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F. Enriques, Il significato della storia del pensiero scientifico , Barbieri, 2004
di Niccolò Argentieri

1. La matematica non è un corpus di conoscenze o di procedimenti tecnici, non in primo luogo almeno, né un insieme eterogeneo di teorie assiomatizzate o di verità ottenute per semplice deduzione, ma una pratica concettuale costruttiva, impegnata a interpretare e ridefinire la propria tradizione e finalizzata alla decifrazione e alla intelligibilità di un dato in sé complesso e inaccessibile. Questa attività ermeneutica e decostruzionista porta alla creazione e alla definizione di nuovi ambiti di senso: qualcosa che prima non esisteva, o che esisteva in forme e contesti differenti, viene iscritto in un linguaggio, o in un nuovo linguaggio, e diventa un significato. Non tanto nuovi oggetti quindi – l’espressione, senza alcune precauzioni, rischia di essere fuorviante nel caso della matematica – ma nuovi spazi linguistici, nuove possibilità di senso. Ciò a cui la matematica assegna un nome e una definizione è già sempre apertura a nuove contestualizzazioni, interna tensione di qualcosa che è dato verso un’ulteriore e non prevedibile rete di relazioni destinata a modificare, più o meno radicalmente, il significato e il referente oggettivo del nome (la capacità delle definizioni di saturare il senso di un concetto, caratteristica considerata tipica della costruzione matematica, dovrebbe quindi essere rimessa in questione).  Tuttavia, gli aspetti che emergono per effetto della creazione del nuovo non si sostituiscono semplicemente alle vecchie descrizioni e interpretazioni; piuttosto, le inglobano, ridefinendole, in una sedimentazione progressiva che si occulta nella nuova struttura e che è percorribile – anzi, che deve essere percorsa – nella sua interna necessità, come ideale storia di senso, a posteriori, e non semplicemente come cronaca lineare di eventi. Ogni costruzione matematica è in debito con un senso che sarà il risultato di una ricerca successiva, a volte molto distante nel tempo; la storicità che definisce i concetti rimanda dunque a una circolarità profonda, difficile da cogliere concettualmente o in termini descrittivi. Le evidenze sono sempre parziali, incomplete, ma di questa incompletezza non è di fatto possibile dar conto perché essa non esiste fintanto che il nuovo contesto e la nuova teoria non la creano, eliminandola allo stesso tempo: non è dunque la necessità il modo del progresso matematico, perché il senso del percorso è ricostruibile solo a posteriori.
Il passato consegna al matematico un molteplice complesso e stratificato che egli è chiamato a interpretare, costruendo un sapere che è sempre, in primo luogo, un saper-fare – la capacità di leggere e rielaborare il dato che ha di fronte, di farne esperienza insomma, ridefinendo continuamente i criteri, gli strumenti e le modalità di tale esperienza. Le definizioni, i manuali e le assiomatizzazioni sono soltanto la momentanea cristallizzazione di una storia passata e futura che si sedimenta in segni subito riassorbiti dal movimento della tradizione, l’obiettivo di un percorso di esplorazione in grado di significare soltanto sullo sfondo della condizione che rende sensata, dunque comunicabile, un’esperienza che non è mai completamente esplicitabile o formalizzabile. Solo all’interno dell’orizzonte che definisce questa esperienza proposizioni e concetti diventano elementi di un sapere: non esistono “pezzetti” di matematica che possano essere oggettivati ed effettivamente isolati dalla rete di connessioni in cui la loro storia di senso li ha progressivamente calati. Al contrario, le “verità” della matematica, proprio perché non distinguibili dalle condizioni di senso che le rendono formulabili, sono sempre contestuali e storicamente determinate – a dispetto delle mitologie create dal terrorismo didattico o dalla volgarizzazione culturale. Di fatto, la geometria e l’aritmetica “elementari”, in quanto testimonianze di un sapere originario e fondante, sono ormai per noi inaccessibili, perché il loro senso è sempre a venire:

«Ainsi nous savons, nous, ce que cherchait à deviner Lagrange, quand il parlait de métaphisique à propos de ses travaux d’algèbre; c’est la théorie de Galois, qu’il touche presque du doigt, à travers un écran qu’il n’arrive pas à percer. Là où Lagrange voyait des analogies, nous voyons des théorèms. Mais ceux-ci ne peuvent s’énoncer qu’au moyen de notions et de “structures” qui pour Lagrange n’étaient pas encore des objets mathématiques: groupes, corps, isomorphismes, automorphismes, tout cela avait besoin d’être conçu et défini.»[2].

