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Roberta Lanfredini (a cura di), A priori materiale. Uno studio fenomenologico , Guerini e Associati, 2006
di Federica Buongiorno

Il volume raccoglie una serie di saggi risultanti da una giornata di discussione sulla nozione di a priori materiale svoltasi presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze il 9 dicembre 2004: i contributi presentati, la cui pubblicazione è stata curata da Roberta Lanfredini (docente di Gnoseologia presso la stessa Università di Firenze), muovono in larga parte dall’assunzione della fenomenologia husserliana come una forma di nuovo empirismo, giocata per l’appunto sulla nozione di a priori materiale. «Tutta la complessa architettura delle tesi fenomenologiche – scrive Lanfredini nell’Introduzione – […] può essere letta come l’espressione di una elaborata teoria dell’esperienza e della sua autonoma struttura»: in altre parole, si sostiene che l’a priori materiale husserliano gode di un’intrinseca autonomia data dal fatto che, per Husserl, non è necessario disporre di una “teoria della formazione del concetto” per procedere ad un’analisi fenomenologica del dato. I dati percettivi sono dotati di una certa complessità che appartiene loro specificamente, senza che «un processo logico, o comunque intellettuale, necessariamente “combini” colori ed estensioni, timbri e durate».
Il volume si apre con il saggio di Paolo Parrini, che si propone di indagare «le proprietà epistemologiche delle asserzioni o dei giudizi comunemente considerati esempi di a priorimateriale», mettendo a confronto tra loro la nozione kantiana di sintetico a priorie la categoria husserliana di a priorimateriale, al fine di comprendere se e in quale misura sia possibile porre agli esempi di a priorimateriale gli stessi interrogativi sollevati dai kantiani giudizi sintetici a priori, verificando così quale portata conoscitiva sia da attribuire ai primi. Parrini muove dall’analisi preliminare delle kantiane condizioni formali della conoscenza, sia quelle logico-analitiche (comprendenti i principi della logica generale) che quelle logico-trascendentali (comprendenti, come è noto, le forme pure della sensibilità e le categorie dell’intelletto con i relativi schemi e principi): è proprio da questo secondo gruppo di condizioni che dipendono i giudizi sintetici a priori della matematica e della fisica. Parrini evidenzia come in Kant l’ambito dell’a priori venga ad identificarsi con il “dominio del formale”: tanto le condizioni logico-analitiche quanto quelle logico-trascendentali, infatti, fanno astrazione delle componenti materiali della conoscenza (prescindono cioè dal contenuto, dalla materia dei giudizi), ma al tempo stesso questa estensione del formale risulta problematica nella misura in cui il sintetico a priori è, appunto, non soltanto a priori ma anche sintetico, il che sembra implicare un rinvio ad una componente comunque contenutistica e materiale. Benché gli esempi husserliani di a priori materiale rappresentino giudizi di tipo fondamentalmente diverso dai giudizi sintetici a priori di Kant, è possibile chiedersi – secondo Parrini – se essi avanzino o meno la stessa pretesa di questi ultimi, se cioè pretendano anch’essi di porre dei limiti all’esperienza possibile, presentandosi come condizioni della possibilità stessa degli oggetti d’esperienza. Per rispondere a questa domanda, Parrini si avvale dell’ausilio fornito dalla critica agli a priori materiali mossa da Schlick nel suo saggio del 1930 Gibt es ein materiales Apriori?. Tale critica consta di tre punti: in primo luogo, Schlick contesta che si possa qualificare un a priori come materiale. Egli ritiene che l’associazione kantiana tra ambito a priori ed ambito formale vada mantenuta e considerata come una conquista permanente della filosofia. In secondo luogo, Schlick contesta ai fenomenologi il fatto di aver fondato la validità di questi “sorprendenti” giudizi sull’oscura e non sufficientemente fondata nozione di evidenza. In terzo luogo, Schlick nega la possibilità che si dia un a priori materiale per gli stessi motivi che