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Marco Vannini, La religione della ragione , Bruno Mondadori, 2007
di Francesco Verde

Il titolo che Marco Vannini ha scelto per questo importante volume è La religione della ragione; a chi acquista il libro difficilmente non sembrerà di aver in qualche modo già ascoltato questo titolo. Difficile, quindi, e quasi impossibile che la memoria non corra immediatamente alla grande stagione del deismo in cui grandi pensatori (forse ignari delle origini cristiane e specificamente origeniane della questione) come Locke, Toland, Tindal, Collins fino a Lessing e oltre (potrebbe citarsi probabilmente anche il Kant de La fine di tutte le cose, de La religione entro i limiti della sola ragione e il Fichte de La destinazione dell’uomo) ricompresero il cristianesimo all’interno della ragionevolezza morale e della ragione contro i miti miracolistici connessi all’oscurantismo e vicini alla superstizione.     
Questo agile volume sin dalle prima pagine intende presentarsi come un’opera importante, quasi decisiva. Il tema centrale che Vannini affronta magistralmente è il cristianesimo inteso come (unica) vera religione della ragione, questione che riprende de iure e de facto i contenuti del de vera religione del (primo) Agostino (oltre agli aspetti “progressisti” e quindi morali che procedono da Origene alla philosophia Christi di erasmiana memoria). Il tema viene compreso all’interno di una drammatica constatazione: il cristianesimo è tanto alla fine quanto all’inizio; il cristianesimo, secondo Vannini, sarebbe alla fine se considerato come mera religione tradizionale che si porta integralmente dietro il pesante “fardello” della mitologia biblica, all’inizio se inteso come religione vera, ossia come philosophia.
Il volume è organizzato in cinque capitoli, La filosofia, La religione: mitologia e mistica, La mitologia, La mistica, Filosofia e religione in cui vengono toccate questioni capitali sempre con il debito approfondimento storiografico. E tuttavia al di sotto della scientificità storiografica dimostrata dall’autore, si cela una tesi forte, ossia che il cristianesimo continuerà ad essere religione solo come religione del logos che si è andato costituendo nella storia azzerando e combattendo le mitologie più oscure e varie: lo spirito dell’Illuminismo appartiene in un certo qual modo al cristianesimo, come ha ribadito Benedetto XVI nel tanto contestato discorso pronunciato a Ratisbona il 12 settembre 2006. Se si è pacificamente d’accordo sul significato fattuale del cristianesimo come religione, è assai complesso discernere cosa si intenda con filosofia e come questo termine si accompagni al cristianesimo. Vannini costruisce un’impalcatura notevole per arrivare alla comprensione del cristianesimo come religione della ragione; il fondamento lo ritrova nel pensiero antico che nonostante le differenze che in esso si celano costituisce un’unità profonda (p. 43). Il pensiero antico tout-court, sulla scia di Rabbow e Hadot, è ricompreso sotto le definizioni di “esercizio spirituale”, “distacco”, “cura” e “ascesi”. Se consideriamo che il pensiero antico inizia per convenzione con il VI secolo a.C. e termina con la chiusura della Scuola di Atene (ossia la scuola platonica aperta da Plutarco) da parte di Giustiniano nel 529 d.C., ci si rende conto che l’estensione cronologica della filosofia antica copre ben dodici secoli, mille e duecento anni di speculazione. Se provassimo a fare un rapido calcolo per avere un’idea di quanti sono dodici secoli basterebbe pensare che circa mille e duecento anni fa Carlo Magno veniva a Roma per essere incoronato da papa Leone III (800 d.C.): da un pensatore di età carolingia come Scoto Eriugena ad oggi è innegabile che la storia della filosofia abbia percorso molta strada e senz’altro in maniera non univoca ma secondo approcci e modalità differenti. Di questo – fortunatamente per gli storici della filosofia antica – si è accorto Horn che pur accogliendo benevolmente il paradigma proposto da Hadot ne limita l’influenza solo per alcuni filosofi antichi (in particolare di età ellenistica), mettendo bene in luce le profonde differenze presenti nel pensiero antico; il paradigma di Hadot che Vannini fa proprio certamente non viene rifiutato da Horn – che a ragione parla di arte della vita (techne tou biou) – che, invece, si limita a ridurne l’influsso su tutto il pensiero antico. Di conseguenza ogni ricostruzione che tenda ad uniformare la durata del filosofia antica in un’unica ispirazione fondamentale è, quanto meno, da considerarsi tendenziosa e rischiosa; andrebbe probabilmente usata maggiore cautela storiografica per la corretta comprensione della storia del pensiero antico, anni luce distante dal potersi considerare e quindi ricomprendere come blocco univoco e unitario.