Soltanto il lavoro di Riemann ha permesso di cogliere il senso della geometria euclidea; soltanto grazie alla teoria degli ideali di Kummer e ad alcuni teoremi di Gauss è stato possibile scrivere e comprendere lo svolgimento precedente e successivo della storia della teoria dei numeri. Il senso della geometria elementare e dei numeri naturali è, già da sempre, un senso matematico:

«Si nous voulons comprendre  ce que nous entendons par là, soi par l’activité de numération…, soit le début de la géométrie élémentaire, nous sommes obligés en réalité de dévelloper toutes les mathématiques.»[3].

Porsi, ad esempio, il problema di una definizione o genesi del concetto di numero significa dunque collocarsi al di fuori della matematica, in un altro ambito dell’attività concettuale, diciamo l’esperienza ordinaria, nel quale i numeri poco hanno a che fare con l’aritmetica: il riduzionismo e l’oggettivismo, come criteri di comprensione, sono insensati.

2. Aver ignorato o marginalizzato questa componente temporale e soggettiva della pratica matematica è probabilmente uno dei fattori all’origine delle difficoltà che sembrano caratterizzare la filosofia della matematica istituzionale – quella che si è sviluppata a partire dalla fine del secolo XIX, soprattutto in ambito analitico, a seguito di alcuni aspetti delle ricerche di Frege e sostanzialmente identificabile con un dominante paradigma fondazionalista. Si tratta di difficoltà molto serie che hanno la loro origine negli stessi atti fondativi di questa disciplina e nelle domande che ne definiscono scopi e metodi.  È vero infatti che qualsiasi tentativo di comprensione filosofica della matematica deve tener conto dei limiti imposti dalla sostanziale inaccessibilità tecnica e concettuale degli sviluppi successivi al secolo XVII. Ma, appunto, di questi limiti bisogna tener conto: bisogna farsene carico e depotenziarne l’effetto, non necessariamente drammatico, sulle possibilità di una riflessione. Al contrario, la filosofia della matematica, nel suo paradigma dominante, ha scelto di ignorare questa circostanza, dichiarando di fatto inessenziale la conoscenza e persino l’indagine sul senso e sugli obiettivi degli sviluppi moderni della matematica – a parte i casi in cui tali sviluppi hanno intercettato temi tradizionalmente cari alla filosofia, come il concetto di spazio in occasione del fin troppo celebre episodio delle geometrie non euclidee o la nozione di razionalità deduttiva con l’assiomatica novecentesca e la logica formale. Così, in nome della “scientificità” e del rigore metodologico (esigenze  potenzialmente pericolose se imposte senza cautele critiche alla filosofia), l’indagine filosofica ha preso in considerazione soltanto alcune parti della matematica –  come l’aritmetica di base, la geometria euclidea e i loro oggetti – considerate, o definite, esemplari, fondamentali e, per le loro caratteristiche di completezza e definitiva acquisizione (per nulla scontate), facilmente oggettivabili e indagabili.
Costitutive di questo tipo di approccio sono alcune assunzioni che ne definiscono l’orizzonte di senso, le risposte attese e, soprattutto, i limiti delle domande possibili. Provo a proporne un primo elenco:

  1. Fiducia nell’efficacia metodologica di un riduzionismo costitutivo ed esplicativo, per cui il senso dell’intero sviluppo della matematica è già riconoscibile negli obiettivi e nei metodi di costituzione delle teorie e degli oggetti elementari.
  2. Realizzabilità di questo progetto riduzionista: il senso di ciò che è elementare e fondamentale deve essere effettivamente accessibile a uno sguardo esterno all’attività matematica.
  3. Priorità del problema dello statuto ontologico degli oggetti matematici.
  4. Possibilità, anzi esigenza (si pensi a Frege lettore critico della Filosofia dell’aritmetica di Husserl), di dar conto dell’oggettività delle teorie e dei concetti della matematica senza chiamarne in causa l’origine nel soggetto e nella sua appartenenza a un mondo d’esperienza.
  5. Conseguente riduzione alla traccia, al già-detto, alla forma formata: il gesto matematico lascia nei libri la traccia della sua opera creativa, segni organizzati secondo modalità di significazione storicamente mutevoli. L’esigenza di estromettere dalla riflessione il soggetto e le sue operazioni richiede che il senso del gesto si ritrovi pienamente e senza scarti in questa traccia e che alla riflessione sulle condizioni di possibilità del gesto e dell’oggettività dei suoi esiti si possa e si debba sostituire la descrizione delle modalità di significazione dei segni (assiomatica, formalismo).

 

Un nuovo paradigma per la filosofia della matematica deve necessariamente prendere le mosse dalla messa in questione, e probabilmente dal rifiuto di questi presupposti, che rappresentano la struttura essenziale dell’orizzonte teoretico connesso al paradigma fondazionalista dominante. In discussione è, infatti, un certo modo di intendere la nozione stessa di fondamento, l’interpretazione che del compito fondazionale è stata data dalla filosofia della matematica di orientamento analitico e la conseguente involuzione oggettivistica dell’approccio filosofico al caso della matematica. Un’involuzione che porta la filosofia ad aderire a un modello di razionalità inadeguato, fino a rimuovere il problema che più le è proprio, il problema del senso, e a credere di poter rispondere alla domanda sul fondamento elevando a questo ruolo aspetti parziali, anche se importanti, del linguaggio della matematica – quali l’organizzazione assiomatica delle teorie e il loro carattere formale – creando così un insidioso e fatale corto circuito tra il senso dell’attività matematica e le modalità di significazione e comunicazione delle tracce o dei segni nei quali questa attività si manifesta. Il tentativo di rintracciare l’origine di questo corto circuito richiede una breve digressione di carattere storico – peraltro non fuori luogo per delle osservazioni collocate a margine di un saggio appassionatamente impegnato a chiarire l’importanza della storia per la ricerca epistemologica.


