Giornale di Filosofia.net
www.FilosofiaItaliana.it


Luca M. Scarantino, Giulio Preti. La costruzione della filosofia come scienza sociale , Bruno Mondadori, 2007
di Daniele De Santis

Ci si ingannerebbe di certo qualora si considerasse quale oggetto unico della ricostruzione del volume di Scarantino il pensiero filosofico di Giulio Preti ─ il suo sviluppo e le sue aporie; i suoi debiti e la sua originalità. Il testo vuole infatti contribuire, intendendo quindi scavare ben più in profondità, alla ricostruzione, non crediamo di esagerare nel dir ciò, di un intero mondo filosofico. Perché prima di risolversi nell’analisi minuziosa e accurata dei principali nodi teoretici dell’avventura speculativa pretiana; prima di voler rintracciare i fili che lo legarono, e sempre, a quel maestro dal quale comunque si congedò presto; e ben prima di presentare, nella sua struttura essenziale, la teoresi di Banfi e della sua fenomenologia trascendentale delle varie forme della cultura ─ prima di essere, quindi, tutto ciò, il volume di Luca Scarantino intende offrire, schizzandolo alla maniera degli impressionisti, un quadro della cultura e dell’Università a Milano.
Ed è proprio da qui, infatti, che il testo prende le sue mosse. Perché l’Università di Milano era stata creata nel 1923, ed è nel 1932 che «un giovane professore di giovanissima istruzione» (p. 3), Antonio Banfi, vi viene chiamato a succedere, sulla cattedra di Storia della Filosofia, a Giuseppe Zaccante, ricevendo allo stesso tempo l’incarico di Estetica lasciato vacante da G. A. Borghese. «La cultura, l’erudizione e la passione che caratterizzano il magistero di Banfi […] attirano allievi dai pronunciati interessi artistici e letterari» (p. 17): Luciano Anceschi, Enzo Paci, Remo Cantoni, Giovanni Maria Bertin, Dino Formaggio, Giulio Preti ovviamente, ma anche poeti e poetesse quali Vittorio Sereni, Antonia Pozzi e Daria Menicanti, per non richiamare che i protagonisti. Tutti quanti loro vengono riuniti, da Banfi, «nella “piccola stanza” di corso Roma» e chiamati a raccolta, in «un rapporto che va oltre il mero rispetto per il maestro o il docente» (p. 18), nella sua casa di corso Magenta. Scarantino ricostruisce ─ supportato da una ricca bibliografia, letteratura primaria e secondaria, alla quale si richiama costantemente lungo tutto il volume ─ la rete di quelle complicità e amicizie, di quelle confidenze e incomprensioni che diede vita, dal primo numero datato 1 gennaio 1938, fino alla sua chiusura, avvenuta il 10 giugno 1940 su ordine dello stesso Duce, alla rivista Corrente di vita giovanile.

