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Massimo Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento , Le Lettere, 2006
di Stefania Pietroforte

 Il volume di Massimo Ferrari Non solo idealismo raccoglie dieci saggi (dei quali solo uno inedito) dedicati ciascuno ad un personaggio o momento della storia della filosofia italiana a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. La crisi del positivismo, le indagini etiche di Ludovico Limentani, gli sviluppi della filosofia kantiana in Italia, la riflessione di Juvalta, gli studi di Enriques, il neokantismo di Fiorentino e Tocco, il pragmatismo di Vailati, l’evoluzione di Varisco, la filosofia religiosamente ispirata di Martinetti rappresentano episodi di un impegno filosofico che, con modalità in ciascun caso diverse e originali, accomuna personalità più o meno spiccate che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si sono dedicate alla soluzione di problemi filosofici importanti. Di ciascuno Ferrari tratteggia il profilo analizzando minutamente, con attenzione al particolare e scrupolo di completezza, il fulcro d’interesse attorno al quale quel filosofo ha lavorato con più energia ed esprimendo le sue migliori qualità. Questo modo della trattazione è certamente legato al fatto che gli studi qui raccolti sono stati scritti l’uno a prescindere dall’altro in un lungo arco di tempo (vent’anni circa), quasi che ogni volta l’autore non avesse di mira altro che la ricostruzione di quella specifica vicenda filosofica. E le cose devono essere andate proprio così, se è vero che oggi è possibile leggere ciascuno dei capitoli che compongono il libro di Ferrari come un lavoro in sé concluso e del tutto autosufficiente.
         Tuttavia è subito chiaro che il volume vuole essere qualcosa di più della semplice somma dei saggi in esso contenuti e questo intento si annuncia già fin dalla scelta del titolo. Non solo idealismo è infatti il modo stilizzato di presentare una tesi, quella che afferma che la storia della filosofia del Novecento in Italia non è stata solo storia dell’idealismo, o degli idealismi di Croce e Gentile, tesi che viene assunta non come la registrazione di un fatto ma come riconoscimento di un valore.
Nella Premessa, è lo stesso Ferrari a spiegare esplicitamente i termini della sua operazione: « Parlare di “non solo idealismo” significa evidentemente assumere un impegno interpretativo preciso: significa sostenere, in sostanza, che l’idealismo non ha rappresentato l’unico aspetto filosoficamente rilevante e nemmeno l’unico momento “europeo” della cultura filosofica italiana a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Enunciata in questi termini, la tesi non è certamente nuova e sarebbe del tutto infondato costruire su una simile base la prova di una supposta originalità delle nostre ricerche. In realtà, com’è ben noto, il ridimensionamento (anche radicale) della funzione svolta dall’idealismo di Croce e di Gentile nelle “cronache di filosofia” della prima metà del Novecento ha rappresentato uno dei grandi nodi con i quali si è confrontata la filosofia italiana del secondo dopoguerra, prima di tutto sul piano della discussione teorica e della polemica filosofica, ma successivamente (e in parte contestualmente) anche sul piano più strettamente storiografico. Del resto molti dibattiti anche più recenti sulla peculiarità, i limiti, le arretratezze o le connessioni con altre esperienze filosofiche che hanno caratterizzato la filosofia italiana del Novecento si sono spesso imbattuti in questo duplice problema: da un lato l’effettiva portata e l’effettiva incidenza del neoidealismo, dall’altro la consistenza teorica e la capacità delle filosofie non-idealistiche profilatesi nel primo Novecento di candidarsi al ruolo di alternative plausibili, più “moderne” e più “attuali”. Tuttavia una risposta a interrogativi di questo genere –interrogativi che talora hanno assunto e ancora oggi assumono il volto “epocale” di una scelta ultima pro o contro l’idealismo di Croce e Gentile- può venire solo da un’accurata ricostruzione storica, che sia in grado di superare la logica sempre presente, ma sempre fuorviante, dei “vinti” e dei “vincitori”: per sondare invece “sul campo” –al di là di formule generali utili per qualche polemica giornalistica, ma di dubbio valore sotto il profilo storiografico e filosofico- quali fossero le posizioni realmente presenti e come esse si configurassero allora (non solo nel panorama italiano). Forse è proprio a partire di qui che molti discorsi sul positivismo “in crisi”, sul neokantismo, sul pragmatismo, sulle filosofie legate all’indagine psicologica o alle scienze esatte, su alcuni programmi filosofici e su alcune iniziative volte ora a consolidare, ora a riformare o talvolta persino a rifondare la tradizione, potranno assumere maggiore consistenza; ed è pure a partire di qui che la stessa esperienza del neoidealismo potrà essere ricollocata nel suo contesto, per meglio comprendere ciò che essa ha significato nella storia della filosofia in Italia tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale»(p. 9).