lo portano a negare l’esistenza di un a priori sintetico come quello kantiano: non esistono giudizi a priori che non siano anche analitici, motivo per cui non è nemmeno possibile che tali giudizi siano qualificabili come materiali. Per sostenere il suo punto di vista, Schlick ricorre a considerazioni d’ordine logico-linguistico da cui Parrini trae spunto per porre in campo un ulteriore interrogativo: come va classificato l’eventuale dissenso dalle esemplificazioni dell’a priori materiale? E’ esso da intendersi come un caso di “mancata comprensione” (disaccordo concettuale o linguistico) o piuttosto come un caso di “divergenza sui fatti” (disaccordo di credenza o dottrinale)? Si può sostenere che nel caso dell’husserliano a priori materiale sia possibile negare asserzioni materialmente a priori senza che questa negazione venga considerata come un disaccordo linguistico-concettuale? Sulla scorta delle considerazioni di Schlick, la risposta appare a Parrini negativa: mentre Kant si era preoccupato di indagare il quid juris, chiedendosi in che modo fosse possibile che le forme della soggettività conoscente avessero validità universale e necessaria per gli oggetti dell’esperienza, Husserl ed i fenomenologi non mostrano tale preoccupazione e non si pongono (secondo Schlick) alcun problema di giustificazione dell’a priori materiale.  Parrini si ricollega a questo punto al saggio di Hans Reichenbach del 1920 Relativitätstheorie und Erkenntnis apriori, in cui Reichenbach sostiene che per giustificare a priori la validità universale e necessaria di un insieme di principi, è necessario dimostrare la validità di quella che egli definisce “ipotesi dell’arbitrarietà della coordinazione”; ma la teoria della relatività costituisce una confutazione della kantiana teoria dei giudizi sintetici a priori appunto in quanto mostra che tale ipotesi è falsa. E’ possibile dimostrare che l’husserliano a priori materiale non sottostà all’obiezione che Reichenbach ha mosso al concetto kantiano di sintetico a priori? Ciò che ha scatenato il contrasto tra teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori e principi della relatività sono stati i risultati della percezione sensibile: questa constatazione potrebbe indurre ad ipotizzare che nel caso dell’a priori materiale tale contrasto sia scongiurato per il fatto che esso si basa sulla stessa evidenza sensibile-percettiva. Questa ipotesi appare però debole, nella misura in cui si voglia assegnare all’a priori materiale una validità autenticamente oggettiva e non meramente soggettiva. Di qui la conclusione di Parrini: «può benissimo essere che essi [gli a priori materiali] descrivano delle proprietà strutturali del nostro apparato rappresentativo, ma ciò non ci autorizzerebbe ancora a sostenere che hanno una validità oggettiva».
Il saggio di Jocelyn Benoist muove dall’evidenziazione dell’ampliamento della sfera del sintetico a priori kantiano operato dalla fenomenologia a partire dalla proposta avanzata da Stumpf nel suo Über den psychologischen Ursprung der Raumvorstellung del 1873, le cui riflessioni furono riprese da Husserl all’interno della Terza Ricerca logica. L’idea è che «l’a priori deve farsi anche carico della dimensione contenutistica dell’esperienza», deve cioè dirci qualcosa sulla forma e sullo stile del mondo o perlomeno di ciò che in esso è incontrato: questa operazione si fonda sulla convinzione fenomenologica che sussistano delle “condizioni di pensabilità di qualcosa in quanto esistente”, per esempio (nell’esemplificazione classica husserliana) se ritengo esistente il colore non posso pensarlo separatamente dall’estensione, benché ciò non implichi affatto che io non possa “rappresentarmi” il colore da solo. Benoist rileva come Husserl arrivi ad affermare al riguardo una sorta di coappartenenza del pensiero e dell’essere: «il pensiero è pensiero dell’essere, pensiero intrinsecamente carico dal punto di vista ontologico». Siamo quindi nel pieno di una dimensione propriamente contenutistica e Benoist ne è portato a chiedersi se sia possibile, all’interno di tale prospettiva, parlare ancora di un