Un mondo di relazioni, quello che ci viene presentato, al cuore pulsante del quale Scarantino ci introduce presto: «Il razionalismo trascendentale di Antonio Banfi» (pp. 47-112). Il quale, prima di tutto, è un’incessante «meditazione sulla crisi della cultura e della civiltà contemporanea. Il pensiero della crisi è onnipresente nelle pagine banfiane: crisi della cultura, della filosofia, dell’arte, della civiltà, della vita. Esso ne penetra così profondamente la filosofia da rappresentarne un autentico leitmotiv» (p. 47). E dall’interno di questa crisi ─ che si manifesta nell’interruzione del più generale rapporto dell’uomo con il mondo, con il suo mondo ─ il filosofo; perché anche questi vi è immerso e il suo ruolo non è quello di indicare, quasi che il pensatore debba vestire i panni del profeta, ipotetiche soluzioni o vie di fuga. «È questa la singolarità teorica di Banfi» (p. 57): le strutture dell’azione, quelle dell’intervento pragmatico, non diventano altro che funzioni delle strutture dell’analisi fenomenologica dell’esperienza e delle sue molteplici e variegate forme. Tra la filosofia e il mondo sembra si scavi un abisso: sarà questo, tra gli altri, il rimprovero che gli muoverà Preti. Perché la prima, la filosofia, non si interessa del secondo, il mondo ─ dovendosi intendere con “interesse” la formulazione diretta di norme dell’agire volte alla trasformazione immediata della realtà fattuale. «Così la filosofia della crisi si trasforma in teoria della conoscenza » (ibid.), perché ogni «ricostruzione morale poggia su di una teoria della conoscenza» (p. 59) che sia in grado di ricostituire, per livelli successivi, la totalità sistematica del sapere. Solamente quest’ultima infatti, come «teoria della ragione», può far sì che l’individuo torni a orientarsi nella Babele del sapere contemporaneo.
Al centro della disamina di Scarantino ─ data anche l’importanza che la questione rivestirà per Preti ─ vanno allora il «soggetto» e l’«oggetto» così come si danno in quella loro relazione strutturale che prende in Banfi il nome di «antinomia», di «correlazione gnoseologica fondamentale» (p. 62). Per citare direttamente dai Principi di una teoria della ragione (1926): «questo rapporto puro di correlazione soggetto-oggetto, questa sintesi trascendentale dei due termini costituisce la forma essenziale o l’idea del conoscere». L’«idea del conoscere» ─ perché quest’ultima, e con essa il rapporto gnoseologico fondamentale, non ha identità oggettiva alcuna, non risultando quindi essere altro che «una funzione regolativa e costitutiva» (p. 61), sorta di Idea in senso kantiano. Di qui, inevitabile, la critica di quel dogmatismo che agli occhi di Banfi ha sempre inteso fissare, dovremmo piuttosto dire pietrificare, il soggetto e l’oggetto in rapporti determinati secondo un qualche contenuto particolare: «soggetto ed oggetto, in quanto soggetto ed oggetto del conoscere, non sono determinabili, nella loro idea, secondo alcun contenuto […]. I due poli del conoscere, dunque, sono così due poli ideali», come recita ancora il testo del ‘26.
L’antinomia si rivela quindi essere per Banfi la struttura logica di un processo infinito che non ha, in nessuno dei suoi momenti parziali, realtà sostanziale, «esprime invece il limite intenzionale e infinito del processo d’interazione tra i poli» (pp. 63-64). La correlazione gnoseologica fondamentale si dà sempre in una qualche sintesi concreta che comunque, mai, la esaurisce ─ e in ciò sta tutta «la problematicità del conoscere: la natura trascendentale del rapporto costitutivo si unisce alla determinatezza con cui esso si presenta nell’esperienza» (p. 64). E proprio quello della «determinatezza esistenziale» è il punto di avvio della conoscenza: l’intuizione. È il momento immediato, quello che contiene tutta la ricchezza, tutti i colori di quel caleidoscopio che chiamiamo esperienza; ed è sempre già sintetica, essa non si dà mai infatti come afferramento di un dato sensibile ultimo e irriducibile ─ perché è quello, vale a dire il dato ultimo del coscienzialismo sensista, a non darsi mai nell’esperienza.
Il secondo momento della conoscenza è invece quello del «concetto» e della sua razionalità che «frammenta l’oggetto della percezione in una pluralità di determinazioni categoriali […] applicabili a serie illimitate di altre percezioni» (p. 71). L’oggetto, già di per sé eideticamente colto nell’intuizione, è liberato dalle determinazioni particolari che caratterizzano quest’ultima; esso viene smembrato, fratturato e disseminato al solo fine di estenderne il significato e poter così costituire relazioni all’interno di un quadro di più ampia, coerente e universale, razionalità. Perché solamente la conoscenza razionale, quale afferramento di una totalità organica ma sempre dinamica ─ è l’infinito della correlazione dei poli dell’antinomia ─ permette di soddisfare, realizzandola, l’esigenza operativa: «l’azione è appunto l’atto sintetico della personalità», secondo la «bella formula» di Banfi che il Nostro richiama. Il «giudizio», che della conoscenza rappresenta l’ultimo stadio, ne sancisce infine la realizzazione su di un piano intersoggettivo: dopo l’intuizione e il concetto, per suo tramite l’esperienza si dà nella forma dell’universalità ideale.
Dialettica, trascendentale e fenomenologica, nella loro unione, ci tiene Scarantino a sottolinearlo, la cifra più propria della filosofia del maestro milanese. Dialettica ─ perché quelle della ragione sono «forme» che non si esauriscono nella particolarità delle determinazioni dell’esperienza, esse non vi si solidificano, ma si rapportano incessantemente l’una all’altra nel processo infinito della conoscenza; trascendentale ─ perché la ragione, sebbene non si risolva in nessuna delle sue concrezioni, di queste è comunque la condizione, essa è cioè progettualità che informa «la nostra elaborazione dell’esperienza» (p. 88); fenomenologica infine ─ in quanto descrizione, «comprensione categoriale» dell’esperienza e della legge del suo sviluppo. Per dirla un’ultima volta con le parole del libro del 1926: «dialettica, eidetica e fenomenologia rappresentano dunque i tre momenti per cui la ragione, sciogliendosi dalla particolarità dell’esperienza, si pone come autonoma, per valere come la sistematicità universale in cui l’esperienza stessa sia unitariamente trasposta e significata». E ritradurre nel piano dell’universale ─ «tentare la sordità dell’esperienza», secondo un’altra formula dei Principi con la quale quasi venti anni fa si intratteneva Fulvio Papi ─ è ricostituire nella sua unità quell’esperienza che la crisi della cultura testimonia essersi infranta, spezzata, ridotta a molteplicità indefinita di riflessi che si vanno pian piano smorzando: perché non c’è rimedio alla crisi che non sia anch’esso una crisi nel senso del krinein, della decisione che tenta di ricostruire ciò che si è frantumato e sbriciolato ─ in termini banfiani: «il piano sintetico trascendentale» (p. 92).
Ed è con queste ultime considerazioni che Scarantino ci prepara al confronto con Preti, confronto che sarà teso, e contemporaneamente, tanto a far emergere i punti di rottura con la teoresi del maestro, quelle differenti esigenze cui l’allievo tenterà di trovare altrimenti soddisfazione, quanto la continuità, le eredità, la filiazione che sempre stringerà i due: «Maestro e allievo condividono una convinzione e un progetto comuni: per trasformare i modi dell’agire morale, dell’interazione umana, occorre intervenire sulle forme di elaborazione dell’esperienza […]» (p. 100), per questo Preti giungerà all’elaborazione, in continuità con Banfi, di una «filosofa della persuasione razionale»: «L’intero trascendentalismo italiano sta in questa filiazione» (ibid.).