         Le parole di Ferrari suonano chiare: il punto da dirimere, quello al quale il volume ritiene di poter dare un contributo positivo, è la questione del confronto tra idealismo e filosofie non idealistiche, è la valutazione della «portata» effettiva dell’idealismo e, d’altra parte, della «consistenza teorica» delle altre filosofie che potrebbe configurarle come «più moderne e più attuali» rispetto all’idealismo stesso. Come affrontare e risolvere il problema? Anzitutto Ferrari dichiara di aver voluto evitare «grandi schemi interpretativi», e con ciò mette fuori causa l’idea che sia nelle sue intenzioni formulare una ipotesi di lettura del pensiero italiano che si affermi assoggettando a sé tutti i momenti particolari, tutte le differenze e le particolarità e di questo assoggettamento faccia la sua forza. D’altra parte, si perita di escludere anche «rivalutazioni indiscriminate», e segna così anche per questo verso il limite entro il quale si è ben tenuto, ovvero quello che mette al riparo dal pericolo di consentire che un avventuroso desiderio rivalutativo di una filosofia o di un autore sovrasti la semplice realtà dei documenti che lo concernono. Ecco, allora, che la presa di contatto coi testi si presenta come la condizione preliminare perché il problema che si è posto possa essere risolto rigorosamente e sarà necessario rileggere «testi e interventi, atti di congressi e fascicoli di riviste per proporre valutazioni meno scontate, o quanto meno non arbitrarie; e tutto questo non già al servizio di una tesi precostituita, o con l’obiettivo di individuare grandi linee di tendenza valide oltre le situazioni concrete, bensì per riaprire un dossier che presenta ancora aspetti se non inediti, certo non adeguatamente sondati, e dal cui esame la stessa parabola dell’idealismo crociano e gentiliano potrà ricevere nuova luce»(p. 10).
         Sgombrato il campo da possibili equivoci, è facile riassumere, stavolta con parole nostre, che riformulano la questione in maniera magari un po’ succinta e semplificata, la sostanza del lavoro di Massimo Ferrari. In breve, in questi studi dedicati al positivismo come a Juvalta, a Limentani e a Enriques, al neokantismo ma anche a Vailati, a Varisco, De Sarlo e Martinetti, prende corpo la ricostruzione storiografica di percorsi filosofici che si svilupparono in Italia negli stessi primi decenni del Novecento che videro nascere e affermarsi le filosofie di Croce e di Gentile e proprio con queste ultime furono apertamente in contrasto. Nel contrasto e nella polemica, spesso gli avversari ne restituirono un’idea svalutativa, anche fortemente svalutativa, che è sopravvissuta e ha rischiato di funzionare come una cortina oscurante e deformante della effettiva realtà di quei pensatori. Si tratta ora di riscattarli da quella ingiusta e falsante condizione, riportando alla luce, alla verità storica, il loro pensiero. Senza presupporre ciò che l’indagine non potrebbe confermare, senza immaginare astrattamente e inverosimilmente che essi fossero in nuce filosofi di prima grandezza, è possibile però che l’esame storiografico ne ripristini la fisionomia e ci mostri che essi, bistrattati dalla veemenza polemica dei due idealisti, fossero invece più di questi dentro i problemi filosofici che altrove si dibattevano e che molto più tardi si sarebbero affermati anche nel nostro paese. Nel metter mano alla cosa, Ferrari sottolinea l’importanza e, si direbbe, la necessità di mettere in rapporto i filosofi in questione con «l’orizzonte della filosofia europea». Proprio questo rapporto viene utilizzato come una chiave interpretativa rilevante, così rilevante da rappresentare, insieme al registro storiografico, sostanzialmente l’ambito categoriale nel quale si raccoglie l’intera operazione.
         Messe a fuoco così le cose, per il lettore si tratta poi di seguire Ferrari nello svolgimento della sua analisi che, come si è appena visto, non è e non poteva essere una ricostruzione storiografica “sterilizzata”, ma è invece un lavoro di valorizzazione dell’opera dei pensatori sopra menzionati, le cui riflessioni si potrebbero collocare in un arco che sta tra il positivismo e il neokantismo, e giudicare la solidità di quella valorizzazione, non da ultimo accertando se gli strumenti messi in campo siano adatti allo scopo.