a priori. Come già in Bolzano, per Husserl una verità a priori è una verità comunque concettuale, dipendente dai soli concetti contenuti nella proposizione: vi sono però due diversi tipi di verità concettuali, quelle dipendenti dalle sole componenti logiche della proposizione e quelle dipendenti anche da concetti materiali (contenutistici) compresi nella proposizione. Da Kant in poi si è sempre ammessa l’esistenza di un a priori logico-analitico, avente a che fare con la dimensione formale vuota di contenuto, e un a priori sintetico da quello distinto ma pur sempre rientrante nella sfera formale trascendentale: le stesse prospettive che, contro Kant, ammettono l’esistenza di un vero e proprio a priori materiale tengono sempre ferma la sua distinzione dall’a priori logico. Anche Bolzano sosteneva che la proprietà di essere a priori o a posteriori è una caratteristica intrinseca delle proposizioni in sé come entità semantiche indipendenti dalla soggettività pensante ed enunciante, e rilevava come fra quelle verità a priori (puramente concettuali) rientrassero anche delle verità sintetiche: il punto fondamentale restava comunque il carattere esclusivamente “semantico” di questo a priori, antesignano dell’a priori materiale. Il quadro cambia in Husserl: una volta che questi ha caricato la nozione di a priori di un significato propriamente ontologico, la teoria dell’a priori materiale non può più restare soltanto semantica ma rinvia necessariamente all’ontologia. L’a priori materiale husserliano investe perciò le strutture stesse del reale, le fenomenologiche “essenze”, le quali costituiscono il terreno in cui l’a priori materiale affonda le sue radici, caratterizzandosi come fondamentalmente ontologico: il riferimento alle essenze ci dice che sussiste un “fatto” dell’a priori, consistente nella strutturazione specifica dell’essere, che è anteriore all’a priorità (alla necessità stessa del pensiero). Quest’ultima assunzione viene fortemente interrogata da Benoist: egli intende le essenze fenomenologiche come dei “frammenti di significato proiettati sul mondo”, una interpretazione che chiama decisamente in causa la soggettività conoscente, di contro all’interpretazione che vede le essenze fenomenologiche come strutture effettive dell’essere, indipendenti dal pensiero che si rivolge ad esse. Secondo Benoist «le essenze non sono pure strutture del mondo, ma hanno sempre a che fare con gli strumenti con cui ci si accosta a questo mondo, e con le domande che vengono poste a esso»: esse costituiscono una sorta di imprescindibile “griglia normativa”. L’Autore conclude il suo intervento appellandosi a quello che egli stesso definisce un “realismo austiniano”, che dia centralità a due assunti fondamentali: innanzi tutto, è impossibile un approccio cognitivo al reale che prescinda da una griglia normativa in grado di incorniciare il reale stesso, e, in secondo luogo, va ricordato che tale “incorniciare” esige un contesto ontologico di riferimento ovvero una qualche “transazione” con il reale.
Sin dalla Premessa al suo saggio Roberta Lanfredini esplicita con chiarezza il proprio intento teorico: l’obiettivo è sostenere la tesi secondo cui «la prospettiva di Husserl va nella direzione di un empirismo estremamente sofisticato perché nello stesso tempo radicale ma non riduzionistico». La convinzione di fondo è che il concetto di a priori materiale rinvii alle nozioni fenomenologiche di “dato” e, a questa correlata, di contenuto effettivo del dato stesso.Lanfredini s’impegna quindi nell’analisi della nozione fenomenologica di dato, che appare provvista di un carattere «centrale, primitivo e assolutamente prioritario»: il concetto husserliano di Gegebenheit (che si caratterizza per tre proprietà fondamentali: la generalità, l’indubitabilità e l’analizzabilità) emerge dall’articolarsi delle due movenze fenomenologiche fondamentali della “riduzione riflessiva”, articolata in una riduzione noetica ed in una noematica, e della “riduzione eidetica”. Fondamentale risulta essere, in particolare, la nozione di riduzione eidetica o di “ideazione”, che Husserl distingue