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Daniela Coli (a cura di), Giovanni Gentile filosofo e pedagogista , Le Lettere, 2007
di Carlo Marcaccini

Il volume raccoglie gli interventi presentati al Convegno Nazionale di Studi presso Palazzo Incontri, a Firenze, il 14 e 15 aprile del 2004. Tenere un convegno di studi su Gentile nella città che esattamente sessant’anni prima, il 15 aprile del 1944, vide morire l’intellettuale in un sanguinoso attentato, acquista il senso di un tributo postumo alla memoria e al pensiero di colui che, a torto o a ragione, ebbe un ruolo di primo piano sulla scena culturale italiana nel primo quarantennio del secolo passato, ed esprime ufficialmente il chiaro intento di riabilitarne la figura, riconoscendone il valore e la grandezza non solo per i tempi in cui visse ma nella prospettiva ben più complessa di attualizzare l’apporto determinante che egli diede alla filosofia del Novecento. Non che interventi di analogo tenore siano mancati negli anni precedenti; alcuni dei relatori stessi sono già nomi di spicco nella tradizione degli studi gentiliani e si sono distinti per la passione con cui hanno affrontato i nodi critici dell’attualismo anche in chiave scopertamente elogiativa. Né è un caso che nei saluti introduttivi di Marco Cellai, presidente del Centro culturale Firenze-Europa “Mario Conti”, e di Roberto De Mattei, sub commissario del CNR, venga più volte citato il nome di Augusto Del Noce che forse meglio di tutti ha contribuito alla comprensione storica del pensiero di Gentile nel tentativo di valutarlo in modo equanime prescindendo da letture partigiane. E tuttavia l’interpretazione filosofica, ovvero transpolitica, della storia contemporanea, come dice il sottotitolo del saggio di Del Noce dedicato a Gentile e uscito postumo nel 1990, richiamava all’attenzione del lettore lo stretto legame fra l’attualismo e l’ideologia fascista, sottolineando come mai era accaduto prima d’allora che la vera prospettiva d’analisi del pensiero di Gentile non consisteva nel separarne la speculazione teoretica dalla riflessione politica ma anzi nel considerare l’una parte integrante dell’altra. Qui invece si corre talvolta il rischio, nonostante l’alto livello scientifico del convegno e il carattere necessariamente parziale e non esaustivo degli interventi dei relatori, di considerare la filosofia gentiliana come componente avulsa dal contesto storico e politico, che equivale a una forma di censura politicamente corretta al fine di salvare una porzione il più possibile significativa ed estesa della sterminata produzione del filosofo. Il quale sarebbe stato sì conservatore e reazionario in politica – di qui, secondo un’immagine datata, il suo fascismo – ma un intellettuale all’avanguardia sotto il profilo filosofico e pedagogico. Anche qualora si sottolinei lo stretto legame col regime, esso rimane per lo più confinato all’interno degli scritti di propaganda (raccolti nei due volumi di Politica e cultura), senza evidenziare il profondo intreccio che unisce l’elaborazione dell’ideologia fascista e la speculazione gentiliana. Una riabilitazione così condotta non può che suonare innaturale, come peraltro è inevitabile che sia ogni forma di riabilitazione, né permette di uscire dalla forbice dell’elogio e della condanna, secondo i canoni della teoria delle due Italie che si impone nel secondo dopoguerra e che ancora vive e pulsa sotto le ceneri del dibattito culturale e politico italiano. Il convegno sottende ancora questa sintomatica ambiguità che è il segno della frattura ingenerata dal fallimento del fascismo: pur col nobile intento di recuperare dal naufragio preziosi relitti, non si ha il coraggio di considerarli parti attive e vitali della nave affondata e di conseguenza è come se si negasse loro, nel momento stesso in cui si cerca di sottrarli all’erosione del tempo, un effettivo ruolo nella storia, cioè nella nostra storia. Questa consapevolezza, autentico assillo, assumeva in Del Noce i toni di un evidente pessimismo nel rifiutare alla speculazione gentiliana ogni possibilità di sopravvivenza, essendo essa esperienza definitiva, anche per il legame fatale con il fascismo. Quale il motivo di questa drammatica chiusura, di questo giudizio così reciso da parte di chi forse ha capito e amato più di altri il suo autore? Si vede bene che il problema non consiste nell’ammettere l’alto valore intellettuale dei contributi che Gentile diede nel campo della gnoseologia, dell’estetica, della filosofia della storia e della storia della cultura, bensì nel riconoscere una validità al suo pensiero, nel garantirne la continuità, che significa in termini molto semplici conferire un certo grado di dignità e di attualità alla stessa esperienza fascista.
