«Finitezza è uno dei modi in cui  l’ermeneutica comprende se stessa e si de-finisce». Questa considerazione è  posta all’inizio dell’ultimo libro di Donatella Di Cesare, in apertura del  primo capitolo che dà il nome al testo, Ermeneutica della finitezza. Il genitivo  è volutamente lasciato alla sua ambiguità: il concetto di finitezza attraversa  infatti come un filo rosso tutta l’ermeneutica filosofica, la quale non è altro  che un’interrogazione sulle nozioni di finito, limite, confine. E al tempo  stesso l’ermeneutica adotta dal proprio oggetto, la finitezza appunto, la forma  del pensare, comprendendosi come filosofia finita. In questo suo congedarsi  dall’assoluto mostra pertanto il suo timbro tipicamente novecentesco.  
  Interrogarsi sul limite  «nell’epoca della mondializzazione» in cui viviamo, che sembra votata alla hýbris  dell’illimitato, pare essere un gesto del tutto inattuale. Eppure la  rivendicazione del finito, che porta con sé un modo altro di intendere  l’infinito stesso, è proprio l’istanza che l’ermeneutica avanza e sulla quale  Di Cesare punta lo sguardo. 
  Con una  scrittura sobria e al tempo stesso coinvolgente Di Cesare ripercorre le  «peripezie» che la nozione di finito ha sperimentato nel corso della storia  della filosofia. All’alba del pensiero occidentale i greci scorgono nel  concetto di limite una connotazione positiva; il limite ha un «valore epifanico»,  iniziale,  perché de-finisce l’ente  facendolo venire alla luce dall’essere indeterminato. Non è  negazione dell’illimitato, non è una fine, nel senso in cui noi oggi siamo  indotti a pensarlo, ma è piuttosto il segno dell’essere, ovvero, per usare le  parole di Heidegger, «ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza» (Costruire,  abitare, pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 103).  Sarà poi il cristianesimo a concepire la negatività come nihil negativum,  negatività assoluta, contrapposta all’infinità dell’Assoluto che si presume  perfetto nella sua compiutezza, illimitato. La sorte del finito è così quella  di diventare sinonimo di imperfezione, mancanza d’essere, privazione.  Certamente tale privazione non si configura come negazione tout court,  in quanto viene resa relativa, perché il finito continua a relazionarsi  all’infinito. Nondimeno tutta la filosofia moderna erediterà dal pensiero  cristiano la secondarietà teologica e ontologica del finito, esorcizzando in  tal modo l’idea di una finitezza ontologica consustanziale all’essere umano. Da  Cartesio a Nietzsche il concetto moderno di soggettività si fonda così sulla  negazione del limite comprendendosi come pseudo-infinità che si presume  assolutamente libera e illimitata.  
È solo a  partire da Kant che «il finito può essere pensato come finitezza»  (p. 19) e che l’infinito, a sua volta, non è più concepibile come eliminazione  del limite, ma piuttosto come «l’inizio illimitato della delimitazione» (p.  29). Solo in quanto la conoscenza umana è consegnata alla ricettività, dunque è  limitata, è possibile l’oltrepassamento del limite, la trascendenza. Se prima  di Kant la filosofia si comprende necessariamente come philosophia perennis,  dopo Kant è obbligata ad assumere la propria costitutiva incompiutezza e ad  ammettere di essere esposta all’erranza e alla storia. Ciononostante in Hegel  si ripropone l’idea della negatività come una «deficienza», una «manchevolezza»  (Enciclopedia, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 73) che va annientata nel  movimento vittorioso dell’«epopea» dello spirito assoluto. La finitezza è in  lui «vittima sacrificale e sacrificata» (p. 34), in nome di un infinito  compreso ancora una volta come ab-solutus, ovvero sciolto da ogni  limite.  
Nel XX secolo  lo sforzo di Heidegger sarà quello di sollevare il finito dall’oblio in cui lo  aveva riposto la metafisica tradizionale e per la prima volta la finitezza si  presenta come finitezza originaria, contrassegno ontologico dell’Esserci  de-finito come temporalità. La costituzione originaria e fondamentale dell’Esserci  finito è la comprensione dell’essere, quindi la trascendenza, in quanto il  movimento del comprendere è trascendente. Quel che accade in Heidegger, però, è  che il movimento del trascendere non si dirige verso un infinito. Quest’ultimo  viene invece negato. Ogni rapporto con l’infinito viene meno e il movimento  trascendente dell’esistenza non fa che rimarcare il limite, ridelimitarlo,  ridefininendo ogni volta il confine del finito. Heidegger riprende il péras dei filosofi  greci, il limite rievocato nel suo significato iniziale e inaugurale, ma  annulla qualsivoglia rinvio all’infinito. 