nettamente da ogni processo di astrazione, il quale procede per negazione o esclusione di determinate caratteristiche a partire da una molteplicità data. Rifacendosi all’analisi svolta da Cassirer in Sostanza e funzione, Lanfredini evidenzia come il processo dell’astrazione (tanto nella sua versione empirista quanto in quella metafisico-sostanzialista) presupponga la possibilità di ricavare le nozioni astratte quali parti costitutive costanti di uno specifico contenuto, ma il limite di questo procedimento risiede nell’arbitrarietà dei criteri scelti per stabilire quando un certo complesso oggettuale debba cadere sotto un certo concetto. Lo stesso Cassirer non sembra rinunciare all’idea che il contenuto oggettuale possa svolgere un ruolo nel processo conoscitivo «solo se inserito e strutturato in schemi concettuali in grado di oggettivarlo»: negli stessi anni in cui scriveva Cassirer, Husserl – mosso da un’analoga critica della teoria dell’astrazione – perveniva a risultati teorici profondamente diversi da quelli cassireriani, grazie appunto alla nozione di ideazione. La prima, fondamentale caratteristica di quest’ultima è il suo non essere in alcun modo un processo astrattivo: essa non procede per negazione o esclusione di certe note caratteristiche in favore di altre, indipendentemente dal criterio adottato per realizzare tale negazione/esclusione. L’ideazione è essenziale alla possibilità stessa di intendere il dato individuale, poichè questo viene inteso e individuato solo in quanto è riconosciuto come un campo di possibili variazioni limitate da confini eidetici: il carattere eidetico dell’individuazione comporta che il qui e ora ci sia praticamente indifferente, quel che viene intenzionato è un’essenza e solo così ci è possibile percepire la stessa proprietà individuale in oggetti differenti. C’è dunque, insita in ogni concreta singolarità, una essenzialità situata in un ambito intermedio tra individuale e universale, oggetto immediato di ogni atto d’intuizione: questo significa che l’ideazione è per Husserl un processo “intuitivo, immediato, non concettuale”, il che spiega come mai esso non sia identificabile con un procedimento astrattivo. Il concetto di a priori materiale racchiude, secondo l’Autrice, proprio questa legalità interna e necessaria al dato: la singolarità eidetica, risultato immediato del processo di ideazione, è per natura inserita in una gerarchia eidetica materiale, contenutisticamente determinata e regolata secondo i rapporti “verticali”, di inclusione, che vigono tra specie e generi e fra differenze ultime specifiche e specie. Tali rapporti verticali sono affiancati dal complesso di relazioni “orizzontali” di fondazione, sussistenti tra quelle che Husserl definisce “parti non indipendenti” dell’oggetto, corrispondenti alle differenti determinazioni del fenomeno. L’esemplificazione husserliana “un colore non può essere senza una certa estensione” implica proprio una connessione fra contenuti non indipendenti, fondati sulla specificità essenziale delle parti costituenti l’intero: proprio in quanto la connessione dei non indipendenti si basa sulla specificità essenziale dell’intero in esame, essa si caratterizza per un’intrinseca legalità materiale a priori, necessaria. E’ questo l’ambito di collocazione dell’a priori materiale.Lanfredini evidenzia a questo punto l’aspetto essenziale: l’a priori materiale fenomenologico non sembra comportare «l’individuazione di una forma sensibile indipendente né l’esistenza di una funzione unificatrice di tipo concettuale o intellettuale». In altre parole, sono gli stessi elementi del dato che, del tutto intrinsecamente, «si fondano gli uni negli altri dando luogo a interi indipendenti». L’oggetto fenomenologico si caratterizza così da un lato per la sua apertura e incompletezza, dall’altro per il suo carattere rigorosamente pre-definito ed eideticamente regolato: i due aspetti sono tenuti insieme dal “legame motivazionale” che sussiste tra i fenomeni e che fa di ogni oggetto «una sintesi, un polo unitario di tutte le possibili determinazioni motivate da un’esperienza attuale».