Il fondamento profondamente unitario fornito dalla filosofia antica si accompagna alla demitologizzazione del cristianesimo (certamente con finalità diverse se non opposte alla medesima operazione di Bultmann che individua, oltre la trasmissione della tradizione storica, il nucleo centrale del cristianesimo nella sostanza autentica del kerygma di grazia delle origini): «Occorre perciò riconoscere con chiarezza che il cristianesimo, pur originato in Israele, si è costituito nel mondo greco, attraverso la razionalità, come religione filosofica per eccellenza, esso stesso come filosofia; anzi, come la filosofia» (p. 85). Da questa prospettiva la redazione dell’Antico Testamento è considerata come «una serie di storie inventate a difesa di un popolo, di una razza: questa, in sintesi oggettiva, la Bibbia ebraica» in cui il valore spirituale sarebbe nullo «del resto è davvero strano – anzi blasfemo – far derivare un valore spirituale da menzogne» (p. 70). Le «menzogne» della Bibbia ebraica, non contenendo alcun valore spirituale appaiono a Vannini – novello Reimarus – storie inventate impregnate di pratiche utilitaristiche e del tutto meschine «rispetto alla grandezza degli stoici, e comunque alla nobiltà spirituale della filosofia antica» (p. 72). Il “genio semitico”, per dirla con il Gioberti della Filosofia della Rivelazione, viene se non annullato del tutto drasticamente ridimensionato.    

L’audace impalcatura di Vannini, dopo aver operato una vera e propria demitologizzazione, si struttura non solo in virtù della essenziale unitarietà della speculazione antica ma anche considerando la mistica cristiana (in particolare Eckhart e Giovanni della Croce, quest’ultimo letto in stretto contatto con Plotino) e le sue origini neoplatoniche come la più alta forma di razionalità: secondo Vannini «Questo è il punto essenziale, evidentemente non compreso da coloro che oppongono intelligenza ad amore/volontà: intelligenza e amore sono lo stesso» (p. 110).        
In sintesi la costruzione di Vannini – in unione diretta con Giustino, Clemente di Alessandria et alii  – fa del cristianesimo la vera e unica filosofia erede della maestosità del pensiero antico: solo se il cristianesimo permarrà all’interno della razionalità (genuinamente greca) del logos avrà la possibilità di permanere nel tempo, scrollandosi di dosso quei tradizionalismi mitici che segnerebbero perentoriamente la sua fine.