 Già nel suo debutto, in occasione di un dibattito sul problema dell’immanenza che lo vide opporsi nel 1936 a Carmelo Ottaviano, le riflessioni che viene sviluppando il giovane Giulio Preti sono sì ancora legate alle tesi del maestro, ma sono anche la testimonianza, certamente precoce, della nuova dimensione e del nuovo senso che a quelle si intende attribuire. Difesa del principio di immanenza per contestare ogni forma di realismo, vale a dire ogni forma di gnoseologia del rispecchiamento che ipostatizza “soggetto” e “oggetto”, critica anche dell’idealismo dogmatico e del suo inevitabile dualismo metafisico ─ fin qui nulla di nuovo. Anche il momento propositivo, nel suo nucleo essenziale, non si allontana da quello di Banfi: affermazione della trascendentalità della soggettività nella sua funzione di legalizzazione dell’esperienza e processo infinito della conoscenza. Ma è proprio qui, scrive Scarantino, che la vecchia «idea dei Principi, che assegnava alla conoscenza razionale il compito si stabilizzare l’esperienza» (p. 135) assume una direzione del tutto nuova: «la legalizzazione dell’esperienza è all’origine dell’intersoggettività, la genera» (ibid.).
«Terzo idealismo», come lo definisce il Nostro, che intende «porsi in intimo contatto con l’esperienza» (p. 136). Qui l’allievo si allontana dal maestro ─ egli dovrà infatti passare per le «filosofie della prassi», per il «pragmatismo» e per l’«empirismo logico»: «Una volta compiuta la propria metamorfosi […], l’integrazione razionale dell’esperienza gli apparirà insoddisfacente in Banfi quanto in Gentile» (ibid.). Per lasciare la parola direttamente a Preti: «nella filosofia di Banfi come in quella di Gentile […] c’è almeno questo tratto in comune: che tra la Ragione filosofia e il piano dell’esperienza c’è il vuoto, uno iato che nessuna “deduzione” riesce, e neppure tenta, di colmare. (…) Ma in entrambi i casi, la ragione “celebra” soltanto se stessa, muovendosi nelle sue eterne e insuperabili antinomie per Banfi, rimanendo nel vuoto dell’ego cogito per Gentile» (cit. a p. 136).
Preti presterà allora la sua attenzione al neopositivismo, studierà Neurath, Schlick, «recupererà quindi l’esigenza carnapiana di una base ultima di validità della conoscenza» (p. 143), il piano della percezione immediata, intuitiva e vissuta del «senso comune»: il problema principale diviene quello dell’integrazione del momento formale in quello pragmatico.
Ed è proprio l’incontro con l’empirismo logico che «segna la fine dell’apprendistato filosofico di Preti» (p. 149) ─ come sottolinea giustamente Scarantino. Infatti a Banfi che, in una corrispondenza del 27 luglio 1949, chiedeva al suo allievo se fossero ancora «sulla stessa strada o semplicemente sullo stesso continente», Preti rispondeva: «Forse sullo stesso Paese. Certo che abbiamo in comune, dietro di noi, una lunga strada fatta assieme (o meglio, per essere giusti: una lunga strada che io ho fatto dietro di Lei, e sulla sua pista) ─ il problematicismo o l’antidogmatismo (nel senso tecnico che la parola acquista nella sua filosofia). L’idea come pura idea si dialettizza, è antinomia ─ insomma è vuota (ma questo temo che sia una mia aggiunta), comunque indeterminata. […] Ma forse è proprio qui che le strade si dividono […] Lei (mi sembra), inclina verso un certo neoromanticismo (intuizionismo, vitalismo o simili) che io non posso più seguire; mentre io invece inclino a quello che mi rimproverate come illuminismo […] ossia scientismo» (cit. a pp. 149-150).