Il volume prosegue con il contributo di Roberto Miraglia, che indaga nel suo saggio le radici dell’equivoco occorso tra Schlick, Wittgenstein e Husserl, allorché i primi due si impegnarono in una radicale critica della nozione husserliana di a priori materiale. Come leggiamo nei colloqui riportati da Weismann, Schlick nega l’esistenza di a priori materiali e ad un’analoga conclusione perviene anche Wittgenstein: dopo aver brevemente preso in considerazione l’approccio “standard” alla questione delle verità necessarie (prendendo ad esempio la Filosofia del linguaggio di Paolo Casalegno), Miraglia passa subito all’analisi della posizione di Schlick e Wittgenstein, che assumono come esempio di a priori materiale non l’enunciato paradigmatico proposto dallo stesso Husserl (“non c’è colore senza estensione”) bensì l’enunciato “un oggetto non può essere rosso e verde”. Secondo Wittgenstein tale enunciato costituisce un esempio di proposizione logica, quindi non può essere una proposizione a priori materiale: la conclusione è analoga a quella tratta nelle Ricerche filosofiche a proposito dell’enunciato “ogni asta ha una lunghezza”, che potrebbe esser preso come un valido candidato al ruolo di a priori materiale. Proposizioni di questo genere sono solo proposizioni grammaticali e questa conclusione è condivisa da Schlick, il quale dichiara che non è necessario fare qualche esperienza per sapere che, per esempio, una nota ha un’altezza; e ciò non perché io colga la sintesi a priori tra nota e altezza ma perché mi trovo dinanzi ad una conoscenza che esplicita ciò che mi deriva solo dall’apprendimento del linguaggio. In altre parole, «il significato di un termine è completamente determinato dalla struttura formale che ne governa l’impiego».Secondo Miraglia le critiche di Wittgenstein e Schlick non colgono nel segno, poiché esse prendono in esame enunciati che nelle intenzioni di Husserl non erano esempi di a priori materiali quanto piuttosto casi di a priori formali: due sono le differenze fondamentali tra a priori formali e a priori materiali. I primi dipendono solo da categorie logico-formali e forme categoriali, mentre i secondi dipendono da concetti materiali (specie e generi materiali puri); inoltre, i primi sono «veri con i termini materiali assunti come variabili indefinite» (secondo il criterio di Bolzano) e quindi sono formalizzabili salva veritate, mentre i secondi sono veri con i termini materiali in quanto questi hanno un ambito di variabilità semantica limitata e perciò non sono formalizzabili salva veritate. E’ chiaro che anche per Husserl è determinante il criterio posto da Bolzano, il quale ha una importante, generale limitazione, secondo cui «le espressioni non logiche possono liberamente variare ma entro la loro categoria logica». Applicato all’enunciato assunto da Schlick come esempio di a priori materiale, “ogni nota ha un’altezza”, che, generalizzato al massimo, può essere tradotto con “l’esistenza di un intero implica l’esistenza delle sue parti”, questa limitazione implica di chiederci se siamo in presenza o meno di categorie formali: ipotizzando che sia questo il caso,  il criterio di Bolzano ci impone di sostituire solo nomi di interi nel soggetto e solo nomi di loro parti nel predicato, ed è appunto questo il risultato della stessa analisi husserliana e degli stessi esempi proposti da Husserl – il quale, dunque, non avrebbe mai inteso l’esempio di Schlick come un enunciato a priori materiale, bensì come un caso di verità formale. Anche l’esempio “una cosa non può essere nello stesso tempo rossa o verde”, che in termini generalissimi diventa “due specie dello stesso genere non sono predicabili di uno stesso oggetto”, non sfugge a questo ragionamento: la sua verità dipende infatti dalla forma della gerarchia genere-specie e Husserl considera genere e specie come concetti formali. Gli a priori materiali husserliani descrivono nessi di non indipendenza e dunque non rapporti di congiunzione fra parti, motivo per il quale a priori materiali nell’autentico senso husserliano sono enunciati del tipo “non vi è colore senza estensione” o “non vi è altezza [di un suono] senza durata”, e non gli enunciati discussi da Wittgenstein e Schlick. L’equivoco è evidente laddove Wittgenstein afferma che la negazione di una proposizione sintetica ha comunque senso e che perciò essa configura una situazione che “può esistere”: per Husserl la negazione di un a priori materiale ha invece senso «nonostante il fatto che lo stato di cose che tale negazione rappresenta non possa sussistere», e questo dipende dal fatto che egli utilizza i termini di “sensato” e “insensato” in un’accezione profondamente diversa da quella di Wittgenstein. Un enunciato sensato è per Husserl semplicemente un enunciato ben formato grammaticalmente e sintatticamente: ne risulta che tanto la negazione di un a priori materiale, quanto un giudizio contraddittorio in senso vero e proprio, possono essere perfettamente sensati. Nel primo caso abbiamo a che fare con un “controsenso materiale”, nel secondo con un “controsenso formale”, ed entrambi questi sono da distinguere dai “nonsensi”: quel che è determinante è la dimensione intenzionale del significato, il quale si mostra in concreto solo «quando atti di pensiero attraversano le parole puntando verso le cose». Solo in questa prospettiva è possibile parlare di a priori materiali.
