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Elena Tavani, Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo. Estetica e politica , manifestolibri, 2010.
di Dario Cecchi

Con questo importante e bel libro Elena Tavani, che insegna Estetica all’“Orientale” di Napoli, fa un bilancio del suo dialogo ermeneutico con una delle maggiori pensatrici politiche (e probabilmente pensatrici tout court) del Novecento: Hannah Arendt. Ci si potrà forse chiedere come avviene che ci si avventuri nei sentieri della teoria politica (Arendt rigettava la dizione “filosofia politica”, a suo parere troppo compromessa da una lunga vicenda storica) provenendo dagli studi estetici.

È il pensiero di Hannah Arendt che sembra offrire questa opportunità: nella parte finale della sua vita e della sua attività (ma dopo un lungo e quasi sempre silenzioso confronto, testimoniato dal Denktagebuch) Arendt si è avvicinata alla Critica della facoltà di giudizio di Kant per ricavarne i termini di una non riconosciuta filosofia politica kantiana, che non discenderebbe dalla ragion pratica ma dal giudizio riflettente. Arendt riduce e quasi dimentica a volte le tematiche specificamente estetiche che attraversano e innervano questa opera. Di questa anomalia si è tentato di dare conto in vari modi, da quando le Lectures arendtiane su Kant sono state pubblicate postume nel 1982.

Sintetizzando, nella tarda riflessione sul giudizio estetico inteso come giudizio politico si sono intese cose diverse e a volte contrastanti: il senso comune, che da regola ideale del giudizio di gusto Arendt trasporta nel terreno politico e lo trasforma in «senso della comunità», è stato variamente interpretato come una razionalità allargata e inclusiva, come un appello ai valori immediatamente condivisi da un comunità politica storicamente determinata, o più recentemente da Alessandro Ferrara come il tentativo di introdurre nelle forme dell’agire politico una razionalità non fondata su norme ma sulla costruzione di casi esemplari.

A questa ultima e innovativa interpretazione del giudizio politico arendtiano – interpretazione che ha il grande merito di riportare nel dibattito sul pensiero di Arendt il tema, insieme estetico e politico, dell’esemplarità – mi sembra che si possa ricollegare l’operazione di Elena Tavani, che però va oltre i confini di un ripensamento del solo giudizio estetico/politico. Effettivamente l’idea che Arendt avesse in mente la capacità di pensare per esempi, di un ragionare né deduttivo né induttivo, bensì a partire da configurazioni fattuali che si impongono per la loro ricchezza di senso, mi sembra la più convincente tra le interpretazioni del significato del giudizio politico in Arendt.

Questo apre però una serie di prospettive e di problemi, a cui il lavoro di Tavani tenta di dare risposta. Se possiamo considerare le nostre parole e azioni politiche suscettibili di un apprezzamento in quanto esemplari di un certo modo di concepire le relazioni umane, in che mondo vanno a collocarsi queste parole e queste azioni? Tavani compie appunto l’operazione di riportare lo spinoso problema dell’intersecarsi di estetico e politico nel pensiero di Arendt a quello che doveva essere il suo contesto: l’opera incompiuta e pubblicata postuma sulla Vita della mente. È qui che ritroviamo i punti d’appoggio per comprendere più a fondo le intenzioni di Arendt: teorizzare un mondo – quello in cui ci incontriamo, agiamo e condividiamo le nostre imprese – che non è altro che un mondo delle apparenze, un mondo in cui siamo tenuti a considerare le cose nel loro mostrarsi e nel loro chiamarci dentro una condivisione “sensibile”.

Tavani ribalta la questione e ci parla di uno «spettacolo del mondo»: potremmo anche dire che si tratta del mondo che ci si presenta come spettacolo. In questo modo, allargando la questione dell’intreccio tra estetico e politico in Arendt, perveniamo a una posizione estremamente originale, che resta peraltro implicita, o perlomeno non pienamente sviluppata, nella categoria arendtiana di «mondo delle apparenze»: il mondo non è, come vuole per esempio il pensiero di Heidegger, il luogo di un abitare poetico; il mondo è precisamente il luogo del vedere come modalità originaria dell’essere uomo. L’uomo vede e, attraverso l’atto del vedere, entra intimamente in rapporto con il mondo che lo circonda: in altre parole, vedere e agire nel mondo sono due attività intimamente connesse. Grazie a questa fondamentale ricognizione è possibile recuperare anche il progetto più specifico di Arendt di rileggere la terza Critica kantiana come un testo di filosofia politica.

Anche su questo mi pare che Tavani faccia compiere un originale passo avanti alla teoria arendtiana del giudizio politico. Arendt si è concentrata soprattutto sul gusto, ossia sulla capacità di giudicare in base a un “immediato” mi-piace o non-mi-piace, che non rimanda a nessuna norma universale, ma che si sforza di costruire un consenso effettivo tra i soggetti giudicanti, aprendo così le condizioni per uno spazio pubblico. Tavani allarga lo spettro dei concetti estetici kantiani suscettibili di un’interpretazione politica – e la cosa è del massimo rilievo, se si considera che su questo punto Hannah Arendt ha esitato – alla nozione di “idea estetica”, elaborata da Kant quando discute dell’opera d’arte e in particolare dell’opera d’arte di genio. Hannah Arendt non ha del tutto negato la possibilità di associare l’agire politico e il fare artistico, ma non entra nello specifico della teoria dell’arte kantiana, limitandosi a suggerire un parallelo tra l’attore politico e il cosiddetto “artista esecutore”, ovvero il performer che “agisce” la sua opera d’arte in uno spazio pubblico (Arendt ha in mente molto semplicemente il musicista, che necessariamente esegue la sua arte).

Elena Tavani suggerisce di considerare le idee estetiche – quelle rappresentazioni dell’immaginazione, teorizzate da Kant quando tratta dell’arte di genio, che ci consentono di allargare i confini del pensabile, dando figura a ciò che (le idee della ragione, che hanno innanzi tutto un valore etico), non è suscettibile, in linea di principio, di qualsivoglia esibizione sensibile – come princìpi d’azione politica. Rispetto all’idea arendtiana di uno spazio pubblico che pare di volta in volta aprirsi o riconfigurarsi a partire dall’esibizione di un artista-attore politico, introducendo la nozione di idee estetiche, con la loro forza di imporre all’attenzione nuove e concrete configurazioni di senso, è possibile pensare il carattere intrinsecamente storico dell’agire politico: storico nel senso, affine al pensiero di Arendt, di Walter Benjamin, di una storia che accade nella contingenza e non è predeterminata da idee astratte su che cos’è la storia o da forme storiche fisse (lo Stato, la guerra come strumento di azione ecc.). È un tema che resta in Arendt in parte eluso, in parte affrontato secondo diverse prospettive, come quella del poeta che giudica imparzialmente gli eventi e ci restituisce il senso delle storie degli uomini, senza pretendere di dar vita una Storia universale del genere umano. Questo modo di concepire la storia, sembra suggerire Elena Tavani, ha appunto bisogno di pensare un mondo come luogo in cui le azioni diventano spettacolo per l’umanità stessa.

 

PUBBLICATO IL : 19-09-2011

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