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Alessandro Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri , Manifestolibri, 2007
di Francesco Saverio Trincia

Per molti e convergenti motivi, la pubblicazione di questo libro merita di essere salutata come un evento utile ed importante per coloro che, da prospettive diverse e con motivazioni le più varie, si rivolgono con interesse alla cosiddetta “consulenza filosofica”, alle sue pratiche, ai suoi praticanti (docenti, consulenti ed aspiranti consulenti), ai libri che si pubblicano, alle molteplici organizzazioni sorte anche in Italia e desiderose di un qualche riconoscimento pubblico. Tra i motivi che inducono a rivolgere attenzione a questo libro, e che ne fanno una lettura che non dovrebbe mancare in coloro che decidono di entrare in contatto con la consulenza filosofica, non va di necessità messa in primo piano la circostanza, pur rilevante, che tale pratica riceve dal suo autore una stroncatura epistemologica, accompagnata dal  rifiuto radicale di considerare accettabile anche solo qualche aspetto di essa. L’attacco  di Dal Lago è in effetti  di eccezionale durezza  perché viene svolto con  particolare puntigliosità e precisione dell’argomentazione critica. Né basterebbe a dare del libro una valutazione positiva, come di un saggio che molti attendevano di leggere, l’ulteriore rilevante circostanza della completezza dell’informazione bibliografica, cartacea e non, che l’autore mostra di avere realizzato e utilizzato, sicché si possa dire che nulla o quasi nulla gli è sfuggito di quel che si è scritto, detto, organizzato in Italia su questo tema.
Non basta  condividere l’attacco frontale alla  nuova pratica della filosofia (che vuole che la filosofia riconosca il suo essere filosofia pratica, ossia filosofia risolventesi in pratica rivolta al miglioramento in senso ampio, curativo ma non medico, della personalità ‘normale’ di ciascuno, e da ciascuno, divenuto o in via di divenire  autenticamente filosofo, assunto come motivo essenziale della propria vita), non basta, dicevo, tale condivisione di quelle che potrebbero apparire preferenze ideologiche preconcette, per dichiarare che il lavoro di Dal Lago è di valore, oltre ad essere singolarmente utile. Né è sufficiente, a questo scopo, accordargli il riconoscimento, che merita, di saper condurre in piena consapevolezza del metodo scientifico quella che è una ricerca sociologica, peraltro dall’autore legittimamente rivendicata come tale. Conta di più, nel giudizio di interesse verso questo volume letteralmente distruttivo della consulenza filosofica, anzitutto il fatto che esso chiami in gioco una qualche  riflessione filosofica, considerata dall’autore quale strumento non troppo nobile né troppo elevato per mettere a nudo la povertà cui la filosoficità presunta della consulenza filosofica riduce la filosofia. Non manca, nel chiamare in gioco la filosofia contro la consulenza filosofica, un qualche elemento di ambiguità, come dirò subito.
         E’ significativo, in secondo luogo, il fatto che, nello scegliere una via di ricerca che fa della filosofia praticata dalla consulenza un fenomeno sociale, non si dimentica e anzi esplicitamente e insistentemente si enfatizza la specificità (in termini di astrazione, disinteresse ed autonomia formale) della filosofia stessa, che dunque viene chiamata a valutare la deformazione-distruzione compiutane dalla consulenza  da un punto di vista paritario, interno al vocabolario del pensiero, e al tempo stesso attento alla inaccettabile ‘fine mondana’ che sulla filosofia incombe nel suo farsi consulenza. Dal Lago sembra intuire, paradossalmente grazie allo sguardo  rivendicato come esterno del ‘non filosofo’ che vede quel che può accadere della filosofia travolta nella “pratica” meglio di chi vi sia coinvolto, ma anche meglio di alcuni filosofi non direttamente coinvolti, che tuttavia guardano alla consulenza con un misto di prudenza e di benevola attenzione, che nel farsi pratica nella forma della consulenza la filosofia perde del tutto il rapporto, che deve restare speculativo se vuol essere appunto ‘filosofico’, con il mondo, con le persone, con la loro personalità psichica, e con l’universo stesso della vita ‘pratica’ tanto ripetutamente quanto acriticamente evocata. In questo modo, Dal Lago lascia affiorare la questione che appare  cruciale a chi segua con attenzione  la sua destructio: perché non è un filosofo a difendere la filosofia dai suoi virtuali e non dichiarati distruttori? Perché si è dovuto attendere che un sociologo si mettesse all’opera?