Il saggio di Emanuele Coppola parte dall’assunzione della fenomenologia come una filosofia empiristica di genere nuovo, che «sottopone l’esperienza al vaglio di uno strumento nuovo, quello delle variazioni e delle intuizioni eidetiche», mediante un approccio che è insieme ontologico ed epistemologico. Alla base agisce la convinzione fenomenologica che «esista un nucleo minimo di leggi che si pretende siano valide indifferentemente per ogni forma possibile di percezione, compreso l’immaginario caso-limite della superpercezione divina». Coppola prende in esame l’esempio classico di a priori materiale, l’enunciato “ogni colore è esteso”, e si chiede come sia possibile formalizzare la dipendenza reciproca di colore ed estensione: tra le otto formalizzazioni possibili del legame di dipendenza all’interno di quella formalizzazione algebrica della teoria husserliana dell’intero e delle parti (in cui è da collocare il dominio dell’a priori materiale) recentemente proposta da Ettore Casari, Coppola propone di isolare tre differenti relazioni di indipendenza (indicate con le sigle NEED, DEP e FOUND). La prima (NEED) è enunciata da Husserl nel § 14 della Terza ricerca logica: “x ha bisogno di fondazione tramite un y quando x e y sono combinati nella chiusura di x”. La seconda (relazione di dipendenza relativa o R-dipendenza) si trova nel § 13 della Terza ricerca, in due differenti formulazioni: nella prima (DEP) si stabilisce che “un contenuto x è R-dipendente da un contenuto y se x può esistere a priori solo in y”, la seconda (che è un caso particolare di FOUND) amplia il punto di vista atomistico della precedente formalizzazione in direzione di una formulazione olistica, secondi cui “un contenuto x è R-dipendente da un intero di contenuti determinato da y e da tutte le sue parti, se x può esistere a priori solo in combinazione con altri contenuti appartenenti a quell’intero”. Infine, la terza formalizzazione (FOUND) pone una restrizione riguardante tutti i casi di fondazione bilaterale fra parti dipendenti di un intero, stabilendo che il contenuto fondante y debba essere parte della chiusura di x (dal momento che y potrebbe anche contenere elementi superflui per l’esistenza di x). Ques’ultima relazione di dipendenza, applicata al caso del colore e dell’estensione, pone tale caso nella classe di enunciati esprimenti a priori materiali statici, sulla base di uno sfondo teorico sorretto dalla griglia aristotelica di generi, specie e differenze ultime, ovvero dal sistema delle gerarchie eidetiche: in effetti il rapporto genere-specie sembra analogo, ma non identico, al rapporto husserliano parte-intero. All’interno della gerarchia eidetica possiamo quindi distinguere un ipergenere, inteso come limite superiore di una gerarchia eidetica (per esempio, la qualità sensibile), un ipogenere, inteso come genere immediatamente discendente rispetto all’ipergenere e immediatamente superiore alle specie (per esempio, la qualità cromatica, la qualità acustica, la qualità tattile e così via), una specie, intesa come una componente dell’ipogenere (per esempio, i colori specifici, i suoni specifici, le tattilità specifiche etc), e infine l’ultima differenza specifica, ovvero l’esemplificazione concreta di una specie (per esempio, questo rosso carminio, questa nota do, questa morbidezza etc). Le gerarchie eidetiche fondamentali sono quelle della qualità sensibile, dell’estensione, della posizione spaziale e della posizione temporale: ad esse vanno aggiunte quelle del vissuto intenzionale (sia dal versante noetico che da quello noematico) e della materia. Una volta ammesso che ogni realtà si struttura secondo queste gerarchie eidetiche, è necessario sviluppare ed esplicitare la loro interconnessione, dalla quale appunto risulta la cosa percepita, attraverso l’individuazione di enunciati eidetici capaci di attuare tale esplicitazione: a tal fine è necessario spostarsi dagli a priori materiali statici a quelli propriamente dinamici, che rendono conto del divenire degli oggetti. Coppola propone di muovere dal concetto di schema spazio-temporale, che può essere compendiato nella fondazione trilaterale schema sensibile + luogo + istante. Esso è essenziale nella misura in cui si riconosca che ogni oggetto fisico è un intero di schemi spazio-temporali (intero schematico) e che i singoli schemi in tale intero sono parti spazio-temporali (parti schematiche). Il fatto che gli oggetti siano costituiti secondo tali schemi non risalta nell’atteggiamento naturale, nel quale ci rapportiamo agli oggetti come ad esistenze semplicemente compatte, unitarie e sostanzialmente identiche nonostante ogni mutamento: in questo senso, scrive Coppola, «l’identità oggettuale è un fato da riguadagnare sul piano filosofico». Bisogna muovere dalla considerazione del fatto che ogni vissuto intenzionale consta di un decorso scandito secondo tre modalità: impressioni, ritenzioni e protensioni. Questi costituenti base della coscienza sono momenti dinamici, scandenti il flusso temporale di coscienza e delle apprensioni oggettuali per esso realizzate: in ogni istante percettivo è rilevabile l’associazione sintetica dei costituenti impressionali, ritenzionali e protensionali secondo le due leggi fondamentali della successione e della coesistenza. In particolare, si danno quattro leggi della successione impressionale ed una legge della molteplicità sincronica, puntualmente enunciate da Coppola nella loro formalizzazione esatta, il cui senso è quello di dimostrare come non esistano qualità dell’oggetto estesiologico che non dipendano dalle specie temporali: ovviamente, l’innesto della temporalità nella regione dell’oggetto fisico non può non avere delle ricadute sulle legalità d’essenza vigenti al suo interno. Coppola sfrutta questa circostanza per proporre, come esempi di a priori materiali, i seguenti due enunciati: “ogni schema sensibile è univocamente localizzato in un luogo e in un istante”, e “ogni parte schematica di un intero oggettuale R-dipende da una successiva parte schematica”. I due enunciati valgono come a priori materiali sulla base della definizione husserliana dei concetti si sensazione, spazio fenomenico e tempo fenomenico come concetti empirici: ne risulta che è proprio «l’individuzione dei punti spazio-temporali che rende biunivoca la corrispondenza dei momenti specifici e, quindi, generici dell’estensione e della qualità cromatica». Certamente l’oggetto estesiologico non si identifica in generale con l’oggetto fisico, nel senso che il primo è una sorta di sottoconcetto del secondo (un concetto regionale inferiore): se così non fosse, se cioè i due concetti fossero coestensivi, l’essere senziente disporrebbe di un campo visivo capace di abbracciare in ogni istante la totalità degli oggetti e degli eventi spazio-temporalmente determinati, e dal momento che non è evidentemente questa la condizione del senziente, se ne dovrebbe concludere (altrettanto contro-intuitivamente) che le cose esistono esclusivamente nella misura in cui si manifestano percettivamente, e così «la fenomenologia collasserebbe sul fenomenismo». La triade impressione-ritenzione-protensione deve essere invece concepita come una struttura duplice ma unificata, una struttura cioè dell’oggetto tanto nelle sue parti schematiche soggettive quanto nelle sue parti schematiche oggettive: bisogna tener fermo al parallelismo noetico-noematico, onde evitare rischi di ricadute in forme ingenue di realismo. Si potrà allora rilevare che le leggi della successione e della coesistenza possono certamente rappresentare istanze di a priori materiali, ma solo a condizione di riferirsi al concetto regionale dell’oggetto estesiologico: quest’ultimo è trascendente a tutti gli effetti, è l’oggetto reale in quanto percepito, ma il problema è comprendere cosa accade nel momento in cui l’oggetto reale non è più il correlato attuale di una percezione. La risposta ci viene appunto dalla fondazione impressione-ritenzione-protensione, per la quale l’oggetto, percepito o meno, deve necessariamente darsi in una durata: la continuità della percezione non può infatti essere infinita, benché il processo di adeguazione della percezione esterna sia suscettibile di un perfezionamento infinito, ma è certo che se qualcosa viene percepito, ciò avviene secondo le leggi del rapporto impressione-ritenzione-protensione.