3. I lavori di fisica matematica di Newton e Leibniz e il conseguente sviluppo dei concetti fondamentali dell’analisi – differenziazione e integrazione di funzioni reali in particolare – avevano reso immediatamente chiara la grande efficacia di quel nuovo strumento nell’applicazione alle scienze naturali. Così, nel corso del XVIII secolo, si assiste a una vera e propria esplosione, uno «sviluppo illogico»[4], di metodi e idee dell’analisi, non più necessariamente in relazione alla soluzione di problemi di fisica. (Ovviamente, lo sviluppo è “illogico” soltanto in riferimento a quegli standard di rigore e di dimostrabilità formale che rappresentano una delle caratteristiche essenziali della concezione moderna della matematica). L’aspetto delle ricerche che più preoccupava i fautori della necessità di un ripensamento dell’analisi in termini più rigorosi era soprattutto l’imprecisione dei concetti e delle dimostrazioni – in altre parole, l’eccessivo e acritico ricorso all’intuizione e all’induzione: «Essa (l’analisi) manca a tal punto di ogni piano sistematico che è sorprendente che tanti uomini siano stati in grado di studiarla. E, quello che è peggio, essa non è mai stata trattata rigorosamente. Ci sono pochi teoremi dell’analisi avanzata che siano stati trattati in maniera logicamente sostenibile»[5]. Insomma, era evidente che l’edificio dell’analisi esigeva un terreno saldo su cui poggiare e da cui ricavare la certezza che l’intuizione e l’efficacia delle applicazioni non potevano, da sole, garantire.
Il lavoro ebbe inizio attorno agli anni trenta dell‘800 e si sviluppò soprattutto attraverso l’opera di matematici[6] come Cauchy, Dedekind, Cantor e Weierstrass. L’obiettivo dichiarato era quello di rendere l’analisi una disciplina autonoma, non più legata ai concetti di moto e di velocità, libera da spiegazioni di tipo intuitivo e da nozioni geometriche – sicuramente divenute sospette dopo la riflessione sulla costruzione delle geometrie non euclidee. L’idea fu allora quella di ridefinire i concetti fondamentali dell’analisi – limiti, numeri reali, serie e convergenza – in termini aritmetici, perché la semplicità e l’assenza del ricorso all’intuizione sensibile sembravano garantire alla teoria elementare dei numeri una notevole affidabilità. Per questo si è parlato spesso, in riferimento a queste ricerche e ai loro risultati, di aritmetizzazione dell’analisi, anche se il termine andrebbe discusso con attenzione. In ogni caso, il lavoro ebbe successo. La “metafisica del calcolo differenziale”[7] fu tradotta in rapporti numerici e grandezze aritmetiche. I numeri irrazionali, entità difficilmente afferrabili, in bilico come sono tra aritmetica e geometria  – responsabili fra l’altro del crollo leggendario della metafisica pitagorica – furono ricondotti, con qualche inevitabile rischio di circolarità, a successioni e limiti di numeri razionali. Un’attenta e minuziosa opera di revisione dei risultati ottenuti fino a quel momento permise di liberare le definizioni di funzione, derivabilità e continuità dalle ambiguità che le caratterizzavano e che nascondevano “patologie” inattese, come l’esistenza, dimostrata da Weierstrass, di funzioni continue ma non derivabili – patologie che furono così messe in luce e rese produttive. L’assiomatizzazione delle teorie consolidate permise infine di stabilire per le dimostrazioni standard di rigore inimmaginabili per gli analisti del‘700.
Il lavoro si concluse negli ultimi anni del secolo e fu celebrato con soddisfazione nel corso del famoso Congresso internazionale di Parigi del 1900. I risultati raggiunti erano importanti e necessari. Importanti, perché aprivano di fatto una nuova fase della ricerca matematica. Necessari, perché la consapevolezza del carattere non più mimetico e riproduttivo dei concetti della matematica – conseguenza degli sviluppi più recenti – rendeva pressante un nuovo accordo e nuovi criteri per stabilire la correttezza dei risultati raggiunti: la verità non era più “visibile” e, quindi, andava dimostrata (è celebre lo stupore di Cantor di fronte a un risultato sugli insiemi infiniti del tutto contrario al buon senso eppure da accettare come “vero” perché rigorosamente dimostrato). Tuttavia, è importante sottolineare che la ricerca del rigore nelle definizioni e nelle dimostrazioni «non cambiò nessun teorema dell’aritmetica, dell’algebra o della geometria euclidea e mostrò soltanto che i teoremi dell’analisi avevano bisogno di una formulazione più accurata»[8]. Insomma, non si trattava di una “rifondazione” della matematica, ma di un aspetto delle ricerche il cui senso derivava interamente dall’interazione con le esigenze e con i problemi sollevati dall’impetuoso sviluppo dell’analisi, la disciplina dominante fino all’avvento della nuova epoca d’oro della geometria (e dell’algebra) con il XX secolo.