Il volume è diviso in tre parti. La prima è dedicata alla teoria filosofica e agli elementi più caratterizzanti dell’attualismo; la seconda affronta aspetti collaterali rispetto all’interesse teoretico, che è solo idealmente primario, cioè la pedagogia, la riforma scolastica e l’attività di storico della cultura e della filosofia; mentre la terza parte è di carattere storico e documentario e mette in luce sia i lati meno conosciuti sia le scelte più controverse dell’ultimo Gentile.
Il rapporto fra Gentile e la storia del suo tempo è assente nella prima parte che coinvolge un pubblico di soli filosofi – ovviamente senza che questo sia un limite - e consiste in una trilogia teoretica (interventi, nell’ordine, di Vitiello, Negri e Cavallera) incentrata sull’irresolutezza della filosofia di Gentile e sulla sua configurazione di pensiero della crisi, in linea con le tendenze coeve attestate nel resto d’Europa. Vitiello (Il sentimento nella filosofia di Giovanni Gentile) affronta un problema logico importante individuando le incongruenze che marcano la distanza fra la Teoria generale dello spirito e il Sistema di logica e la difficoltà di distinguere fra pensiero astratto e pensiero concreto che portò Gentile a individuare come momento primigenio di sintesi il “sentimento”, nei termini in cui è definito ne La filosofia dell’arte del 1931. In quest’opera della piena maturità il filosofo avrebbe cercato di definire la sintesi originaria in cui la dualità del processo dialettico, cioè dell’Io e del non Io, dell’essere e del non essere, è ancora indistinta, avrebbe cioè tentato di porre una condizione originaria e ideale di unità che si identificasse col pensiero inteso come principio di pensiero. Il sentimento è concepito come “un Io che sente e non pensa ancora” (p. 33). Gentile tornerebbe così a un saggio giovanile, al primo intervento sistematico in cui espose il funzionamento della filosofia attuale, alle Forme assolute dello spirito del 1909, nel quale non parla ancora di sentimento ma avverte lo stesso problema ponendo quale limite dell’infinito processo dialettico una sorta di Io-radice “il quale, afferma Gentile, è realmente l’unità ancora indistinta dei due termini [sc. Io e non Io], ossia il Tutto, di cui ognuno di noi sente nel ritmo della propria coscienza il palpito universale” (p. 32). Questa sarebbe la “ri-voluzione” della maturità, un ritorno all’indietro nel tentativo di porre un argine all’anarchia dialettica, ma anche una sorta di resa finale di fronte al “mistero dell’essere” (p. 37).