«La Ragione incarnata» ─ è così che Scarantino definisce la filosofia della maturità pretiana. A voler far ruotare l’intera seconda parte del volume intorno a due concetti fondamentali, questi potrebbero essere «senso comune» e «unità pragmatica del mondo reale»: perché quella di Giulio Preti la si può dire, e a ragione, una “fenomenologia del mondo reale”, nel caso ovviamente abbia ancora un qualche senso ─ ma per Preti probabilmente non lo ha più ─ definire così, «mondo», l’insieme indeterminato degli eventi (pragmatico-linguistici) che intessono, rinnovandola incessantemente, la trama spessa del reale.
Ci si deve però intendere bene, e immediatamente, sul senso di quel termine, «reale», che abbiamo affermato in precedenza essere stato uno degli obiettivi polemici tanto di Banfi quanto di Preti. Perché la critica di quest’ultimo intende colpire, e a morte, tutte quelle forme di «realismo metafisico» che, concependo ontologicamente il “soggetto” e l’“oggetto”, ne operano una reificazione che apre tra l’uno e l’altro una lacerazione impossibile poi da suturare e saturare. Il soggetto, murato in se stesso, non può allora, a partire da sé, darsi una qualche forma di criterio che garantisca l’avvenuta conoscenza, l’avvenuto incontro con ciò che, l’oggetto, a esso esterno è a esso anche, e di necessità, estraneo: «Di qui l’introduzione surrettizia di una […] norma, la quale stabilisce, senza alcuna prova possibile, in quali casi sia avvenuta l’apprehensio e in quali no; o per lo meno fissa dei campioni (spesso in forma di principii generali) di verità obbligatori in forza dell’autorità di cui godono coloro che stabiliscono norme e principii. La “verità” diviene allora conformità a un comando» (cit. a pp. 176-177). Rigettando qualsiasi forma di autoritarismo, quella di Preti si vorrà come una ferma, e intransigente, «filosofia democratica».
Ma venendo meno, del realismo, il presupposto ontologico, tutte le difficoltà si fanno evanescenti. Le percezioni sono immediate, si presentano in un’evidenza pragmatica che non necessita di filtro metafisico alcuno: la nostra esperienza è l’insieme di «immediatezze-pratico sensibili». Questo è il «senso comune», da non confondersi con il «sensus vulgi» (p. 183). Esprimendo «dei fatti immediati, delle esperienze globali immediatamente vissute», quelli del senso comune sono enunciati di «un’immediata certezza pragmatica»: essi non rimandano ad altro, non rinviano a una qualche altra realtà (metafisica) che, con il suo altrove, ne garantirebbe in un certo qual modo l’alibi. Di tali giustificazioni e legittimazioni, gli eventi (pragmatici), nell’indifferibilità del loro incessante accadere e del loro vicendevole annodarsi, non hanno affatto bisogno: «il senso comune “non muove dal fenomeno; bensì dall’evento, da ciò che conta, che non ‘manifesta’ nulla se non se stesso così come è dato, e non si definisce per mezzo di nulla”» (p. 187) ─ descritto in tale sua evenemenzialità, il fenomeno della fenomenologia, che non cresce sbocciando solitario in seno a un qualche mistico roseto, è, nell’immediatezza pragmatica descritta da Preti, sine ratione, ohne warum.
Questo è il motivo per il quale abbiamo prima affermato che l’insieme indeterminato degli eventi, la loro aperità, non può essere detto «mondo» ─ quest’ultimo, come kosmos o mundus, avendo sempre rimandato (mirabili al riguardo le pagine di Praxis ed empirismo), all’idea di ordine unitario che, in quanto “sistema” o “universo di discorso”, definisce un’assiomatica solo all’interno della quale a un enunciato corrisponde una verità, e a ogni verità corrisponde una realtà (p. 235). «All’unità formale del sapere fa quindi da contraltare la globalità pragmatica del senso comune» (p. 271): conclusione «che “ci pone di fronte a una situazione paradossale: che l’unico ‘mondo reale’ possibile è quello del senso comune, che non è, e non può essere, un ‘mondo’”» (p. 270). L’esistenza stessa del “mondo reale del senso comune” «non è una verità di senso comune», si afferma nel testo del ‘57, nel quale si ribadisce che chiunque intendesse negare l’esistenza di un “mondo” non incapperebbe in contraddizione pragmatica, dal momento che ogni nostro atto presuppone certamente l’esistenza di una molteplicità di fatti, ma mai quella di una totalità di orizzonte. Quella del mondo reale, allora, non è altro che un’«idea della ragione»; esso, sentiamo aleggiare Banfi su queste pagine, «proprio per il suo carattere di correlato funzionale […] non possiede alcuna realtà ontica» (p. 272) ─ l’averne fatto «un’ipostasi, un oggetto assoluto e dotato d’identità oggettiva costituisce il difetto principale del realismo ontologico: “si tratta infatti non di un concetto, ma di un’idea, in senso kantiano: di qualcosa che non è mai dato e si antinomizza non appena viene considerato come dato. (…) Tutt’al più dunque si può considerare l’esistenza di un ‘mondo reale’, in sé e quindi trascendente […] come un’‘ideale della ragione’, avente in seno al sapere una funzione meramente regolativa e non costitutiva» (p. 273).