4. Le cose cambiarono quando questo ambito metodologico della ricerca matematica venne sottratto alla dialettica con l’effettiva pratica costruttiva e istituzionalizzato dapprima come “ricerche sui fondamenti della matematica” e poi come “filosofia della matematica” tout court. Una specie di genesi per scissione che ha da subito caratterizzato ambiguamente lo statuto della nuova disciplina: «Molto di ciò che diremo nei prossimi capitoli non dovrebbe propriamente essere chiamato “filosofia”, sebbene sia stato incluso nella filosofia finché non nacque una dottrina scientifica che ne trattasse in modo soddisfacente»[9]. Di fatto, la filosofia ha progressivamente delegato a questa disciplina a due facce – filosofica nella sue ambizioni fondazionali e totalizzanti, scientifica nei suoi strumenti e metodi: due facce non facilmente compatibili – la riflessione sulla matematica, ormai compito quasi esclusivo della logica formale.
Si sviluppa così una vera e propria “metafisica dei fondamenti”, la fiducia nella possibilità, a fronte del pericolo rappresentato dalla potenziale contraddittorietà della matematica (se si accetta il ruolo fondante della teoria degli insiemi, una contraddizione che la riguarda, come l’antinomia di Russell, rischia di corrodere l’intera costruzione matematica), di garantire una volta per sempre, prima dell’effettivo svolgersi dell’attività matematica, il senso delle sue procedure facendone l’oggetto di una teoria o, dovremmo dire, della Teoria – sia essa la logica formale di Russell o l’assiomatica e la teoria della dimostrazione di libera ispirazione hilbertiana. Che queste fossero le aspettative lo dimostra lo sconcerto con cui fu accolto il definitivo fallimento di questi tentativi, sancito ufficialmente dai teoremi di Gödel e passato alla storia, con il nome di “crisi dei fondamenti”, come il più bruciante ridimensionamento delle ambizioni del razionalismo. Ma il fallimento non sta negli esiti del progetto di queste scienze del fondamento, bensì nelle loro premesse e nei loro obiettivi. Meglio: nel ruolo e nel significato che è stato loro progressivamente attribuito, nel corto circuito che porta alla convinzione che il senso originario della matematica sia concettualmente esplicitabile come fondamento. Ma il senso non è il fondamento. La matematica, come il linguaggio, non ha un fondamento, se con questo si intende una teoria da individuare come approdo di un processo riduzionistico. Però la matematica ha un senso, perché rimanda a una condizione che permette di riconoscerla in primo luogo come attività significante e di iscriverla, quindi, in un orizzonte di comunicabilità, in un mondo, una forma di vita nella quale, da sempre, il linguaggio e la concettualizzazione rivestono un ruolo costitutivo ed essenziale per la conoscenza e l’esperienza dei fenomeni. Il radicamento attivo in questo mondo/orizzonte – il processo di idealizzazione che trasforma in concetto il dato della percezione – informa la matematica in ogni momento della sua storia: non bisogna cercarlo in una origine mitica, ma riconoscerlo, ed è la filosofia a doverlo fare, in ogni suo processo costruttivo, anche lì dove la generalità e l’astrazione del linguaggio e dei concetti sembrerebbero aver perso memoria di questa origine sensibile. L’origine della geometria, che continua ad abitarla come suo senso, sta nella tensione dinamica tra dato e concettualizzazione, tra vaghezza della percezione ed esattezza delle definizioni logico/assiomatiche, tra sensibilità e intelletto: è storia dell’incessante aspirazione a costruire un significato. Ma non coincide con un significato: le scienze del fondamento ignorano questa tensione inchiodandola al qui-e-ora delle teorie acquisite e del metodo, assolutizzando così qualcosa che è contingente e destinato a essere riassorbito dal fluire della conoscenza. Senza il tempo e la dinamica concettuale le contraddizioni sono inevitabili.
