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Alain Badiou, Inestetica , Mimesis, 2007.
di Dario Cecchi

La casa editrice Mimesis ha deciso di pubblicare nel 2007 due testi del filosofo francese Alain Badiou: il Court Traité d’ontologie transitoire e appunto il Petit Manuel d’inésthetique, i cui titoli nell’edizione italiana suonano più brevemente Ontologia transitoria e Inestetica. Questa scelta editoriale rende disponibile al lettore italiano tutti e tre i volumi di una trilogia che comprende l’Abregé de métapolitique, pubblicato in Italia da Cronopio con il titolo, di nuovo abbreviato, di Metapolitica. La cura è stata affidata al giovane studioso di problematiche psicanalitiche e psicopatologiche Livio Boni, la cui attività di ricerca si svolge tra Italia e Francia. La collana in cui Mimesis pubblica l’opera di Badiou s’intitola Volti ed è accattivante per la sua veste grafica, che risponde bene al progetto di pubblicare filosofi del 900 e contemporanei.
Già dal titolo capiamo che Badiou elabora una filosofia dell’arte in polemica con l’estetica, colpevole di aver costruito il suo discorso attorno al nucleo centrale della coscienza riflessiva, capace di provare piacere di fronte alle opere d’arte. Con gesto rapido e sicuro il filosofo francese prende le distanze anche dal riproporsi della condanna platonica dell’arte come copia di una copia della vera realtà, che sono le idee. Non contano il piacere del soggetto per le opere d’arte, nemmeno nella sua declinazione psicanalitica, o la possibilità d’imitare fedelmente la natura, ma il grado di verità che le opere d’arte sono capaci d’istituire. Lontano tanto dalla coscienza estetica moderna quanto dal platonismo, Badiou da’ l’impressione di non riuscire a liberarsi altrettanto facilmente della posizione di Heidegger. Heidegger sarebbe per Badiou responsabile di una linea «romantica», legata alla tradizione filosofica tedesca, colpevole di considerare l’arte il «corpo reale del vero».

Su questo punto viene da muovere un’obiezione a Badiou. È poi così pacifico il fatto di considerare Heidegger semplicemente un romantico, incapace di cogliere la vita se non sotto forma di qualcosa d’ineffabile, soprattutto se prendiamo in considerazione il Saggio sull’origine dell’opera d’arte? Qualsiasi filosofia che ponga la questione della verità dell’arte non è piuttosto debitrice del contributo heideggeriano? L’idea di Badiou dell’arte come operazione di verità non nasconde profonde affinità con l’idea di Heidegger dell’opera d’arte come messa in opera della verità?
La questione può essere riformulata in questi termini. Per Badiou va verificato in che misura l’arte può mettere in opera la verità nell’epoca delle formazioni politiche di massa. Badiou non può condividere con Heidegger tanto il metodo, quanto lo sfondo politico in cui va ad inscriversi la filosofia dell’arte. Concetti come «terra» e «mondo» (e sullo sfondo quello di popolo) non trovano spazio nell’impostazione di Badiou. All’ontologia heideggeriana Badiou contrappone un recupero di Spinoza comune ai pensatori della sinistra francese. Il filosofo ebreo del 600 è visto come un referente privilegiato per ripensare la politica nel quadro di un’ontologia dell’umano. Badiou approda perciò ad una metafisica politica che interpreta l’opera d’arte come operatore dell’azione politica delle masse.

Il progetto di Badiou è ambizioso e l’autore lo porta avanti con la sicurezza propria di uno dei più noti pensatori contemporanei di lingua francese. Il punto debole del libro emerge quando Badiou tenta di interpretare una serie di autori (poeti, romanzieri, cineasti) nel quadro di questa metafisica dell’arte di massa. Badiou sembra a volte cadere in un romanticismo ben più forte di quello che egli stesso imputa a Heidegger. Il caso dell’interpretazione di Mallarmé è il più notevole. Tentando di ribaltare l’impostazione lirica di Mallarmé, Badiou finisce per legittimare la posizione di colui che prende le distanze tanto dalle convenzioni borghesi quanto dalla possibilità di comunicare effettivamente con le masse. Il rapporto tra autore e massa è un autore sempre rimandato: la posizione dell’autore è troppo d’avanguardia per le masse, che non riescono a costituirsi come pubblico. Alla filosofia dell’arte di Badiou manca un adeguato concetto (politico) di  pubblico. Si tratta di un concetto di solito privilegiato dalle estetiche d’impostazione kantiana, quando tematizzano il carattere politico dell’arte e dell’estetico. Badiou, spinozista e perciò a favore di una visione immanentista della realtà, non può introdurre un concetto come quello di pubblico, che porta tradizionalmente con sé l’idea di un distanziamento riflessivo del soggetto nei confronti dell’opera d’arte o dell’esperienza estetica in genere. Che si preferisca questa o quella posizione, il libro di Badiou ha il merito di porci di fronte ad un’alternativa radicale e di costringerci a prendere posizione per l’una o per l’altra impostazione.
La cura del testo non è sempre impeccabile, soprattutto quando si tratta di riportare parole o brevi passi dei classici greci. La conoscenza di latino e greco e dei classici (i rudimenti della formazione umanistica) è sempre più lacunosa nei giovani, anche in quelli che hanno conseguito la maturità classica e che intraprendono studi letterari e filosofici all’università. All’estero la situazione non è tanto migliore. Un  impegno pedagogico delle case editrici, dei curatori e degli autori in genere diventa sempre più necessario. Trascuratezze si trovano ormai in moltissimi testi, anche delle case editrici più prestigiose. Rinnovare la cultura non significa per forza perdere contatto con la tradizione, che deve restare patrimonio almeno di una cerchia ristretta di eruditi, capaci di tramandarla e di diffonderla. Anche questa è una vera operazione di massa.

PUBBLICATO IL : 27-04-2008

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