Una duplice risposta può essere tentata. Da un lato, si osserverà che molti filosofi tra quelli non direttamente coinvolti (ve ne sono  molti che coinvolti invece lo sono o lo sono stati, spesso perchè convintamente impegnati alla diffusione della nuova pratica, e si tratta per lo più di docenti e studiosi di primo piano) e neanche del tutto convinti della validità filosofico-pratica, umana, pedagogica, latamente curativa della consulenza, ma comunque attenti al fenomeno nascente, hanno tuttavia ritenuto che fosse opportuno prendere distrattamente tempo, stare a vedere, seguire senza giudicare severamente. Ciò forse allo scopo di comprendere – anche scontando  l’assenza in loro di motivazioni opportunistiche – quale evoluzione il fenomeno potesse avere e quali  onesti ‘vantaggi’ trarne, sul piano accademico come su quello delle possibilità di impiego offerto ai propri laureati non eccellenti, seri ma non destinati alla carriera accademica. Il saggio di Dal Lago ha dunque anzitutto il merito, ascrivibile appunto a un  ‘non-filosofo’,  di sollecitare i filosofi a chiedersi quale fine rischia di fare la filosofia intesa non come pratica sociale, né come articolata e ulteriormente articolabile disciplina accademica, né come oggetto di eventi festivalieri, ma come ciò che essa è, speculazione e teoresi inserita in una storia e in una tradizione molteplice ma formalmente unitaria e riconosciuta dalle istituzioni dell’insegnamento medio superiore e universitario, quando diviene strumento della consulenza filosofica. E’ convinzione di Dal Lago, ampiamente documentata, come si è detto, e argomentata, che tale strumentalità  produca qualcosa di più grave di un superficiale impoverimento, di una indebita semplificazione della filosofia. Piegata infatti ad un uso paracurativo, ambiguamente terapeutico, nei casi di rapporto personale tra consultante e consulente (in una forma  imitativa del setting psichiatrico o psicoanalitico), o invece impiegata da parte delle aziende allo scopo di rendere migliore, ossia più funzionale ai loro fini economici, una organizzazione del lavoro che si vorrebbe alleggerita dei problemi esistenziali dei lavoratori, la filosofia si riduce ad una serie di  proposizioni performative ed esortative, dispiegate nel corso di un dialogo  tra consultante e consulente strutturalmente non simmetrico. Il contenuto dei dialoghi in cui la consulenza filosofica prende vita (come risulta non solo dai tanti testi teorici pubblicati, ma da non pochi resoconti di cosiddetti “casi”)  viene ricavato da un socratismo del tutto di maniera, radicalmente decontestualizzato e interpretato come fine e crisi della teoresi pura e disinteressata, a vantaggio della pratica della “cura di sé”, dell’ introspezione sollecitata a farsi confessione e realizzantesi nella forma di una sorta di “mantra” buddistico, dalla cui identica ripetizione si attende un esito di miglioramento, via autoconvincimento, della vita privata, ma anche sociale, lavorativa, del consultante. Che il socratismo costantemente richiamato dei consulenti sia anche una forma non troppo sottile di tradimento del Socrate tramandatoci dai dialoghi giovanili di Platone, lo si desume dalla circostanza che, mentre quest’ultimo disponeva maieuticamente l’interlocutore  al desiderio filosofico di sapere attraverso la dichiarazione del proprio ‘sapere di non sapere’, del tutto paternalisticamente e dunque autoritariamente atteggiata appare invece la disposizione di fondo del consulente, il quale sa quel che egli suppone (se non vuole) che  il consultante non sappia.
E’ difficile contestare la validità della spietata analisi compiuta da Dal Lago di testi, comportamenti, statuti, attività convegnistica dei ‘filosofi’ occupati nella consulenza filosofica. Ciò induce a perdonare a questo libro la non proprio sottile inconseguenza di definire la consulenza filosofica come una programmatica fuoriuscita dalla ‘forma’ della filosofia, dalla sua essenza ideale come si direbbe in linguaggio fenomenologico, per poi, pur enfatizzando la peculiarità dello sguardo sociologico esterno alla filosofia, impegnarsi in un confronto pienamente teoretico con le tesi, o forse meglio con gli atteggiamenti cultural-filosofici di fondo riconosciuti come specifici della pratica della consulenza. Dal Lago ritiene infatti di poter collocare tale pratica nell’ambito di un modo del tutto soggettivistico di considerare la realtà, nel doppio senso per cui sarebbe la più radicale intimità di ogni soggetto a se stesso, fattosi oggetto di se stesso con l’esclusione di ogni interesse per il mondo, ciò che costituisce l’ambito proprio della consulenza. A tale modalità del filosofare Dal Lago ritiene di poter opporre una sorta di teoria della radicale ‘esternità’ e mondanità di soggetti sociali conflittualmente attivi, e un rifiuto della dimensione per lui totalmente intima di quel che chiamiamo soggettività. In tale teoria trova espressione l’opzione filosofica di un (finto) non-filosofo, ma proprio per questo motivo essa richiederebbe un’analisi concettuale di merito e una giustificazione teoretica che, fortunatamente per il vantaggio del lettore e per l’efficacia del suo libro, Dal Lago trascura del tutto. E’ superfluo  ricordargli, perché si intuisce che lo sappia molto bene, che soggetto e oggetto, internità ed esternità, anima e mondo, soggetto e oggetto, sono, nei modi del loro rapporto variamente interpretato dalla filosofia moderna postcartesiana, non ‘un’, ma ‘il’ tema della filosofia. Sebbene quello di Dal Lago sia, nel contesto del libro, un peccato veniale (da affiancare a quello consistente in un sinistrismo anticapitalistico nobile e, per  quel che riguarda la consulenza filosofica ‘per le imprese’, non fuori luogo,  ma un po’ troppo esibito come opzione ideologica non discussa), un filosofo che si occupi del tema della soggettività, e che magari ritenga di poterlo fare senza trascurare l’attraversamento del freudismo qui più volte maltrattato, non dovrebbe perdere l’occasione di una messa a punto filosofica polemica nei confronti delle premesse di questo libro.