Il fatto che non ci si possa esprimere in termini di “mondo”, non implica che di esso, dell’insieme indeterminato degli eventi (pragmatici), non si possa affermare la «storicità», tutt’al contrario: «La sospensione del presupposto realista comporta […] una storicità radicale delle sintesi percettive» (p. 291). «Gli enunciati pragmatici del senso comune rappresentano sintesi percettive complesse, che permeano l’agire quotidiano di un’eredità storica che non investe solo il piano delle credenze ma anche e soprattutto il più fondamentale piano degli a priori cognitivi e percettivi, il piano delle immediate rappresentazioni» (ibid.). La storicità pretiana che Scarantino ci presenta è immanente e operante in ogni momento dell’esperienza ─ «trascendentalismo storico-oggettivo», come lo definisce Preti stesso ─ «che prende in tal modo la forma specifica di una storicità della Lebenswelt o di una storicità del senso comune» (p. 293). La storicità della cultura coincide con la storicità degli a priori ─ il soggetto trascendentale è «storicamente immanente all’esperienza» (p. 298): è «il luogo della storicità degli a priori del sapere. Esso riassume in sé l’intenzionalità della ragione e rappresenta il piano di costituzione e coesione di una società nel suo sviluppo storico ─ di una civiltà» (ibid.).
Metonimicamente allora, essendo il sistema degli a priori dell’esperienza sempre storicamente determinato, quella “storica” non sarà un’ontologia materiale determinata tra altre ontologie determinate e circoscritte, essa piuttosto arriverà a confondersi con l’esperienza nel suo stesso costituirsi: «si può concludere che non solo la natura dell’esperienza storica non si discosta da quella dell’esperienza in generale, ma anche che la storicità può essere vista come il modello costitutivo dell’esperienza in generale» (p. 301); mai cedendo però al fantasma esangue del relativismo e del nichilismo; perché la verità è «astorica» (p. 305), essa è indipendente dalle condizioni storiche della sua genesi: la sua subordinazione a un qualsivoglia mondo storico, la sua cristallizzazione in una qualche epoca fissa, il suo imprigionamento, tutto ciò è quello che Preti, così come prima di lui Banfi, ha sempre rigettato come metafisica ─ e proprio in nome di quel procedere all’infinito che, nel maestro, prendeva il nome di «antinomia gnoseologica fondamentale» e che invece, nell’allievo, assume il volto della «storicizzazione del trascendentale».