Fa da elegante pendant alla requisitoria di Vitiello il contributo di Negri (Gentile antiparmenideo), che in linea con i suoi studi precedenti sottolinea il carattere vivo e vitale della dialettica attualista che mai si ferma e mai si arrende di fronte a sintesi precostituite, ovvero di fronte alla morte dell’Essere parmenideo, intatto e intangibile, uguale a se stesso, sprofondato nel suo mistero, accessibile soltanto ai “pensatori notturni” che non si preoccupano di salvare la dignità dei fenomeni, degli enti, dei pensieri umani ovvero di ciò che si manifesta alla luce del sole. Gentile è al contrario un “pensatore del giorno”, convinto che l’Essere debba essere “ferito” dal pensiero perché possa essere conosciuto, determinato a salvare non solo l’unità della sintesi ma in essa anche il “vario spirituale”, come afferma nei Fondamenti di filosofia del diritto, non solo l’autocoscienza ma anche “le categorie infinite della coscienza”: la filosofia non può essere tale se non essendo storia e come storia “non è la notte oscura del misticismo ma il pieno meriggio che splende sulla scena sterminata del mondo” (così nella conclusione della Teoria generale). Il saggio di Negri non è solo stimolante per le suggestioni letterarie, cui mi sono permesso di aggiungerne altre, ma anche per capire come si origina la riforma della dialettica hegeliana e il metodo dell’immanenza, un processo in cui hanno una parte molto importante la meditazione e lo studio dei dialoghi aporetici di Platone.
L’articolo di Cavallera (Il concetto di immortalità nella filosofia di Giovanni Gentile) è dedicato alla riflessione di Gentile sulla morte e sulla immortalità. La questione nasce dalla apparente incompatibilità dei due concetti rispetto all’attualismo che considera la vita e il pensiero degli uomini come processo di costante e inarrestabile accrescimento conoscitivo e morale. Si pone così il problema di inquadrare non solo la morte ma anche l’idea di una sopravvivenza dello spirito nell’ambito di un moto che non prevede interruzioni e che non può arrendersi a soluzioni trascendentali. L’indagine verte soprattutto sugli scritti della maturità, e in particolare su Genesi e struttura della società, l’ultimo saggio scritto da Gentile prima di essere ucciso, nonché sulla conferenza La mia religione del 1943. In questi interventi il filosofo rileva come morte e immortalità siano coincidenti e il senso della vita umana sia dato dalla morte stessa, in quanto l’io individuale corre inesorabilmente verso la fine, verso la dissoluzione, per risolversi e fondersi in qualcosa di più grande. Dalla finitudine dell’io, cioè dalla necessaria sua morte, scaturisce il suo essere per gli altri, cioè il suo sacrificarsi per gli altri, e dunque anche il morire per gli altri. Il che, nella filosofia dell’immanenza, costituisce anche l’unico modo possibile di concepire l’immortalità, che non appartiene al singolo individuo ma alla storia di cui entra a far parte. Dalla logica si passa all’etica, dal piano gnoseologico a quello dei valori, cioè della solidarietà, dell’altruismo, dell’impegno personale di fronte ai nostri simili. Dalle citazioni d’autore emerge il lessico morale di una filosofia attiva.
Fra i contributi della seconda parte, quello di Cambi (Gentile pedagogista ed educatore nazionale) è senz’altro il più significativo per il chiaro rilancio di uno schema interpretativo tradizionalmente marxista, che se non nega certamente sottace ogni possibile legame fra “il Gentile politico” e “riformatore scolastico” e “il Gentile teorico della pedagogia e dell’educazione nazionale” (p. 113). Come dire che, almeno in linea di principio, l’unico modo di ripensare la pedagogia attualista è quello di sottrarla al suo contesto storico, ovvero negare ogni attributo di modernità al fascismo di Gentile, che infatti è dipinto come un conservatore e un reazionario (p. 117). In tal caso la rimozione del contesto fatta da sinistra vale quanto la sua rivendicazione fatta da destra: solo così le due posizioni possono coincidere nella comune ma generica rivalutazione del filosofo. Dalla censura del fascismo di Cambi si passa infatti a una sorta di larvata giustificazione di esso all’interno di un piano razionale e provvidenziale della storia in cui sarebbero opposti idealismo e materialismo, alternantisi nel ciclo perenne dei corsi e dei ricorsi. In tale prospettiva, conclude Cancemi (Giovanni Gentile e la cultura italiana), “la cultura gentiliana, se non italiana tout court, è