  Muovendo da  questa ontologia fondata su una finitezza originaria, che non si richiama più a  nessun infinito, e che anzi lo nega, Di Cesare pone un interrogativo che si rivela  essenziale alla comprensione del compito di cui vuol farsi carico l’ermeneutica  filosofica: «una filosofia della finitezza può fare a meno dell’infinito?» (p.  45). La risposta di Gadamer è che l’ontologia heideggeriana deve riprendersi nell’ermeneutica, dove riprendersi significa rimettersi dalla malattia dell’ontologizzazione del linguaggio che espelle da sé ogni infinito, ricominciare  pur seguitando a partire dalla finitezza della comprensione. Di Cesare non  si stanca di ribadire che l’ermeneutica mette in scacco ogni filosofia  dell’intuizione che presume di dire l’essere rimanendo nell’identità e che  proprio per questo alla fine non dice nulla, rinuncia al lógos.  
Che  l’ontologia sia necessariamente ermeneutica sta allora a significare che la  filosofia rinuncia all’intuizione dell’essere nella sua immediatezza e accetta  di dover comprendere l’essere dianoeticamente, ovvero passando necessariamente al linguaggio. La parola  è marca di finitezza e al tempo stesso apre all’infinità del processo di comprensione.  L’ermeneutica è la filosofia che ammette la propria finitezza, ammette cioè di  essere assegnata a un comprendere che deve fare sempre e di nuovo i conti con  il non-comprendere. È per questo che per Gadamer non potrà mai darsi una parola  definitiva, né quindi una comprensione ultima. Ed è anche per questo che il  problema posto da Heidegger di un superamento della metafisica viene a cadere  agli occhi di Gadamer, perché il linguaggio non è più il limite di una  chiusura, ma un «ponte»,  capace di indicare esso stesso «una via oltre»  (p. 52). 
Nello scarto che l’ermeneutica  filosofica produce rispetto all’ontologia heideggeriana il discrimine  fondamentale è segnato dalla ripresa di Platone. Non il Platone che la Scuola  di Tubinga ha eletto a rappresentante dell’idealismo metafisico, ma il Platone  reinterpretato da Gadamer come padre della dialettica, cioè di una filosofia  che prende sul serio il discorso, concependo il non-essere come essere-altro.  Riprendendo il «non» reclamato dallo straniero di Elea, inteso come cifra della  differenza, Gadamer conferisce così, contro Heidegger, di nuovo cittadinanza  all’infinito, non come assoluto perfetto e indicibile, ma come «differenza del  non-essere nel suo differenziarsi infinito»   (p. 23). La dialettica platonica svela che per dire l’essere occorre  dire altro da ciò che esso è e che per fare questo è necessaria una  riabilitazione del non-essere. «L’infinito che accoglie la negatività, accetta  di tradursi – di tradirsi – in una parola negativa. Pur di essere, accetta di  essere in-finito, o meglio in-definito – nel linguaggio» (p. 25). L’infinito di  Gadamer non ha più niente a che fare con l’Assoluto della tradizione, non  annichilisce la finitezza, non la occulta, piuttosto vi si consegna affidandosi  al día del linguaggio, al méson del discorso. Così  Gadamer si erge ad «avvocato» della cattiva infinità hegeliana e restituisce al pensiero  l’infinità, senza intaccarne però la costitutiva finitezza, destinando in tal  modo la dialettica all’apertura aporetica.  
«Nell’ermeneutica  il limite è inteso come altro. Il limite dice che c’è altro» (p.  60). Ogni esperienza del limite (che sia avvertito nella non-comprensione di  cui facciamo dolorosamente esperienza ogni volta che tentiamo di comprendere o  di essere compresi, o sia avvertito nel tempo che si sottrae o nella morte che  incombe e che sfugge, nella propria imprevedibilità, a ogni comprensione) è  esperienza della finitezza, dell’oltre, dell’altro.  