Assiomatica e formalismo sono risposte, discutibili nelle loro pretese totalizzanti, al problema del significato dei segni matematici e dello statuto ontologico degli oggetti a cui questi segni fanno riferimento. Sono risposte, del tutto interne alla pratica matematica, al come e alle modalità di funzionamento del linguaggio matematico. Ma ogni linguaggio e ogni pratica conoscitiva rimandano, per il loro senso e la loro comunicabilità, a una condizione che non può che essere esterna, anche se non semplicemente separata, rispetto all’estensione del territorio logico/concettuale o linguistico di cui è condizione[10]. Dunque a una condizione che non può essere l’oggetto del sapere esplicito di una pratica o di un linguaggio, ma il residuo, o l’effetto, di un tentativo di risalimento riflessivo del loro darsi effettivo. Il risultato di una comprensione, non l’oggetto di una conoscenza. Insomma, una condizione trascendentale. L’errore della filosofia sta allora nella pretesa di cogliere questa condizione saturandola mediante l’indagine logico/analitica di aspetti particolari del funzionamento del linguaggio e delle procedure della matematica e delegando così a teorie e linguaggi specifici (e quindi condizionati), come la teoria della dimostrazione o la fisica dei segni, il compito ineseguibile di colmare lo scarto tra significati e senso. L’esito di questo tipo di approccio è l’inintelligibilità filosofica e culturale della matematica.
Non è possibile oggettivare ciò che, nella sua essenza, si presenta come una pratica intersoggettiva inseparabile da una temporalità profonda che la condiziona.  La matematica non si lascia comprendere da una filosofia che si definisca e si articoli come dottrina o metalinguaggio. Il problema dei fondamenti è un problema della matematica, ed è all’interno, anche se non al centro, della matematica che va affrontato. Alla filosofia spetta invece tematizzare ciò che all’interno dell’attività matematica non può essere tematizzato: il senso di questa attività, le sue condizioni di possibilità. Questo senso e queste condizioni rimandano a una temporalità originaria, a una costante tensione tra immaginazione e concetti, a un rapporto fondante col mondo e con l’esperienza che ne facciamo – non a possibili oggetti di una meta-teoria. La filosofia (della matematica) dovrebbe risolversi nel tentativo di risalire a queste condizioni di senso per riconnettere la matematica all’attività del soggetto della conoscenza e, in generale, alla cultura. Senza questo tentativo, senza questo sforzo di comprensione – mai definitivo – la scienza, la matematica, l’arte resterebbero ferme a se stesse, chiuse in un narcisistico gioco auto-referenziale che causerebbe il loro sgretolamento: di fatto, cesserebbe di essere propriamente scienza, matematica e arte. Questa è la Krisis, il risultato della rinuncia all’impegno di tenere aperto lo spazio per una filosofia del senso. Di questo impegno può e deve farsi carico una fenomenologia critico/trascendentale dell’esperienza matematica, un lavoro di descrizione e di riflessione teso a comprendere che la costituzione degli “oggetti” matematici e la condizione di senso dell’esperienza che di questi oggetti il matematico è chiamato a fare rimandano alle stesse facoltà e processi che formano il processo conoscitivo nella sua generalità. La matematica è una faticosa attività costruttiva, non il resoconto di un contatto privilegiato con il vero: la sua storia è anche una storia di costruzioni parziali, di errori, di percezioni incomplete. Riemann non ha dimostrato teoremi, non ha “dedotto” nulla: ha aperto nuovi territori, lasciando ad altri il compito di esplorarli e descriverli con il rigore richiesto dalle convenzioni stabilite. Da un punto di vista formale, se davvero la matematica fosse deduzione rigorosa da assiomi, la sua opera, cioè l’opera del più grande genio e innovatore della storia del pensiero matematico, sarebbe incompleta. Come incompleti erano i lavori della scuola italiana di geometria, un altro dei grandi momenti della storia della matematica (Castelnuovo, Enriques, Severi): il novecento ha dovuto riscriverli completamente per adattarli ai nuovi linguaggi e verificare la correttezza delle loro intuizioni. È la reazione della comunità matematica che decide dell’importanza di un’opera e della sua correttezza, la dialettica che la parole del creatore stabilisce con la langue in vigore, non la riproducibilità meccanica delle dimostrazioni che contiene. Bisogna liberarsi della fascinazione esercitata dalla efficacia dei linguaggi e dei metodi che la matematica periodicamente si è data (esistono stili ed epoche in matematica) per riconoscere la costitutiva storicità che struttura dall’interno ogni teoria, ogni gesto creativo e ogni risultato.