         Prendiamo allora a mo’ di esempio la trattazione che Ferrari fa delle indagini etiche di Ludovico Limentani. Egli mette in risalto che la matrice positivistica, chiaramente visibile nella formazione di Limentani, era stata da lui non solo rivisitata ma anche fatta reagire con un concetto di forma sostanzialmente estraneo al positivismo. C’era un motivo profondo che giustificava la chiamata in causa dell’elemento formale: l’insufficienza che Limentani avvertiva del paradigma filosofico di Ardigò rispetto alla possibilità di rendere conto di un fatto come la volontà morale. Però Limentani, sulla scia della filosofia trascendentale, intendeva la forma come elemento irriducibile al fatto, e comprendeva bene che per questo la morale necessitava di una fondazione autonoma. Ciò non significava per lui che essa dovesse essere creata razionalisticamente; piuttosto si doveva considerare la morale come una realtà effettiva e riconoscerne le strutture. In questo disegno di una moralità che non poteva essere del tutto ricondotta alla attualità si apriva lo spazio per la considerazione psicologica e sociologica, per l’affermazione del pluralismo dei valori, per indicare il sentimento come una delle linee portanti che ne spiegavano la natura. Era un “arco” che si tendeva tra il momento della fondazione autonoma, e dunque prescindente dal contenuto e del tutto coincidente con il lato formale, e quello del rapporto con la psicologia, con l’antropologia, con la sociologia, che, invece, entravano con forza e con originalità a caratterizzare proprio il lato del contenuto; era un “arco” nel quale Ferrari ravvisa una vicinanza della riflessione di Limentani con quella del “primo” Simmel, il Simmel «che si muove tra positivismo e neokantismo, mostrando come il necessario svuotamento del Sollen kantiano di ogni contenuto universalistico lo renda aperto alla dimensione individuale, alla vita del soggetto psicologicamente determinato»(p.135). Simmel aveva esercitato un’influenza importante su Limentani, che ne recepiva tutta la spinta a rompere il quadro oggettivistico del positivismo e a spingere prepotentemente nella considerazione filosofica l’individuo e le sue prerogative. E’ vero che non era stato il solo pensatore ad attrarre la sua attenzione. Oltre Simmel, anche James e Dilthey erano stati autori importanti per Limentani e una parte nella sua riflessione l’avevano avuta anche i francesi Guyau e Rauh, con i quali Limentani condivideva l’esigenza di riconoscere importanza al sentimento. Inoltre, lo scambio intenso avvenuto con Levi, Marchesini e Mondolfo aveva arricchito il suo bagaglio, già vasto, di temi e problemi dibattuti in altri ambienti della filosofia francese e tedesca. Resta però il fatto che era stato Simmel, che Limentani aveva letto fin da giovane e del quale rivelava di aver recepito la parte destruens, ad esercitare un effetto profondo sul filosofo italiano il quale, prese in questo modo le misure, viene contestualizzato da Ferrari in quell’ «orizzonte europeo» che abbiamo visto annunciato come elemento imprescindibile per una corretta valutazione di questa filosofia italiana.
         Nel trarre le somme del suo studio Ferrari osserva: «non mancavano dunque, nelle indagini di studiosi come Limentani (o come Calderoni e Juvalta), gli strumenti affinati e i nessi con un dibattito che travalicava i confini della problematica morale: se ne potranno rilevare i limiti e le incertezze non risolte, le oscillazioni e le ingenuità, ma questo non può legittimare la pretesa di conferire all’idealismo crociano e gentiliano la patente di una supposta superiorità “speculativa” … Provenienti dal positivismo, dal pragmatismo o da un kantismo riformato Limentani e Calderoni, Juvalta e in parte Vailati avevano avanzato proposte di lavoro spesso più valide di altre, rifuggendo l’impianto sistematico e avvicinando “sul campo” questioni particolari: forse mancò loro, più che la solidità dell’analisi, il raccordo ai valori etico-politici che un’epoca inquieta perentoriamente esigeva e impietosamente vagliava»(pp. 138-39).