È seguendo tali questioni, e in particolare l’inevitabile apertura alla «cultura democratica», al suo umanismo, cui questo trascendentalismo mette capo, che il volume di Luca Scarantino si porta verso la conclusione ─ è con queste parole infatti che Preti, sempre in Praxis ed empirismo, «precisa il motivo conduttore della sua filosofia […]:“la cultura che si vuol produrre dalla filosofia della praxis e mediante l’empirismo logico è esattamente questa: una cultura democratica. Questo sarà il leitmotiv della presente opera, come è stato il leitmotiv della vita del suo autore”» (cit. a p. 313). E che qui l’autore chiami in causa proprio se stesso, ci colpisce dandoci ancora qualcosa da pensare ─ quasi che la riflessione di Giulio Preti, per altre e lontane vie da quelle imboccate da una certa fenomenologia francese dei nostri tempi, con la quale infatti sembrerebbe non aver nulla a che fare, sia comunque giunta al riconoscimento, quale cifra più propria della soggettività contemporanea, della testimonianza e del suo indissolubile quanto problematico e aporetico legame con la verità: «Il filosofo diffonde la verità testimoniando (sott. nostra) in maniera critica, sì, ma ferma e coerente la sua verità».



PUBBLICATO IL : 18-07-2008

 

Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli. Unica condizione: mettere in evidenza che il testo riprodotto è tratto da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it

Condizioni per riprodurre i materiali --> Tutti i materiali, i dati e le informazioni pubblicati all'interno di questo sito web sono "no copyright", nel senso che possono essere riprodotti, modificati, distribuiti, trasmessi, ripubblicati o in altro modo utilizzati, in tutto o in parte, senza il preventivo consenso di Giornaledifilosofia.net, a condizione che tali utilizzazioni avvengano per finalità di uso personale, studio, ricerca o comunque non commerciali e che sia citata la fonte attraverso la seguente dicitura, impressa in caratteri ben visibili: "www.filosofiaitaliana.it", "FilosofiaItaliana.it" è infatti una pubblicazione elettronica del "Giornaledifilosofia.net". Ove i materiali, dati o informazioni siano utilizzati in forma digitale, la citazione della fonte dovrà essere effettuata in modo da consentire un collegamento ipertestuale (link) alla home page www.filosofiaitalianai.it o alla pagina dalla quale i materiali, dati o informazioni sono tratti. In ogni caso, dell'avvenuta riproduzione, in forma analogica o digitale, dei materiali tratti da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it dovrà essere data tempestiva comunicazione al seguente in dirizzo (redazione@giornaledifilosofia.net), allegando, laddove possibile, copia elettronica dell'articolo in cui i materiali sono stati riprodotti.