Il volume si conclude con il contributo di Paolo Di Lucia, che indaga il tema dell’ontologia sociale, le cui origini sono dichiarate anteriori alla ricerca di Adolf Reinach, filosofo e giurista tedesco che per primo indagò sistematicamente «lo statuto ontologico dell’a priori dell’interazione sociale». L’espressione soziale Ontologie e l’idea di mettere a punto una “ontologia sistematica delle datità sociali” compaiono infatti già in un manoscritto di Husserl risalente al 1910. Certamente, fu Reinach a fornire i tre contributi decisivi all’ontologia sociale: la teoria degli atti sociali, la teoria degli oggetti giuridici e la teoria delle verità a priori che vincolano gli atti sociali ai loro prodotti (agli oggetti giuridici). Da questi contributi derivano però due domande di principio: innanzi tutto, occorre chiedersi se vi sono verità a priori che vincolano all’atto il contenuto dell’atto. A questa domanda Tommaso d’Aquino aveva risposto affermativamente, sostenendo che «una promessa deve avere per oggetto qualcosa che si fa a favore del promissorio»: è dunque dall’oggetto che l’atto riceve la sua specificità. Il filosofo finlandese Georg Henrik von Wright aveva invece risposto negativamente: egli si chiede se un enunciato del tipo “ti prometto di fare p” sia possibile, ovvero se l’uso delle parole in questo enunciato “costituisca una promessa”. Von Wright non allude però né alla possibilità materiale né a quella logica, bensì a un terzo tipo di possibilità, che De Lucia chiama eidetica: è «la possibilità che il contenuto della variabile p contraddica la costituzione (eidetica) dell’atto stesso del promettere». Von Wright rileva al riguardo che una promessa che abbia per oggetto un’azione vietata è  possibile non solo materialmente o logicamente, ma anche eideticamente: vi è però un quarto senso di “possibile”, per il quale promettere un’azione vietata «integra una contraddizione e appare perciò paradossale». Si tratta del senso deontico della possibilità: promettere un’azione vietata è deonticamente impossibile, al punto tale che si delinea una vera e propria verità logica specifica al deontico, secondo la quale “una promessa di un’azione vietata è essa stessa vietata”. Questa idea di verità logiche proprie della sfera del deontico costituisce l’intuizione più brillante di von Wright ed ha aperto alla costruzione di una logica deontica: von Wright contrappone le verità logiche specifiche al deontico alle verità logiche che sono vere non per lo specifico carattere dei concetti deontici, bensì «in virtù dell’applicazione di uno schema logico valido per qualsiasi enunciato». La seconda domanda che sorge dalle riflessioni di von Wright conduce a chiedere se vi sono verità a priori che vincolano l’atto alla materia dell’atto: De Lucia individua il più limpido esempio di ciò in Karl Marx, laddove questi si interroga sul concetto di “natura della cosa” (nell’articolo giovanile Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz  pubblicato nel 1842 sulla “Gazzetta renana”). Qui Marx critica il progetto di legge della Dieta renana che intendeva introdurre il divieto di raccogliere la legna secca caduta, equiparando quest’azione al reato di furto: Marx ribatte che l’atto di raccogliere la legna secca caduta non può essere qualificato come un furto per la natura dell’oggetto contenuto in tale atto, appunto la legna secca caduta. E’ con Marx che sulla scena dell’ontologia sociale irrompe la cosa materiale: «con ciò – conclude De Lucia – Marx anticipa di mezzo secolo un’intuizione di Edmund Husserl secondo la quale la distinzione radicale tra le differenti e differenziali regioni dell’essere non preclude, ma anzi dischiude l’intrecciarsi e il parziale sovrapporsi delle scienze di esse».



PUBBLICATO IL : 12-12-2007

 

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