La ricostruzione storiografica che qui è all’opera, e che segue lo stesso metodo anche negli altri saggi, giunge alle sue conclusioni mettendo in risalto i nessi che legano, dove più dove meno esplicitamente, la filosofia del pensatore italiano a quella di altri pensatori, spesso più illustri, di altri paesi. Nessi reali e quindi elementi che fanno parte a pieno diritto del disegno storiografico. Tuttavia è difficile sfuggire all’impressione che quello che di per sé non è altro che un elemento, un tassello del mosaico, venga poi fatto valere anche come criterio di valutazione del disegno che lo contiene; è difficile sfuggire all’impressione che il riferimento al più vasto contesto europeo, che è un dato di realtà che si tratta di far emergere e di constatare, venga per altro verso utilizzato come elemento di per sé carico di valore, rispetto al quale si misura il valore della filosofia italiana in oggetto. Prendendo in prestito le parole di Ferrari stesso, che in qualche modo lasciano più apertamente trasparire la cosa, e trascrivendole dal saggio dedicato ai neokantiani: «l’indagine storiografica non potrà rinunciare a fare i conti con l’orizzonte della filosofia europea: la marginalità dei neokantiani italiani apparirà allora come marginalità nei confronti di un “centro” che consente di presentarci in una prospettiva meno scontata gli stessi quartieri periferici»(p. 31). Il «centro» di riferimento del quale parla Ferrari non vale solo per i neokantiani, ma sembra valere anche per gli altri filosofi presi in esame, perché anche per questi il nesso con «l’orizzonte della filosofia europea» funziona da elemento di valore, quasi punto di gravitazione dell’intero giudizio, sicché sembra che tanto più un pensatore, una filosofia sia strettamente connessa con questo «centro», tanto più salga il suo valore. Non è questione qui, sia ben chiaro, di rivendicazioni “nazionalistiche”. Quello che conta, e che si tratta di capire bene, è il criterio che si assume per giudicare l’opera di un pensatore. Se quest’opera è più o meno marginale, più o meno interessante a seconda di quanto si discosta da un «centro» che sarebbe la fonte a pieno diritto del valore, ecco allora che di questo «centro», di questa fonte dovremmo dimostrare che vale, dovremmo dimostrare che può, legittimamente, essere centro di irraggiamento di un valore positivo che, grazie al nesso, investe anche ciò che in relazione ad esso è marginale. Se invece la dimostrazione del suo valore è solo presupposta, ogni argomentare a favore del valore  del «marginale» si mostra privo di una base d’appoggio. Per muovere ancora dal nostro esempio: o si dice perché la filosofia di Simmel vale, si esprime cioè riguardo a questa filosofia un giudizio di valore, oppure si è soltanto spostato indietro, a Simmel appunto, il momento del giudizio che non viene esercitato su Limentani, lasciando comunque indecisa la questione del valore di una filosofia. Insomma, o l’orizzonte europeo è qualcosa che funge da presupposto del valore, ma allora è chiaro quale possa essere il limite di questa affermazione, oppure esso stesso deve essere giustificato e solo allora potrà ricercarsi nel nesso che connette la filosofia di Limentani all’orizzonte europeo il fondamento del suo valore. In mancanza di ciò, e stante quella impostazione del discorso, resterà sostanzialmente indeciso il valore della filosofia di Limentani e, se nulla si potrà dire della sua robustezza teoretica, a maggior ragione nulla si potrà oppugnare contro la pretesa o reale superiorità speculativa dell’idealismo.
Forse si dirà che non è corretto intendere le cose in questo modo e che, invece, il riferimento all’orizzonte della filosofia europea è il riferimento a ciò che essa ha prodotto di problemi e di elaborazioni e che si è poi affermato fino a prevalere ai nostri tempi. Si dirà, cioè, che il “richiamo ai fatti”, tradotto magari nel richiamo ai fatti scientifici, e la relatività della conoscenza, ma anche lo sforzo, tenendo ben fermo all’importanza delle scienze, di indagare e di mettere a punto l’elemento apriori, sono concetti che mostrano di valere ancora e, dunque, si presentano come punti di non ritorno del pensiero filosofico, come acquisizioni che costituiscono il nostro, attuale, “spirito oggettivo”, e quindi il vero valore. Si dirà, dunque, che è in forza di questo valore che si può parlare di “modernità” e di “attualità” di alcuni pensatori quasi dimenticati. E si concluderà che è per questo, allora, che il nesso con la filosofia europea, almeno quella che ha reso duraturi quei concetti, diventa di per sé elemento positivo. Ma il problema resta esattamente lo stesso: attribuire validità a una filosofia in forza di un’altra, alla quale la prima è affine e che ne esprimerebbe in maniera potenziata i motivi di fondo, non è esattamente presupporre ciò che si vuole dimostrare? Se poi quest’ultima fosse anche nei fatti, nella realtà storica, per così dire “dominante”, basterebbe questo a legittimarla e a legittimare anche ciò che con essa sta in nesso di prossimità? Il fatto, fosse anche quello della storia del pensiero, non è forse per la filosofia un problema? E se lo è, come potrebbe trovarsi in esso la soluzione e, addirittura, il fondamento di legittimità, quindi il valore, del pensiero?
