo principio regolativo, lei dice, è di volta in volta interno al testo; dunque il testo dev’essere: «il riferimento primario dell’atto interpretativo testuale», nel senso che un’interpretazione non deve essere costruita a priori e applicata al testo ma deve rivelarsi attraverso il testo stesso. I principi regolativi dell’interpretazione immanenti al testo narrativo, se ho ben capito, non sono che “temi”. Cos’è un tema? Come individuarlo? In base, lei scrive, alla sua “centralità” e alla sua ricorrenza.
“Centrale” è quel tema che tende sul piano interpretativo (e non necessariamente già su quello narrativo) a porsi al centro di una costellazione di temi e a fornire loro una chiave interpretativa. “Ricorrente” è quel tema che, non solo per ripetizione materiale, riesce a far risaltare, nell’interpretazione, “una ossessione letteraria”.
Mi piacerebbe che lei si soffermasse ancora sulla sua definizione del tema come “ossessione letteraria”. Non pensa che un tema letterario possa essere compreso proprio come la legittimazione di un’ossessione?(3)
Vorrei, in conclusione, tornare al suo saggio su Bernhard. Coerentemente con quanto sostiene, Lei decide di offrire qui ciò che solo è lecito offrire: vale a dire, un singolo esempio di interpretazione testuale, “non esemplare”. Ma, al contrario, leggendo il testo, la scelta di “Correzione” di Bernhard e del tema di Altensam, sembrano rispondere ad un criterio di esemplarità. Si tratta infatti del tema del “luogo d’origine”, di cui abbiamo a lungo parlato: «Altensam non è tanto un luogo dell’Austria quanto quella contingenza che ci è toccata in sorte, che può soffocarci e annientare ogni nostro talento come pure è la sorgente di ogni nostro talento e possibilità».
Una piccola provocazione: lei si ricollega così alla sua posizione secondo cui ogni narrazione ha come tema implicito il mistero dell’origine; ma attraverso la scelta proprio di questo autore, di quest’opera e di questo tema, che esplicitamente è quello dell’origine, non fa quello che criticava, ossia non sta applicando una teoria interpretativa a priori ad un testo?

La sua insistenza sul tema del narrare quale “ossessione”, un’ossessione costante o variabile di racconto in racconto, l’esperienza (singolare o no che sia) di un mondo e l’incontro con gli altri che ne consegue (dal nostro punto di vista, ma in qualche modo anche da quello degli altri) viene incontro sostanzialmente alle mie idee dichiarate e non dichiarate e mi trova quindi sostanzialmente d’accordo, anche se lei esprime la cosa in modo, come dire?, molto più appassionato di me, perfino troppo. (Io penso, voglio dire, che anche la letteratura narrativa, oltre alla passione, richieda riflessione e presa di distanze dalla stessa ossessione coltivata costantemente, perché questa risulti davvero appassionante e, come dire?, profondamente contagiosa). Anche per la filosofia, perché no?, si può dire qualcosa di simile, come lei suggerisce interrogativamente, ma con ancora maggiori cautele che nella narrativa. L’ossessione si manifesta qui, infatti, con il pensare e ripensare i problemi, in un certo senso l’unico problema possibile, che è appunto la comprensione del nostro essere nel mondo come esseri finiti che possono e non possono nello stesso tempo cogliere il mondo nella sua totalità. L’ossessione deve essere costantemente filtrata attraverso un atteggiamento critico “rigoroso” (parola che sul momento non so come sostituire, sebbene essa indichi un rigore non logico), mentre concessioni troppo forti all’irruenza delle ossessioni potrebbero portare diritto a concezioni o visioni del mondo di tipo religioso-metafisico.
Sulla faccenda della esemplarità o non-esemplarità della mia interpretazione di Bernhard bisogna mettersi d’accordo sul punto principale. Questo: che qualsiasi interprete che abbia lavorato seriamente su un testo non può non ritenere esemplare, da una parte, il risultato che ne ha tratto e, dall’altra, non-esemplare, nel senso che deve essere cosciente della singolarità e della non dimostrabilità, in senso stretto, della sua interpretazione. O almeno di questo: che l’esemplarità di un’interpretazione vale per l’interprete finché non venga smentita da un’interpretazione anche solo in parte diversa che venga ritenuta da lui più aderente al testo e più esplicativa. Ora che lei dica che la mia interpretazione sarebbe invece proprio e in tutti i sensi esemplare perché risulterebbe da una teoria interpretativa a priori, mi lascia interdetto. Io ho fornito solo un’ipotesi, plausibile o no, dell’idea di letteratura narrativa in generale, delle ragioni della sua genesi in quanto letteratura in generale, senza alcun riferimento a testi particolari, che so benissimo, ovviamente, che non la confermerebbero puntualmente. Io avrò pure scelto un testo che mi stava particolarmente a cuore e che rispondeva a mie esigenze diverse, come del resto fanno tutti, ma la questione è di vedere se la mia interpretazione funziona oppure no. Ebbene, a me pare che, corretta o no, la mia interpretazione segua precisamente il testo, quale principio regolativo, alle condizioni che ho precisato nel mio saggio, e si sforzi di restituirne il senso di fondo. E’ legittima quindi una sola operazione: interpretare diversamente quel testo e stare a vedere quale interpretazione risulti più convincente.

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1) “Comprendere e narrare”, in E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza 2003.

2) In Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale [Laterza 19952], a questo proposito, si legge: «Come c’è una analogia tra la processualità del conoscere e la percezione delle cose nel tempo, così è dato di scorgere una parallela analogia tra il loro organizzarsi conoscitivo più o meno sistematico, e in ogni caso in praesentia, e la percezione delle cose nello spazio, dove esse stanno per così dire “tutte insieme”. Non è insomma stravagante pensare che l’esperienza sensibile spaziale possa essere considerata come un caso osservabile o quasi-osservabile, e insieme una sorta di “precursore” del sapere e del conoscere, in quanto sistematici».

3) Mi spiego: dicevamo, prima, di come l’esperienza della scrittura e della lettura di un testo narrativo sia un’esperienza implicita della finitezza in quanto mistero della nascita, e della morte, della fatica della nascita e della disperazione della morte. L’esperienza della scrittura, e della lettura, è una di quelle esperienze del mistero della finitezza non negative, non ascetiche, non mistiche, ma proprie della vita attiva e inserite nel mondo degli altri, e da questo mondo esplicitamente riconosciute, e per le quali viene tutelato uno spazio sociale legittimo. La vertigine di dover iniziare, trovare un filo e lasciarne degli altri, concludere: questo è il cuore di finitezza dell’esistenza con cui “in scala”, e però esemplarmente, mi sembra, si confronta la scrittura narrativa.
Si possono vivere tante vite letterarie, lasciarsi ossessionare da tanti temi, o da uno solo, per un paio d’ore o per un’intera vita, ma la condizione è l’intensità dell’ossessione nel momento di viverla, il gioco è che la si prenda sul serio.


PUBBLICATO IL : 06-02-2005


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