5. L’interpretazione di questa storicità, la rivalutazione e la comprensione del ruolo dell’errore nello sviluppo della conoscenza, la proposta di un razionalismo critico che ampli la concezione della razionalità evitando di identificarla con l’ipostasi di uno soltanto dei suoi aspetti, la fondazione di una epistemologia non positivista e formale. A questi obiettivi guarda e aspira Enriques nel saggio ora ripubblicato. Il saggio uscì dapprima in Francia, nel 1934, dove venne accolto con grande interesse, e solo nel 1936 in Italia, dove l’accoglienza fu senz’altro più tiepida. Da’altra parte, il pensiero non allineato al paradigma logico/fondazionalista ha sempre trovato in Francia e nella scuola filosofico/epistemologica francese (Poincaré, Metzger, Brunschvicg, Cavaillès, Petitot, Harthong, Salanskis, Badiou) un prezioso punto di riferimento.
In Italia, una polemica un po’ assurda – una guerra corporativa, una lotta di potere culturale mascherata da dibattito teoretico – ha artificialmente polarizzato la riflessione impoverendo gravemente, con dannose conseguenze ancora oggi in parte percepibili, la cultura filosofica italiana:

«Avendo sistematicamente degradato il sapere scientifico a mera illusione oppure a subdolo inganno prodotto da una ragione algoritmico-formale incapace di cogliere le più vere morfologie della realtà effettuale, oppure, ancora, a una semplice dimensione tecnico-banausica e pragmatica, i romantici (e i neoidealisti) non sono più riusciti a percepire l’intrinseca plasticità storica dell’impresa scientifica, mentre i loro avversari si sono in genere consolati con un mito metafisico (obsoleto) proclamante una pretesa “verità assoluta”, posta completamente al di fuori e al di là di ogni possibile ed effettiva dimensione storica. Entro questa duplice e dogmatica unilateralità si è così persa di vista la possibilità di elaborare una diversa, più articolata e complessa visione della conoscenza scientifica e dei suoi nessi con il mondo storico.»[11]

C’è da augurarsi che la lodevole e preziosa scelta di ripubblicare il saggio di Enriques in volume che contiene anche numerosi studi di notevole interesse – oltre ai due curatori, Mario Castellana e Arcangelo Rossi, hanno contribuito Dario Antiseri, Enrico Castelli Gattinara, Fabio Minazzi, Ornella Pompeo Faracovi, Gabriella Sava – possa aiutare a porre rimedio, sia pure tardivamente, ai danni causati da quella infelice polemica. Restituendo alla cultura italiana il pensiero discontinuo e stimolante di un “dilettante” della filosofia a cui capitò di essere uno dei più grandi matematici della storia.


1) F. Enriques, Il significato della storia del pensiero scientifico, a cura di Mario Castellana e Arcangelo Rossi, Barbieri 2004.

2) A. Weil, De la métaphisique aux mathématiques, in Oevres complètes, 1960a. A Lagrange mancavano i nomi, il contesto linguistico e di senso che soltanto il lavoro di Galois e degli algebristi dell’ottocento avrebbero creato.

3) J. Cavaillès, Oevres complètes de philosophie des sciences, Hermann, 1994, p. 604.

4 Cfr. M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, Milano 1985.

5) N. H. Abel, Œvres II; p. 265

6) Il problema era genuinamente matematico, strettamente legato alle esigenze interne della ricerca. Un approccio filosofico non sarebbe stato concepibile perché in questione non era il fondamento filosofico della conoscenza matematica, ma gli standard di rigore necessari per dare “certezza” ai risultati ottenuti. Questo è un punto molto importante per il tema di questo lavoro.

7) J.L.R. d’Alembert, «Limite», in Encyclopédie, Genève, Pellet 1778, Vol. XX, pp. 58-59

8) M. Kline, op. cit.; p. 212.

9) B. Russell, Introduzione alla filosofia della matematica, Perugia 1980; p. 15.

10) Questo, come fa notare opportunamente Emilio Garroni, rende piuttosto marginale l’antichissimo dibattito sul carattere analitico o sintetico del giudizio matematico: «si tratta non tanto di stabilire se la singola proposizione matematica […] sia analitica o sintetica, ma se i giudizi matematici siano possibili solo a meno di una condizione non contenuta in essi» (E. Garroni, Estetica, Garzanti 1992; p. 189 n.)

11) F. Minazzi, L’isola di Laputa e i suoi critici, in F. Enriques, Il significato…, cit., pp. 179-180.



PUBBLICATO IL : 07-12-2005

 

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