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Giorgio Pini, Scoto e l’analogia. Logica e metafisica nei commenti aristotelici , Scuola Normale Superiore (Pubblicazioni), 2002.
di Iacopo Costa

Il problema dell’analogia – analogia dell’essere, dell’ente o del bene – non è un problema che possa essere riferito ad un solo ambito della speculazione filosofica: esso è infatti innanzitutto un problema metafisico, in quanto riguarda l’analisi del rapporto tra la sostanza e gli accidenti che a questa ineriscono, è un problema logico e semantico, in quanto riguarda la possibilità che un medesimo termine sia predicato di qualcosa secondo modalità differenti, è un problema teologico, attraverso il quale si esamina la possibilità, o eventualmente l’impossibilità, di formare concetti univoci a Dio e alle creature, è un problema epistemologico, poiché varia la conoscenza di dati termini a seconda che il rapporto tra essi sia analogo o univoco o equivoco, è infine un problema etico, poiché la natura del bene, e dunque del bene umano, va intesa analogicamente all’interno del rapporto che questa intrattiene con il Bene sommo.

Diversamente da altri problemi suscitati dalla lettura del corpus aristotelicum, la riflessione sull’analogia – principalmente grazie all’opera di Boezio, tanto la sua opera di traduttore della logica aristotelica quanto la sua produzione originale, in particolare i primi capitoli dell’Aritmetica – attraversa tutti i secoli medievali, ed è al centro di discussioni accese tanto nel periodo alto-medievale quanto nell’età della scolastica; tanto più complessa risulterà la speculazione tardo-medievale, grazie alla traduzione dal greco e dall’arabo della quasi totalità delle opere aristoteliche a cavallodei secoli XII e XIII.
Se la speculazione metafisica genialmente concepita da Scoto nel suo commento alle Sentenze di Pietro Lombardo ha attirato, conquistandone l’attenzione, gli storici della metafisica e della teologia medievali, al contrario la sua attività di commentatore delle opere di Aristotele è stata lasciata decisamente in ombra dalla storiografia più o meno recente. A questa lacuna si propone di porre in parte rimedio il volume di Giorgio Pini dedicato alla trattazione scotista della questione dell’analogia dell’ente nei commenti alle opere aristoteliche, ovvero alla Metafisica, alle Categorie e agli Elenchi sofistici. L’attenzione maggiore è dedicata al commento per questioni alla Metafisica, e in ciò l’impresa dell’autore è tanto più degna di attenzione, in quanto tale testo è da sempre noto a causa della sua estrema oscurità.
Il volume costituisce certamente un importante complemento non solo agli studi scotistici, ma anche allo studio storico e comparativo delle teorie ontologiche e semantiche tardo-medievali.

In un primo capitolo introduttivo l’autore ricostruisce, da un punto di vista storico, le tappe fondamentali della carriera ‘scolastica’ di Scoto: la sua formazione, la sua attività in seno all’ordine francescano di cui era membro, la cronologia dei suoi scritti; la ricostruzione così offerta è ampia e precisa, basata su una bibliografia aggiornata e selezionata con cura.
Nel secondo capitolo vengono descritte le teorie dell’analogia dell’ente subito precedenti l’età di Scoto (si tratta di testi e autori che coprono grossomodo la seconda metà del secolo XIII): in tal modo l’autore illustra preliminarmente quali siano i più rilevanti problemi concettuali sui quali interverranno la critica e le innovazioni di Scoto; vengono così rapidamente, ma con estrema precisione e chiarezza, analizzate le posizioni di Tommaso d’Aquino, degli Incerti autores (due anonimi commentatori degli Elenchi sofistici), di Radulfo Brito e di Guglielmo di Bonkes.
Nei restanti capitoli (III-VII) è esposta la dottrina originale di Scoto sull’analogia dell’ente.
Secondo la sistemazione classica della questione dell’analogia – la sistemazione di Tommaso d’Aquino accettata dalla maggior parte dei suoi contemporanei – l’analogia è un fenomeno tanto ontologico quanto semantico: la dipendenza ontologica degli accidenti dalla sostanza trova una correlazione nel modo di significare del termine ‘ente’, il quale significa in primo luogo la sostanza, in secondo luogo gli accidenti che a questa ineriscono, e dunque di questa si predicano. Secondo Scoto, al contrario, è impossibile parlare di analogia sul piano semantico: se da un punto di vista ontologico è possibile che l’essere venga riferito primariamente alla sostanza e secondariamente ai suoi accidenti, non è invece possibile che un medesimo termine, come il termine ‘ente’, significhi per prius et posterius. Un termine infatti può significare ciò che è primo per noi e ciò che è primo in sé, ma tale termine può essere utilizzato per significare allo stesso titolo tanto ciò che è primo per noi tanto ciò che è primo in sé senza che in tale maniera di significare sia rispecchiata la dipendenza ontologica di ciò che è primo per noi da ciò che è primo per natura; inoltre, un termine significa in modo distinto il proprio significato, e la sua capacità significativa è del tutto indipendente da eventuali rapporti di dipendenza di tutti i suoi significati; in tal modo Scoto ha soppresso, esclusivamente da un punto di vista logico, sia bene inteso, la classe dei termini intermedi tra gli omonimi e gli univoci, ossia i termini analoghi (pp. 51-57).