  Il Dasein heideggeriano davanti alla morte, che è il suo limite più proprio, è solo; il  limite è chiusura perché non c’è l’altro ad aprirlo. Per Gadamer, al contrario,  il limite è l’inizio augurale che dà sull’altro, l’apertura di possibilità  ulteriori. L’ermeneutica sceglie la via del linguaggio per mostrare il rinvio  del finito all’infinito, il legame indissolubile di limite e illimitato,  rinunciando così a una fondazione ultima. 
  La parola è la  ferita della nostra finitezza che però si rivela capace di aprire al dialogo  in-finito con l’altro. «Il limite di ogni parola è ogni volta l’inizio di un  infinitamente nuovo» (p. 66). L’ermeneutica si situa così nel mezzo, in quel  punto centrale che è l’hikanón platonico, la parola comune, il punto in  cui i parlanti convengono per poter iniziare ogni volta a dialogare. Parlare è übereinkommen,  con-venire, disporsi ad essere insieme all’altro nel Miteinander, nella  reciprocità.  
  A partire da  qui, ereditando il lascito gadameriano, Donatella Di Cesare tenta di rispondere  alla sfida lanciata dall’«improbabilità» (per usare il commento di Forget) di un dialogo tra ermeneutica e  decostruzione. Un dialogo iniziato da Gadamer e Derrida stessi (nell’incontro a  Parigi dell’aprile 1981) e presto interrotto, cui Di Cesare dà di nuovo voce  muovendo proprio da quella interruzione. Per Derrida la rottura, la cesura, è  originaria, mentre per Gadamer l’interruzione è la stella che squarcia una  costellazione per prometterne una nuova. L’interruzione, così come viene intesa  dall’ermeneutica, segna l’inizio di un dialogo che, se pure non sanerà mai del  tutto la frattura, sarà tuttavia infinito, in-interrotto. 
  Se dunque  Gadamer, avvicinandosi a Derrida, si distanzia da Platone, rifiutando l’idea  esposta nel Fedro per la quale la scrittura non è che mera copia della  voce, si discosta altresì da Derrida nella misura in cui quest’ultimo  conferisce alla scrittura una supremazia sulla voce, limitandosi così a  invertire i termini della relazione gerarchica. Gadamer insiste piuttosto sul  nesso inscindibile tra oralità e scrittura.  
  Il testo, come  la voce, prende parte al movimento dialettico del linguaggio, costituendo il  momento della differenza nell’unità del dialogo infinito. Lo scritto reclama la  voce, ma ciò che è orale è sempre destinato alla scrittura. Il passaggio tra  oralità e scrittura è dato dal leggere, inteso come ridare voce che, a partire dal segreto dell’articolazione che incide i limiti, gli articuli,  sia nella materia fonica che in quella grafica, garantisce la continuità tra  lingua e scrittura. Ora, se la voce mantiene per Gadamer «sia la prima parola  sia l’ultima» (Fenomenologia del rituale e del linguaggio, in Linguaggio,  Laterza, Roma-Bari 2005, p. 172), questo accade perché il parlare, quale si dà  ogni volta nel dialogo, costituisce per l’ermeneutica l’unità di un continuum  discontinuo, mentre lo scritto segna la differenza dell’interruzione. Pertanto  «l’ermeneutica comprende il comprendere a partire dall’unità del dialogo  ininterrotto, la decostruzione a partire dalla differenza dell’interruzione»  (p. 96). Per Gadamer lo scritto è il frammezzo che interrompe la continuità  della voce dando luogo al circolo ermeneutico di identità e differenza ed è la  lettura a ripristinare ogni volta il nesso continuo tra oralità e scrittura.  
Di  Cesare mette a fuoco un punto cruciale nel dialogo tra ermeneutica e decostruzione,  ovvero il fatto che Gadamer, contestando l’immediatezza del collegamento tra  voce e presenza operato da Derrida nella sua condanna al logocentrismo,  intuisce un limite della decostruzione, «un limite per così dire ancora da  decostruire» (p. 99). Purtroppo Gadamer non ha avuto il tempo di approfondire  questa intuizione, per cui lo sforzo di Donatella Di Cesare è per l’appunto  quello di decostruire questo limite, di proseguire il dialogo oltre  l’interruzione della morte di Gadamer. 