Così dicendo, non vogliamo nasconderci che il problema che qui si affaccia, ossia quello della storia della filosofia, sia di tale portata e complessità teoretica che non si può certo pensare di affrontarlo con poche battute e in circostanze di confronto comunque circoscritte come questa. La domanda se non sia degno di particolare considerazione il fatto che – e sia pure un semplice fatto- una filosofia o certe modalità del pensiero filosofico riescano, più di altre o piuttosto che altre, in una determinata epoca a tenere campo e suscitare interesse o, addirittura, a contraddistinguere un’intera epoca richiede di essere vagliata seriamente, non fosse altro che per la capacità immediata che essa esibisce di mettere il pensiero filosofico davanti al problema, appunto, della sua storia, per la capacità, cioè, di andare a ficcare il dito nella piaga e proprio dove forse più la piaga è dolente. Essa si incunea, infatti, nel punto di difficile convergenza tra l’idea che la filosofia –qualunque cosa essa sia- abbia a che fare con la verità, e l’idea che essa, che pure ricerca la verità, sia inesorabilmente ed essenzialmente un fenomeno umano. Punto di convergenza difficile, dicevamo, e con il prenderne atto il problema non è affatto risolto, ma anzi resta aperta e spinosa nel piatto di chiunque voglia cibarsi di filosofia l’alternativa rispetto alla quale tertium non datur. Da parte nostra, per quel che vale, di questa alternativa teniamo fermo alla prima posizione che ci pare più rigorosa. Ed è in forza di questa posizione che abbiamo cercato di riflettere su quanto Massimo Ferrari dice nel suo volume e sui presupposti teorici che in esso si fanno valere.
Per riprendere allora il filo del discorso e giungere ad una, sia pur provvisoria, conclusione, è vero che il problema del rapporto tra idealismo e filosofie non idealistiche, e della storia che intorno a questo rapporto si è svolta, richiede un lavoro storiografico, anche minuto e circostanziato come quello che l’autore di Non solo idealismo ha condotto; è vero che bisogna anzitutto rileggere quei testi e prendere contatto direttamente con i documenti filosofici per conoscere cosa una filosofia sia davvero stata, ma quanto al giudizio che ne dobbiamo dare, esso richiede un esercizio filosofico che, se viene dato per scontato, impoverisce di significato lo stesso lavoro storiografico. Così, la strategia seguita da Massimo Ferrari nel suo lavoro, di voler riscattare le filosofie non idealistiche di Limentani e Juvalta, di Martinetti e De Sarlo, dal basso profilo cui le aveva consegnate la polemica di Gentile e di Croce sottraendole contemporaneamente alla condizione di oggetti remoti di ricostruzione storica quasi fattuale, ci sembra trovare il suo punto debole proprio all’incrocio tra i due motivi che abbiamo creduto di poter indicare come le coordinate concettuali del lavoro. E’ questo incrocio di “ricostruzione storiografica” e “riferimento all’orizzonte della filosofia europea” l’asse portante di tutta l’operazione e, da questo punto di vista, il momento teoricamente più elevato; ma poi, per quanto si è detto, appare pure come il luogo dove la compiuta credibilità dell’operazione mostra una crepa.
E’ quasi superfluo aggiungere che il libro di Ferrari si fa apprezzare per la cura del dettaglio e la nitidezza della ricostruzione, per la ricchezza bibliografica e per il merito di avere riportato alla luce in modo organico una fetta consistente di pensiero filosofico. Sicuramente esso rappresenta una tappa necessaria per chi voglia conoscere approfonditamente le storie filosofiche che Ferrari ha ridisegnato nei suoi saggi. Forse non del tutto superfluo e, anzi, piuttosto curioso è invece rilevare come sia un segno dei tempi che questo volume, nel quale si rivendica più forte dignità filosofica a coloro che da Croce e da Gentile spesso se la sono vista negare, appaia proprio nella collana dei “Quaderni” del “Giornale critico della filosofia italiana”, “Giornale” di quel Gentile che sicuramente avrebbe lodato Ferrari per il lavoro di storico del pensiero, ma che non avrebbe tralasciato di criticare, con la forza che gli era solita, il punto filosofico.



PUBBLICATO IL : 12-12-2007

 

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