Nei commenti alle Categorie e agli Elenchi sofistici Scoto aveva sostenuto una dottrina dell’equivocità dell’ente; nella sua opera teologica al contrario, ossia nel commento alle Sentenze, era la possibilità di un’univocità dell’essere a venire teorizzata. Come spiegare una simile contraddizione all’interno del pensiero del maestro francescano? Nel capitolo V del suo volume, la cui lettura, non risulta in verità estremamente agevole, Giorgio Pini individua nella prima questione sul libro IV della Metafisica il testo che maggiormente testimonia l’evoluzione del pensiero di Scoto sull’analogia; il commento alla Metafisica sarebbe stato scritto da Scoto, almeno in alcune sue parti, dopo i commenti all’Organon e prima dei commenti al Lombardo. La prima questione sul libro IV, tramandataci in una forma piuttosto incoerente, sarebbe il risultato della fusione di due redazioni differenti della questione medesima, una prima redazione, in cui la risposta al problema dell’analogia era sostanzialmente identica a quella fornita nelle opere di logica, e una seconda redazione, in cui comincerebbe ad essere formulata una teoria dell’univocità dell’ente. Prova di questo fatto sarebbe che ad alcuni argomenti esposti in tale questione a favore dell’univocità, argomenti ai quali, secondo la forma più diffusa e coerente della quaestio, ci si aspetterebbe una critica in sede di soluzione delle rationes in contrarium, non si trovi alcuna risposta; tali argomenti in favore dell’univocità dell’ente sarebbero dunque ritenuti validi.
Gli ultimi due capitoli del volume (VI-VII) concludono l’esame del pensiero di Scoto circa lo statuto ontologico delle categorie ed il rapporto tra accidenti e sostanza. A differenza di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Scoto non pensa che sia possibile dimostrare, ovvero dedurre, la sufficentia praedicamentorum, ossia, secondo Scoto, la divisione dell’essere nelle dieci categorie è rigorosamente indimostrabile. Le dieci categorie sono infatti i generi supremi e costituiscono la divisione massimamente prima dell’ente; ma se si intendesse procedere ad una deduzione delle categorie dividendo preliminarmente l’essere in sé (la sostanza) dall’essere in altro (gli accidenti), e si cercasse poi di dividere l’essere in altro secondo altre sottodivisioni arrivando ad ottenere così dieci predicamenti, o le dieci categorie, il requisito secondo qui queste fossero le divisioni massimamente generali dell’ente risulterebbe evidentemente disatteso. La divisione dell’ente secondo le dieci categorie è appropriata e immediata, e dunque non può essere dimostrata; le categorie vanno intese piuttosto come essenze realmente distinte tra loro. Così facendo Scoto imposta i termini del dibattito sulla distinzione reale delle categorie che attraverserà tutto il XIV secolo.

Da ultimo viene analizzato il problema del rapporto tra accidenti e sostanza; l’autore intreccia felicemente l’esame di un problema metafisico con l’esame di un problema teologico, ossia il problema del rapporto tra sostanza e accidenti nel sacramento dell’Eucarestia. Nodo centrale del problema è di capire se l’inerenza, ossia l’inerire di un accidente ad una sostanza, rientri nella sua essenza oppure no. L’autore (p. 184) considera il punto più innovetivo della dottrina di Scoto l’affermazione che l’inerenza – ossia la dipendenza ontologica dalla sostanza – non rientra nell’essenza dell’accidente: gli accidenti sono considerati formalmente enti per se stessi, e ciò, secondo l’autore, rispecchia sul versante ontologico il rifiuto dell’analogia dell’ente da un punto di vista semantico; affermare che le categorie sono enti per se stessi, non significa mettere in dubbio la loro reale dipendenza dalla sostanza, ma solo affermare che la dipendenza dalla sostanza non rientra nella loro definizione, dunque non rientra nella loro essenza.

PUBBLICATO IL : 06-04-2005

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