destinata nel tempo a tornare in auge” (p. 150). In Colaci e Scazzola, che meno rivelano l’intento attualizzante, si avverte invece un tono di giustificazione. Nella prima (L’educazione della donna nella filosofia di Gentile) la concezione conservatrice che Gentile aveva della donna viene inquadrata nel contesto della filosofia degli opposti, secondo cui all’interno del nucleo familiare uomo e donna, uniti dall’affetto reciproco, giocano ruoli diversi e complementari. Ciò che risulta interessante, in linea con i principi teorici dell’attualismo, è la definizione della famiglia non come entità naturale, bensì come legame spirituale: il matrimonio, di conseguenza, non è affatto considerato nel suo carattere meramente contrattuale. Allo stesso modo, potremmo aggiungere, Gentile non pensava lo Stato né nel suo aspetto naturale cioè etnico, come i nazionalisti del suo tempo, né sotto il profilo meramente giuridico e normativo, come i giusnaturalisti, i contrattualisti e in senso lato i liberali della sinistra storica. Tant’è che questa particolare modalità di interpretazione dei rapporti sociali, spirituale e allo stesso tempo laica, rientra nel più complesso e articolato processo di “secolarizzazione di idee teologiche”, del quale, secondo Del Noce, lo stesso fascismo, come fenomeno culturale, è espressione, e che corrisponde allo schema già elaborato da Nolte del fascismo come lotta contro la trascendenza pratica da una parte e come resistenza alla trascendenza teorica dall’altra, due opposte degenerazioni del liberalismo contrastate appunto in nome di sani principi di realismo e di rispetto e giustificazione dell’esistente.
Un aspetto ulteriore dell’ideologia del filosofo, coerente con la sua concezione del diritto e dello Stato, è illustrato da Scazzola (Il manoscritto gentiliano della storia della filosofia italiana: Giovanni Gentile, l’Umanesimo e il Rinascimento), che ricostruisce l’interpretazione gentiliana del Rinascimento, tesa a rivalutarne la laica spiritualità in funzione nazionale, senza calcare la mano né sull’aspetto antireligioso e antimedievale né sull’aspetto rigidamente letterario e classicistico. L’intervento ha forse il suo limite nel non riconoscere fino in fondo quanta parte il Rinascimento ha avuto nell’elaborazione del credo politico di Gentile, ma anche il merito di sottolineare, proprio nel suo intento parzialmente assolutorio, l’evoluzione dalla pura teoria alla politica (che possono non sempre coincidere benché abbiano un rapporto strettamente confidenziale). È giusto infatti tenere conto che senza un’occasione storica le idee non necessariamente si traducono in pratica e favoriscono o imprimono un corso preciso alla politica, ed è quindi corretto affermare, ad esempio, che nella conferenza dell’8 marzo del 1925 tenuta a Firenze nel Salone dei Cinquecento (intitolata poi Che cos’è il fascismo) Gentile presta la sua idea di Rinascimento alla propaganda fascista: “In quei frangenti, più che l’indagine storiografica, conterà il messaggio” (p. 167).
Illuminanti in tal senso gli articoli contenuti nell’ultima sezione del volume, in cui la figura di Gentile viene inserita nel più ampio contesto intellettuale della sua epoca, simmetricamente messa a confronto con Gioachino Volpe (Di Rienzo, Gentile, Volpe e la storia d’Italia) e con Piero Gobetti (Bagnoli, Gobetti e Gentile), calata nel mondo dell’imprenditoria libraria (Nistri, Gentile editore in Firenze), e infine, oserei dire, misticamente fusa con il tragico destino dell’Italia stessa negli anni di agonia della guerra (Coli, L’ultimo Gentile). L’analisi di testimonianze puntuali determina il prevalere di un tono problematico. Le corrispondenze e le divergenze fra Gentile e Volpe nella valutazione della storia d’Italia in rapporto all’attualità del loro tempo testimoniano la difficoltà di molti intellettuali di orientare il fascismo verso direzioni diverse rispetto alla sintesi sempre più autoritaria e pericolosamente statica su cui il regime si adagiava dopo gli anni della rivoluzione. Il filosofo Gentile è senz’altro più “organico” dello storico Volpe, specie nel giudizio sulla figura di Mussolini e sul ruolo transeunte della dittatura fascista (p. 204). Ma va d’altra parte ricordato che, a prescindere dalla fedeltà assoluta di Gentile nei confronti dell’uomo della provvidenza, egli anche negli scritti più dogmatici non rinunciava a rivendicare il suo fascismo, attribuendogli i caratteri tutt’altro che definitivi e appaganti della sua filosofia.