Mentre il soggetto è un grande tema della filosofia, l’uso delle singole soggettività dei consultanti e anche dei consulenti realizzato dalla pratica della consulenza filosofica non ha alcun punto di contatto con le questioni teoretiche che il soggetto evoca intorno a sé. Ne consegue che tale distinzione, implicita ma presente nel libro di Dal Lago e tuttavia anche parzialmente contraddetta dalla sue spontanee prese di posizione filosofiche, vieta ogni inclusione in una tradizione o in un atteggiamento filosofico unitario definibile come “soggettivistico” tanto della filosofia ‘sul’ soggetto, quanto della ‘pratica della soggettività’ messa in atto dalla consulenza filosofica nelle forme egregiamente descritte (più esattamente, denunciate) da Dal Lago. Soggettivismo e psicologismo sono non cancellabili temi della filosofia moderna, come si è detto.
Qui trova il suo spazio  anche la seconda risposta alla questione posta sopra: perché un non-filosofo indaga la pratica della consulenza filosofica? Che cosa il modo peculiare del suo sguardo critico mostra, che resterebbe altrimenti occultato? Si tratta di un motivo non secondario  del consiglio di leggere  questo saggio. Anche in questo caso, si potrà considerare un peccato veniale di Dal Lago la circostanza che, come conseguenza di un atteggiamento un poco snobisticamente liquidatorio della psicoanalisi e di tutto ciò che ha che fare con la vita della psiche, egli non dia il rilievo che merita all’obiezione che l’ambiguo rapporto della consulenza filosofica  con la terapia, e l’assenza degli strumenti specifici per realizzarla sia pure in una declinazione semanticamente deformata, dal quale si deduce il divieto  di  legittimare un confronto e la stessa l’asserita volontà di collaborazione con le autentiche psicoterapie, rischia di far correre dei seri pericoli almeno in alcuni casi di incontro dialogico tra consultante e consulente. Ma i “casi” più o meno imprevedibili e differenziati sono, come è noto, l’oggetto stesso di una qualsiasi terapia. Dire “alcuni casi” e dire “casi” significa dire la stessa cosa. Come è capitato a chi scrive di osservare interrogativamente  (in franca, leale polemica con gli organizzatori e come occasione per dar conto direttamente ad un pubblico coinvolto e pagante della propria impossibilità a definirsi ‘docente’ di un Master in consulenza filosofica e dunque a dare un seguito al proprio impegno)  nel corso di un Master svoltosi in una università romana, non è forse ipotizzabile che un consulente filosofo, ignaro per definizione di conoscenze tecniche psicoterapiche e psicoanalitiche, non riesca a cogliere le reali caratteristiche e la reale gravità, l’autentica profondità del disagio che viene chiamato ad affrontare? La semplice enfatica promessa che l’analisi dialogica del disagio del consultante può essere affrontata senza chiamare in gioco gli strumenti teorici ermeneutici e clinici  acquisiti da psichiatri e psicoanalisti nel corso di lunghi anni di studio e certificati da lauree pubbliche, può bastare a scongiurare lo stabilirsi di legami che uno psicoanalista chiamerebbe di “tranfert”, ossia di carattere affettivo, tra consultante e consulente? Quale competenza teorica, quale pratica clinica autorizzano il consulente a dichiarare almeno parzialmente sostituibili psichiatria e psicoanalisi? Non è forse ben noto che se qualcosa come una ‘guarigione’ si può ottenere di disagi psichici trattati da psichiatri o psicanalisti, ciò è unicamente la conseguenza dei modi in cui il “tranfert”, tempestivamente riconosciuto, viene poi lungamente ‘trattato’ nel setting? Che cosa sa un consulente filosofico di quel che (anche  in perfetta buona fede)  egli mette in movimento sul piano affettivo nei due poli del  rapporto con il suo interlocutore? Dove ha imparato ad intervenire non nel dialogo,  ma in ciò che nel dialogo accade (uno psicoanalista direbbe “inconsciamente”)? Come affronta situazioni patologiche eventualmente attivate o complicate dal dialogo che si è aperto? La buona fede e il desiderio di fornire un aiuto ad una persona in difficoltà psichiche (questo è il nome che deve essere dato ai problemi definiti dai consulenti “esistenziali”)  potranno mai essere richiamati come scusante dei disastri eventualmente prodotti? O, piuttosto, non ne radicalizzano la gravità?
