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Francesca Guadalupe Masi, Epicuro e la filosofia della mente. Il XXV libro dell’opera "Sulla Natura" , Academia Verlag, 2006
di Francesco Verde

Passeggiando lungo il III miglio dell’Appia Antica, la regina viarum di Stazio, è possibile ammirare ancora nella loro superba bellezza i resti del IV secolo d. C. appartenenti al Circo di Massenzio che qui, dove sorgeva il Pago Triopio di Erode Attico, aveva voluto costruire la sua residenza imperiale oltre alla tomba del figlio Romolo morto in giovane età. Il Circo era adibito alle corse dei cavalli ma probabilmente non vennne mai usato. Ciò che di primo acchito colpisce la vista dell’osservatore è la torre in opus listatum dei carceres, le dodici postazioni di partenza dei cavalli chiuse da cancelli di ferro. Difficile che la memoria non vada ai celeberrimi versi di Lucrezio (de rerum natura II 263-265) in cui il poeta filosofo scrive: «Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo/sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli/prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?» (trad. Giancotti). I versi appena citati sono tratti dal secondo libro del de rerum natura e in particolare dalla sezione 216-293 in cui viene descritta la declinazione atomica, il clinamen, teso a giustificare l’esistenza della natura (gli atomi, infatti, non potrebbero aggregarsi senza tale declinazione) e la possibilità della libertà. Lucrezio, per far comprendere al lettore a cosa mirasse quell’incerto depellere paulum del clinamen, usa la metafora dei cavalli nel circo poco prima della loro partenza. In quell’istante la equorum vis, pur così smaniosa di partire, non prorompe simultaneamente al desiderio della mente: l’azione non è simultanea, quindi, al comando della mente ma solo di poco successiva. E ciò accade per il fatto che il principio delle azioni risiede nella voluntas che in seguito permette che i movimenti per membra rigantur, si dispieghino per le membra. Il clinamen, pertanto, spiega esattamente come sia possibile che la mens/voluntas possa determinare spontaneamente alcuni stati mentali che permetteranno solo in seguito l’azione deliberata. Ma come è possibile che la formazione degli stati mentali sia, per così dire, autonoma se la mente possiede una ben precisa costituzione atomica e se essa interagisce sempre con l’ambiente esterno? A tali interrogativi risponde esaurientemente il volume di Francesca Guadalupe Masi (Fano 1975), occupandosi della sottile questione della libertà all’interno del sistema atomistico epicureo; più specificamente la Masi si dedica ad approfondire la nascita e lo sviluppo degli stati mentali da cui si origina la libera voluntas di cui parla Lucrezio proprio in riferimento al clinamen.
L’analisi della Masi si concentra sui frammenti papiracei del XXV libro del Peri physeos, l’opera maggiore di Epicuro in 37 libri, scritta in oltre 15 anni; i frammenti del XXV libro, di cui l’A. fornisce una nuova traduzione, sono stati al centro di una vivace querelle storiografica che ha visto partecipare numerosi studiosi di indiscussa competenza come Sedley, Laursen, Annas, Bobzien et alii. Il pregevole volume della Masi entra di diritto all’interno di tale dibattito storiografico contribuendo a rinverdire la tradizione italiana di studi epicurei di papirologia; ciò viene perseguito non solo presentando una nuova traduzione dei frammenti papiracei del XXV libro che si discosta da quelle precedenti (Sedley; Laursen) ma anche prospettando in maniera originale una visione “evolutiva” del modello antiriduzionista e antideterminista epicureo, chiarendone gli aspetti più raffinati e “moderni”.
Il XXV libro è dedicato, infatti, alla formazione degli stati mentali che si costituiscono autonomamente; difficile non scorgere in queste pagine la polemica di Epicuro nei confronti dei fondatori dell’atomismo antico (Leucippo e Democrito), dei loro allievi e, probabilmente, dei Megarici (in particolare Diodoro Crono). Gli atomisti, infatti, erano profeti di un forte determinismo/necessitarismo che, ad esempio, Democrito identificava con la dine, il vortice atomico primigenio da cui si è originata la realtà; i Megarici, invece, con i loro sofismi dovuti ad equivoci linguistici attentavano al concetto stesso di libertà. Il XXV libro, di conseguenza, appare essere polemico verso quelle scuole o dottrine filosofiche che negavano la capacità umana di autodeterminarsi. A tal proposito Epicuro, al fine di giustificare la formazione libera degli stati mentali da cui si sarebbe originata l’azione altrettanto libera, aveva di fronte a sé almeno due ostacoli da superare: da un lato, la costituzione atomica (systasis) propria di ogni individuo, dall’altro l’ambiente esterno (chora) – fisico e socio-culturale – con cui la costituzione atomica continuamente interagisce. In un sistema materialistico come quello epicureo è chiaro che al livello fisico la costituzione atomica potrebbe senza dubbio determinare la formazione degli stati mentali, ricadendo nel temibile rischio di un determinismo fisico; a ciò potrebbe aggiungersi anche il rischio di un riduzionismo ambientale e socio-culturale – di stampo aristotelico – che influenzerebbe in maniera determinante la natura degli stati mentali.