Certamente il tentativo di Vannini risulta lecito in una prospettiva di cristianesimo razionale e fondamentalmente ellenizzato di stampo (neo)platonico; tentativi del genere si sono succeduti più e più volte nella storia del pensiero occidentale. Si pensi, ad esempio, al The True Intellectual System of Universe di R. Cudworth in cui, in un orizzonte dichiaratamente origeniano, il (neo)platonico di Cambridge si sforza di conciliare, in virtù di un universo teleologicamente ordinato, la ragione platonica e il cristianesimo. L’opera di Cudworth come quella di Vannini si costituiscono, quindi, esclusivamente in una prospettiva cristiana completamente ellenizzata. Ciononostante la radicalizzazione esclusiva di tale prospettiva rischia di non rendere ragione dell’effettivo sviluppo della storia del cristianesimo. Il tentativo di Bultmann è stato quello di mediare in maniera del tutto geniale fra la ricostruzione storica del fenomeno cristiano (che somiglia, probabilmente, ad una radicale decostruzione) e le istanze sempre più drastiche della teologia liberale e della teologia dialettica di matrice barthiana. Bultmann riconosce nel kerygma di grazia delle origini l’essenza nucleare e centrale del cristianesimo, il fondamento del tutto demitologizzato e de-ellenizzato del cristianesimo. Anche von Harnack tenta una ricostruzione storica del cristianesimo fondata sulla storia del dogma; secondo lo storico il dogma sarebbe assente dalla predicazione di Gesù Cristo (e dunque dal Nuovo Testamento con alcune – vistose – eccezioni) ma sarebbe sorto proprio in connessione a schemi e forme di pensiero argomentativo genuinamente elleniche. La formulazione dogmatica, quindi, non ha il medesimo valore del “dato” biblico; la dogmatizzazione nasce in un momento ben preciso della storia, quando il cristianesimo, per la sua stessa sopravvivenza, necessita formulazioni e argomentazioni razionali che solo il logos ellenico poteva prontamente fornire. Secondo von Harnack la grande teologia di Lutero, de-moralizzando (e quindi de-ecclesiasticizzando) l’annuncio cristiano, ha restaurato la                         “semiticità” al vangelo con il completo recupero dell’aspetto soteriologico che il dogmatismo (soprattutto speculativo) aveva oscurato: grazie all’ellenizzazione del kerygma cristiano la tensione fra cristologia e soteriologia si acquieta, razionalizzando la prima tramite le categorie greche e riducendo la seconda a morale. Eppure Vannini, tentando la conciliazione fra Agostino e Pelagio, Lutero ed Erasmo, sostiene che «Si potrebbe dimostrare che i due linguaggi – quello dell’impegno umano e quello della grazia – non sono affatto in contraddizione, ma sono solo due giochi linguistici diversi per esprimere la medesima realtà» (p. 112). Nonostante questo, rimane difficile conciliare la teologia della grazia con qualunque forma di moralismo più o meno celatamente pelagiano; il dono di grazia è costitutivamente a-logico (non illogico, si badi) proprio in quanto dono che non ammette né disponibilità né tanto meno restituzione. L’autentica struttura della grazia gratis data – e forse questo è il più legittimo lascito della theologia crucis di Lutero – non può che essere la contraddizione che confonde i superbi e innalza gli stolti: la croce stessa è in quest’ottica trono di gloria solo in quanto sussiste come sede della contraddizione, di quella incommensurabilità che tuttavia avvicina e proporziona il tutto in quanto dono che non si identifica mai con l’assoluta negazione formale. Si tratta della contraddizione della grazia effusa da un dio che salva uccidendo: difficilmente un greco avrebbe potuto comprendere affermazioni del genere tanto efferate così come difficilmente avrebbe potuto individuare nello splendido Polittico di Isenheim di Grünewald (1512-1515) il significato profondo dell’orrido che, trasudando dalla pelle del Cristo, dischiude la asimmetricità armonica di dio. Di qui la paradossalità del cristianesimo che contempla in se stesso un dio-uomo, un dio-cadavere che non solo assume volontariamente ma si fa egli stesso peccato, un dio/uomo-risorto; in tale prospettiva storiografica gli “eretici” per eccellenza diventano coloro che più di tutti hanno scrutato l’essenza del cristianesimo: è il caso della gnosi che, pur condannata, ha riconosciuto, a differenza dell’opera ellenizzante di Clemente di Alessandria, la possibilità di un dio che, contro ogni solipsismo autarchico di stampo greco, si dischiude all’alterità non senza patire.         