  La domanda che  l’ermeneutica potrebbe porre alla decostruzione suonerebbe così: perché mai «la  voce assunta nella sua corporeità empirica non dovrebbe essere per la presenza  a sé della coscienza una forma d’esilio come lo è la scrittura» (p. 99)?. La  voce, come la scrittura, fa parte del linguaggio che è medium di presenza e  assenza. La critica di Derrida, giustamente rivolta alla voce fenomenologica  che si pretende disincarnata, non sussiste se riferita alla voce ermeneutica,  considerata nella sua corporeità empirica e nel suo nesso con l’articolazione.  La voce, come la scrittura, ospita anch’essa la differenza, in quanto partecipa  dei limiti del linguaggio. Ogni detto, infatti, rinvia a un non-detto, a  un’assenza inappropriabile che garantisce l’infinità di ogni dire. La voce  ermeneutica è la voce dell’altro, è già sempre differita, impura,  rinviata all’altro. L’esigenza espressa da Di Cesare è dunque la necessità che  «la voce riemerga dal nascondimento a cui è stata condannata dalla  decostruzione» (p. 101), richiamando la coappartenenza di voce e scrittura  nell’articolazione. Viene smascherato in tal modo il processo di rimozione che  il lógos occidentale ha messo in atto rispetto alle proprie condizioni  materiali, che coinvolgono in uno stesso abbraccio sia la scrittura che la  voce.  
  Il confronto  tra Gadamer e Derrida viene approfondito ulteriormente in riferimento alla  questione del comprendere. Forse è proprio il tema del Verstehen che può  gettare luce sulla prossimità o la distanza tra ermeneutica e decostruzione.  Ciò che le distingue è il punto di partenza: la decostruzione muove  dall’interruzione, dal non-comprendere originario, là dove l’ermeneutica  filosofica prende le mosse, invece, dalla Zustimmung,  dall’«assenso» (p. 110) che il parlante dà a ciò che è partecipato (Mitgeteiltes)  nel momento in cui articola il proprio sé nei suoni significativi della lingua  storica in cui parla, la quale, prima di essere sua, è già sempre altrui. In  questo senso Gadamer riprende un tema caro all’ermeneutica classica, che è  quello della comunanza della lingua (Schleiermacher, Ermeneutica,  Rusconi, Milano 1996, p. 303). La «comunanza della parola è condizione del  parlare e del comprendere» (p. 136). Di qui la tesi gadameriana tanto discussa  – spesso in modo superficiale – secondo cui «l’accordo è più originario del  disaccordo». Di Cesare precisa che coloro che hanno colto in questa frase il  pretesto per accusare l’ermeneutica di farsi guidare da un intento in fondo  conciliativo non tengono abbastanza in conto che nel gioco della comprensione e  del dialogo l’accordo è destinato a mutarsi sempre in disaccordo per la  differenza individuale all’opera nel parlare. «Non si dà accordo senza  disaccordo, non si dà un comprendere privo di interruzioni» e, se è vero che  l’interruzione si iscrive per l’ermeneutica nella costellazione della lingua  condivisa, è anche vero che il Bruch, la ferita, l’urto (Anstoß)  dell’incomprensibile rimane intrascendibile. Questo interrompersi del nostro  comprendere è ciò che i greci chiamavano l’átopon, il «senza luogo» o  «fuori luogo», ciò che appare estraneo, strano, straniero, quel che irrita,  interrompe, disloca, differisce. L’ermeneutica ha bisogno di questo urto  impresso dalla differenza per mettere in moto il processo della comprensione.  Comprendere è così comprendere altrimenti, comprendere differentemente, andare  in esilio, migrare nella differenza dell’altro per scoprirlo e scoprirsi sempre  diversi. La differenziazione investe anche, infatti, il sé del soggetto  ipostatizzato dalla metafisica tradizionale. Da ciò deriva lo statuto  paradossale del dialogo che sarà tanto più riuscito quanto meno perverrà  all’armonia consensuale tra le parti; tanto più, in tal caso, trasformerà l’io  e il tu coinvolti in esso, ciascuno portando la parola dell’altro, ciascuno  tentando di tradurre l’intraducibile che rimane come residuo ineliminabile di  ogni comunicazione. Il dialogo è infinito, ed è per questo che anche il dialogo  tra Gadamer e Derrida si fa molto più che probabile: l’esperienza disseminale  accorre al dialogo con l’ermeneutica salvaguardando quel resto di  illeggibilità, quella cesura di incomprensibilità che costituisce la  differenza, lo iato, l’interruzione ineliminabile di ogni dialogo e  comprensione del mondo.   |