Secondo la Masi, per ovviare a tali difficoltà, Epicuro, definendo de iure e de facto una vera e propria “filosofia della mente”, riconosce alla mente un principio causale di autodeterminazione del tutto irriducibile alla costituzione atomica del soggetto e alle influenze di tipo storico-culturale. Tale principio è, quindi, il responsabile della formazione libera e indipendente degli stati mentali che si identifica con la capacità interpretativa riconosciuta al soggetto conoscente. Si tratta di un punto di notevole importanza che l’A. mette limpidamente a fuoco. Come è noto la prima parte del sistema epicureo non è la logica ma la canonica. Quattro sono i canoni o norme epistemologiche che scandiscono – gerarchicamente – il processo conoscitivo del soggetto percipiente: la sensazione (aisthesis), la prolessi (prolepsis), il contatto rappresentativo dell’intelletto discorsivo (epibole tes dianoias) e, infine, le affezioni (pathe). La sensazione rappresenta il livello fondamentale da cui si origina il processo cognitivo: tutto ciò che il soggetto conosce non può che prendere le mosse dalla sensazione. Ora la sensazione secondo Epicuro si determina come un impatto fisico dovuto alla collisione dei simulacri o eidola con gli organi di senso, compresa la mente. I simulacri non sono altro che sottilissime pellicole atomiche che si distaccano continuamente dalla superficie dell’oggetto considerato dal soggetto percipiente; tali flussi atomici riportano tutte quelle “note” o caratteristiche specifiche che permettono al percipiente di riconoscere l’oggetto. Per comprendere meglio questo punto conviene rifarsi alla testimonianza di Sesto Empirico (adv. mathem., VII 204-209 = 247 Usener); il filosofo scettico riferisce fedelmente il pensiero di Epicuro in cui l’identificazione fra il phainestai e l’esti suona in funzione genuinamente anticirenaica: «E riguardo ai particolari bisogna ritenere press’a poco nel modo seguente. Ciò che è visibile non solo appare tale, ma è così come appare; e ciò che si ode non solo appare udibile, ma anche nella realtà è tale, e così via. Tutte le rappresentazioni sono dunque veraci. E di norma, se appare verace una rappresentazione, dicono gli epicurei, quando provenga da qualcosa che esiste e le corrisponde, ogni rappresentazione deriverà da qualcosa che esiste e gli corrisponderà, dunque ogni rappresentazione dovrà necessariamente essere verace. Alcuni restano ingannati dalla differenza delle rappresentazioni che appaiono provenire da uno stesso oggetto sensibile, come per esempio qualcosa che si vede, differenza per la quale l’oggetto appare diverso o di colore o di forma o di qualsivoglia altro carattere. Credono così che di queste rappresentazioni diverse e in disaccordo, una sia necessariamente verace l’altra all’opposto falsa. Ma ciò è stolto e degno degli uomini che non conoscono la natura delle cose. Non si vede infatti l’oggetto in tutta la sua realtà (tanto per continuare il discorso sulle cose visibili), ma il colore di esso. E del colore parte appartiene all’oggetto vero e proprio, come accade per le cose che si vedono da vicino o da modica distanza, parte è fuori dell’oggetto e si trova nello spazio contiguo, come accade per le cose che si vedono da lontano; questo mutandosi nello spazio frapposto [fra l’oggetto e la nostra vista], e ricevendo una forma appropriata produce una sensazione solo approssimativamente uguale a quella che esiste in realtà. E nello stesso modo in cui non si sente né il suono che è nel vaso di bronzo percosso, né nella bocca di chi grida, ma quando giunge ai nostri sensi, e come nessuno direbbe che sente il falso chi sente un suono debole da lontano, poiché una volta avvicinatosi lo intende maggiore, così non direi che la vista ci inganna quando da una grande distanza vede una torre piccola e rotonda, da vicino grande e quadrata, ma che è verace, sia quando l’oggetto appariva piccolo e di quella particolare forma, poiché veramente era tale essendosi consunti i contorni dei simulacri durante il movimento attraverso l’aria, sia quando invece grande e di forma diversa, poiché anche allora aveva tali caratteri; poiché l’oggetto non era lo stesso in ambedue i casi. Questo infatti è lasciato alla falsa opinione, pensare che la cosa che causava rappresentazioni fosse la stessa, sia vista da vicino che da lontano» (trad. Russo).
Rimanendo sul piano sensoriale, anche la percezione della torre lontana come piccola e rotonda è una sensazione e una rappresentazione vera e reale, mentre la formulazione del giudizio per cui la torre è effettivamente piccola e rotonda conduce all’errore. La fisiologia epicurea ammette, in questi casi, una legge valida erga omnia (ad eccezione del sole): ad una certa distanza gli oggetti possono apparire più piccoli o di forma diversa da quelli osservati da vicino. Insomma, nonostante la torre sia effettivamente grande e di forma quadrata da vicino, ciò non significa che la sensazione da una certa distanza sia errata o generi l’errore; infatti, a quella determinata distanza, la torre appariva ‘effettivamente’ piccola e circolare. Il medesimo ragionamento vale per il celebre esempio del ramo spezzato nell’acqua; nel momento in cui vediamo il ramo spezzato nell’acqua questa sensazione è effettivamente vera perché reale, mentre l’errore deriva da un giudizio solo successivo e aggiunto alla mera sensazione.