Di qui, ancora una volta, la paradossalità del cristianesimo come acutamente ha visto Bloch: è possibile addirittura pensare che all’interno del cristianesimo sussista seppure in modo sotteso un velo di ateismo, proprio in virtù dell’assurda paradossalità che concilia la storicità dell’evento rivelativo con l’indisponibile a-storicità della predestinazione.
Con tutto ciò non si vuole certamente privilegiare un’ottica piuttosto che un’altra ma si intende solamente dare ragione alla storia, a quella che è stata la storia del cristianesimo, un fenomeno complesso, multivoco, articolato e mai unitario.
Secondo Vannini (p. 84) da quando la Chiesa ha abbandonato l’imprescindibile fonte greca, la filosofia e la metafisica privilegiando la Scrittura ha avuto inizio la sua decadenza. Ci si potrebbe interrogare sulla possibilità che la fonte greca abbia di comprendere in sé il cristianesimo. Si tratta di una strada ardua e tutta in salita soprattutto quando ci si renda conto del fatto che le categorie aristoteliche non sono in grado di esaurire l’effettività del kerygma cristiano e non possono far altro che cortocircuitare dall’interno, lasciando il posto a categorie erotiche così distanti da quelle solo ontologiche. È innegabile, poi, che già gli antichi (pagani e cristiani) si posero la questione dell’inadeguatezza delle forme di razionalità greche nella comprensione dell’abisso dell’assoluto: se Damascio, anticipando per certi aspetti lo Pseudo-Dionigi, rispondeva con il silenzio all’inconoscibilità del principio, Gregorio di Nissa ne La vita di Mosè scrive che «Mosè prima apprende quanto è necessario conoscere di Dio, cioè che conoscerlo significa non avere di lui nessuna conoscenza che si abbia secondo l’umana comprensione (anthropine katalepsis)» (II 166).
L’ellenizzazione del cristianesimo si fonda sulla conoscibilità totale del divino; concludendo l’allocuzione all’inizio delle sue lezioni a Berlino il 22 ottobre 1818 Hegel disse che «L’essenza celata dell’universo non ha in sé nessuna forza che possa resistere al coraggio del conoscere»: forse la comprensione del cristianesimo di Vannini rimane greca per essenza ed hegeliana per accidente. Ma questo, come si è visto, comporterebbe il rischio di svalutare la novità cristiana determinando un blocco unitario a partire dal pensiero antico: tutte le differenze rimarrebbero solo in superficie per essere poi sanate nel profondo. E allora il «Tu sei» che Plutarco rivolge a dio (La E di Delfi, 392A-393E e 394C) non si distinguerebbe essenzialmente dal «Tu» con cui Jacobi pensa dio di contro al presunto spinozismo di Fichte che identificava dio con l’ordine morale del mondo. 
In conclusione a Vannini va il merito profondo di aver riproposto in questo volume con la competenza e la professionalità di sempre questioni importanti e soprattutto di aver preso posizione coerentemente con quelli che sono i suoi campi di interesse e i suoi studi. Pregio del volume di Vannini è soprattutto quello di alimentare la discussione su temi così carichi e decisivi nel nostro tempo. Ciononostante la correttezza storica esige oggettività o, per lo meno, si sforza di esigerla; storicamente il cristianesimo non è stato solo religione di ragione ma, con Nietzsche, «Da parte del cristianesimo ci è dato anche di ascoltare una grande protesta popolare contro la filosofia: mentre la ragione degli antichi saggi aveva consigliato le passioni agli uomini, il cristianesimo vuole restituirle ad essi. A tal fine nega la virtù, così come era stata intesa dai filosofi – come vittoria della ragione sulla passione –, ogni valore morale, condanna la razionalità in generale e sfida le passioni a manifestarsi nella loro estrema forza e magnificenza: come amore di Dio, timor di Dio, come fanatica fede in Dio, come la più cieca speranza in Dio» (Aurora I 58).   



PUBBLICATO IL : 18-07-2008

 

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