Gentile funge da pietra di paragone anche di un intellettuale simbolo dell’antifascismo come Gobetti, di cui Bagnoli ripercorre sia la formazione idealista sia la genesi della rottura con il padre dell’attualismo. La prospettiva dell’analisi è significativa: il liberalismo gobettiano non può essere compreso, secondo l’autore, senza la positiva influenza culturale di Gentile, il quale così viene a trovarsi al centro del complicato intreccio della cultura italiana dell’ultimo secolo. Ciò che importa non sono più le contrapposizioni politiche, che sono alla luce del sole, ma lo studio dei “sentieri complessi della fecondazione delle idee. Un qualcosa che, a ben vedere, ancora attende una parola definitiva” (p. 229). 
Un tassello importante di questa storia è fornito dall’attività editoriale di Gentile che nel 1932 acquista la Sansoni, innovando il panorama dell’industria culturale fiorentina. La nuova gestione della storica casa editrice imprimeva grande slancio alla saggistica e all’alta divulgazione riducendo lo spazio tradizionalmente assegnato alla scolastica. Questo non comportava soltanto una sfida di carattere commerciale, che peraltro la Sansoni vinse grazie alla qualità delle pubblicazioni, ma rappresentava anche una apertura a rivisitazioni critiche dell’attualismo dominante e a tendenze alternative. Non a caso ciò avviene nel momento in cui l’idealismo entra in crisi e le opere stesse di Gentile subiscono un netto calo di popolarità (la loro vendita “negli anni Trenta non superava le poche centinaia di copie annue”, p. 239). In fin dei conti la gestione della Sansoni corrisponde alla linea tenuta dal filosofo nella conduzione della Scuola Normale di Pisa, così ben tratteggiata da Simoncelli. A Pisa, come a Firenze, come nella direzione dell’Enciclopedia Italiana, Gentile bada più a raccogliere il meglio del pensiero italiano che a imporre il suo punto di vista sulle cose. Ma anche questo, come si sa, corrisponde alla sua vocazione ecumenica e nelle sue intenzioni avrebbe dovuto concorrere alla costruzione di un fascismo aperto a tutti i contributi intellettuali e sintesi dinamica di essi.

Chiude il volume il saggio di Daniela Coli, che ne è curatrice. Gli ultimi mesi di vita del filosofo, dal trasferimento a Firenze nel novembre del 1943 alla tragica morte nell’aprile del 1944, la pausa surreale dei quarantacinque giorni, la formazione della repubblica di Salò, il caos della guerra civile, sono delineati in modo sintetico ma non superficiale, anche attraverso l’esempio fornito dalla scelta di fedeltà al regime dello stesso Gentile. La domanda è da tempo consegnata alla storia e non vale solo per il più grande intellettuale del fascismo: fu coerenza o cecità?  L’autrice non ha dubbi e analizza le profonde ragioni ideologiche dell’adesione di Gentile alla repubblica sociale, cui però non rinuncia ad aggiungere una causa ancora più sostanziale: la constatazione che, anche di fronte alla guerra “giusta” degli alleati, dividersi in fazioni significava la “morte della patria”, cioè un insostenibile fardello lasciato sulle spalle delle future generazioni. Avviene così che, almeno nella sconfitta, l’ultimo Croce, che nel 1947 parla contro il trattato di pace, torni a essere d’accordo con l’ultimo Gentile.


PUBBLICATO IL : 26-02-2008

 

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