Se da lontano una torre appare di forma circolare (a) e man mano che ci si avvicini essa appare quadrata (b), entrambe le sensazioni (a) e (b) sono vere perché attestano la realtà della torre, tuttavia, il giudizio di realtà formulato in (a), ossia «La torre è di forma circolare» è errato, nonostante la sensazione sia vera in quanto, man mano che ci si avvicini, la torre apparirà effettivamente quadrata; ciò risulta spiegabile solo nel caso si ammetta uno scarto evidente fra realtà esistenziale e formulazione linguistica. È chiaro che entrambi i giudizi formulati tanto in (a) quanto in (b) derivano da percezioni che, secondo Epicuro, sono sempre vere: come spiegare, pertanto, l’assoluta verità delle percezioni con la possibilità di errore nella formulazione di un giudizio?
Le percezioni sono sempre reali e dunque vere perché quanto si percepisce esiste effettivamente nel modo in cui si percepisce; se da lontano si scorge una torre circolare, ciò avviene a causa degli eidola o simulacra, le “pellicole” o “flussi” che, distaccandosi dall’oggetto percepito giungono fino agli organi di senso dove avviene la sensazione. I simulacra sono (almeno in partenza) in tutto e per tutto identici all’oggetto da cui si distaccano ma durante il loro percorso, attraverso il mezzo aria, è possibile che perdano alcuni dei loro strati atomici; ciò contribuisce ad alterarne la grandezza e la forma; ciò non toglie, tuttavia, che chi guarda da lontano veda effettivamente la torre circolare, il che dimostra come la sensazione sia reale e vera (il simulacrum, com’è naturale, perde alcuni strati atomici per la lunga distanza e così arriva agli organi di senso dello spettatore) mentre il giudizio formulato sia falso.
È evidente che tanto il giudizio falso quanto quello vero hanno origine da un materiale percettivo, da una sensazione che testimonia la realtà/verità dell’oggetto percepito; si rende, però, necessario ammettere uno scarto fra percezione e giudizio. Secondo Epicuro tutte le sensazioni sono vere perché testimoniano la realtà, l’esistenza di quanto si percepisce; la sensazione rappresenta, anche da un punto di vista metodologico, l’unica fonte di informazione circa la realtà dell’oggetto percepito. Da ciò non si deduce affatto che la sensazione attesti la verità di un giudizio, sebbene sia a esso strettamente connessa. Insomma, la sensazione attesta che l’oggetto x percepito esiste realmente ma non asserisce affatto che il giudizio - formulato a partire dalla percezione - su x è vero: lo scarto fra piano ontologico/esistenziale e quello linguistico/proposizionale spiega la possibilità dell’errore insita nel giudicare.
E proprio la “virtualità” dell’errore legata alla capacità interpretativa rappresenta la possibilità riconosciuta al soggetto conoscente di non dipendere passivamente dalle percezioni sensoriali; la mera sensazione è alogos, irrazionale e muta, in quanto non giudica il contenuto della percezione ma si limita a registrare la realtà/verità dell’oggetto: per questo motivo la sensazione è sempre vera.
Secondo la Masi, tuttavia, il principio causale di autodeterminazione irriducibile alla costituzione atomica e alle sue interazioni con l’ambiente non riesce ad eludere del tutto le ferree implicazioni del determinismo democriteo: insomma, Epicuro, solo successivamente al XXV libro del Peri physeos – ciò sia detto per sottolineare il carattere evolutivo della filosofia di Epicuro –, si rende conto che l’intrinseca giustificazione della libertà deve risiedere al livello fisico-atomico. Il principio di autodeterminazione della mente legato alla capacità interpretativa, pur essendo irriducibile alla systasis e alla chora, non è totalmente in grado di legittimare l’autodeterminazione della mente. Il clinamen, dottrina assente – secondo la Masi – dal XXV libro, è, invece, un principio di indeterminatezza al livello fisico capace di rendere ragione al livello psicologico della capacità di autodeterminazione della mente. Epicuro, di conseguenza, solo dopo aver tratto le problematiche conseguenze di una filosofia della mente antiriduzionista e antideterminista si accorge delle insite difficoltà teoriche. Il clinamen rappresenta, dunque, un ‘dispositivo’ fisico in grado di eludere il ricorso al riduzionismo, oltre che al determinismo, ammettendo un principio di indeterminatezza al livello atomico, tale da giustificare l’effettività della libertà: quella stessa libertà (sembrerà forse paradossale) che era già stata (almeno) predisposta dalla parte epistemologica del sistema. 



PUBBLICATO IL : 15-09-2007

 

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