Nel segnalare questo secondo limite del libro di Dal Lago, ribadisco che si tratta di un  difetto relativamente marginale, rispetto alla circostanza che Dal Lago ha colto molto chiaramente la natura di ‘pratica sociale’ della consulenza, ossia il suo nascere entro un determinato contesto della realtà e dell’ autopercezione delle società occidentali, non solo dell’italiana. Dal Lago comprende bene che è necessario studiare dettagliatamente, come sa fare un sociologo che non si lascia ingannare dalla presunzione ‘interessata’ che la consulenza filosofica abbia realmente a che fare con la filosofia e con qualcosa come la “cura” di sé e degli altri, quello che accade nella consulenza filosofica come evento sociale storicamente e culturalmente determinato. Tra le cose che vi accadono e che forse avrebbero meritato una attenzione più esplicita da parte sua, deve certamente essere riconosciuta sia la diffusa spinta antirazionalistica alla delegittimazione, assurdamente condotta nel nome della filosofia, dei metodi della pratica della ricerca e della clinica scientifica, sia la spinta, strettamente connessa alla prima, alla delegittimazione delle istituzioni pubbliche e private, ove la formazione degli ‘specialisti della cura’ viene realizzata nei metodi che una lunghissima tradizione istituzionale e la severa verifica pubblica dei percorsi e dei curricula  hanno riconosciuto e che non si può sostituire con sventatezza avventuristica.
Nella prospettiva piuttosto sociologica che normativa di Dal Lago il fenomeno sociale della consulenza filosofica  viene  riconosciuto come uno dei tramiti che danno accesso a quel ‘fuori’ mondano in cui l’intimità dei singoli diviene atteggiamento, comportamento, scelta intersoggettiva, configurandosi come una declinazione ormai non più marginale in cui le società occidentali, o loro segmenti, articolano la propria fisionomia, e plasmano, spesso sfigurandone tratti importanti di autenticità, la fisionomia dei loro cittadini. La consulenza filosofica li plasma di fatto (di nuovo: oltre ogni pur nobile intenzione) come individui in genere più o meno superficialmente e genericamente turbati delle vicende della vita, che si affidano senza piena consapevolezza alla apparenza curativa di pratiche di cui non si preoccupano di verificare le pretese, i metodi  e le finalità, e alle quali sembrano richiedere quella stessa superficialità e mancanza di rigore nei confronti dei problemi che pongono,  con la quale essi vengono sollecitati ad avvicinarsi ad essa, mettendo a tacere l’insostituibile timore  di dover fare realmente i conti con se stessi, evitando in fondo di riconoscersi come persone bisognose di una terapia. La consulenza filosofica offre una qualche risposta a individui che desiderano essere velocemente  tranquillizzati, senza  saperne troppo, senza rischiare troppo. Quanto poco essa offra una vera “risposta”, e quanto invece i tempi interni della scientificità, di ogni uso scientifico della ragione e della cura, di una qualsiasi vera cura, siano traditi, il libro aiuta a capirlo.  E’ al comportamento, e indirettamente ai bisogni, alle richieste che nascono  negli individui spesso seriamente sofferenti che popolano le nostre società che il libro intende dare un senso, osservandoli e descrivendoli nell’atto di accettare l’invito a “curare” filosoficamente se stessi e nelle sue conseguenze.  Lo fa  attraverso l’esame di un peculiare fenomeno sociale, non più  trascurabile da parte di che abbia fatto dell’insegnamento e dello studio della filosofia, o della seria pratica medica o psicoterapeutica, il proprio mestiere,  istituzionalmente riconosciuto e retribuito come lo è una prestazione verificata e verificabile. Nell’analisi dell’aspetto della consulenza filosofica per cui essa comporta una retribuzione ( un’analisi che gioca un ruolo non marginale nell’economia  del libro), il lettore attento coglierà la eco non proprio flebile di una preoccupazione traducentesi nella fredda scientificità dell’indagine sociologica, ma in cui  traspare assai chiaramente un allarme morale, un motivo normativo.



PUBBLICATO IL : 22-04-2008

 

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