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Myra E. Moss, Il filosofo fascista di Mussolini. Giovanni Gentile rivisitato , Armando, 2007
di Carlo Marcaccini

Il libro è tutto nella sua conclusione: “Tutta la brillante speculazione di Gentile, nei diversi rami della filosofia e delle discipline culturali culminava nel Duce. Che follia!”. Una simile asserzione non merita lo spreco di 150 pagine specie se l’intento dichiarato all’inizio del saggio è non solo di analizzare il sistema filosofico di Gentile, ma anche di delineare il contesto storico e culturale nel quale si formò l’attualismo. Il tema è ambizioso: può essere lo studio di una vita intera oppure materia per una compìta e diligente sintesi bibliografica, fatta per chi, totalmente digiuno dell’argomento, intenda avere un quadro d’insieme, generale ma non inesatto. In effetti, questo è l’obbiettivo didattico dell’autrice: “Questo lavoro si propone… come introduzione nuova e originale all’idealismo attuale di Gentile, considerato come un sistema in sé compiuto, per il lettore di lingua inglese” (p. 31). Di per sé sarebbe già un limite: le opere di compilazione, al di là dell’apparenza, non sono agnostiche, e finiscono comunque per sostenere una tesi, anche se di altri, mentre il lettore tende a presumere che un compendio scolastico sia obbiettivo, non orientato. Nel caso della Moss a questo limite intrinseco se ne aggiunge un altro, che è la presunzione dell’originalità: così il saggio vorrebbe essere, nel suo tono fortemente assertivo, sia una presentazione imparziale della storia e della cultura italiana del ventennio fascista sia un lavoro di ricerca, in cui la tesi dovrebbe emergere dalla realtà scrutata da un punto di vista superiore e distaccato. Ecco spiegata la superficialità dell’analisi: l’autrice dichiara che non intende misurarsi con la filosofia di Gentile usando le sue stesse armi, ma si limita a contestarne i presupposti secondo una visione di matrice illuminista, cioè dall’esterno: “Io parto dall’esperienza così come si presenta, e sono perfettamente consapevole che la realtà trascende invariabilmente le nostre percezioni e i nostri concetti. Riconoscere questa consapevolezza è necessario per dare ragione della ripetibilità delle esperienze, della verificabilità dei giudizi, e della comunicazione delle idee. Pertanto, la mia posizione potrebbe essere definita realistica, e non idealistica, come il neo-hegelismo assunto da Gentile” (p. 30). In questo modo l’autrice confonde una concezione del mondo, la sua, con le modalità per condurre una critica ragionata del proprio oggetto di studio: dall’esterno ella crede di valutare in modo obbiettivo un quadro storico e culturale dato per certo, che invece è già il frutto di un giudizio precostituito, lo stesso che ella stessa ammette di condividere e del quale non può che trovare conferma.
La tesi, duplice e non dimostrata, è la seguente: la filosofia di Gentile sarebbe una sorta di reazione romantica alla cultura illuministica anglosassone, giusto quella a cui si vanta di appartenere l’autrice. In questa reazione romantica sarebbero inclusi fascismo e marxismo, entrambe dottrine idealiste. Di conseguenza il pensiero gentiliano, che è antiliberale e antidemocratico, si lega a doppio filo col regime di Mussolini nel quale l’attualismo finisce per risolversi, contribuendo addirittura a rendere radicalmente intollerante, anche in senso razziale, il nazionalismo fascista. Sempre dalla conclusione: “[Gentile] aumentò l’intolleranza dogmatica nell’educazione e nella religione, e nei confronti delle minoranze etniche quali gli ebrei e gli zingari, contraddicendo appieno lo spirito liberale del Novecento” (p. 139).
Il libro fa propria un’impostazione politica, non filosofica, non storica, ma retorica, cui il lettore medio italiano è abituato: considerare la filosofia di Gentile un pensiero totalitario, leggerne tutta quanta la produzione come parte di una teoria dello stato fascista; e poi rintracciarne gli effetti nella realtà fascista. Il che può apparire facile, considerato che Gentile era fascista e che fino alla morte, nonostante sporadici dissensi, manifestò piena fiducia nel fascismo, seguendo il destino del suo duce. Sappiamo che tale critica può essere condita con ulteriori accuse di oscurità di linguaggio, confusione mentale, scarsa originalità, provincialismo. Sono varianti del “mito del 45”, o teoria delle due Italie, già di matrice gobettiana e liberale (è tipica di Bobbio) e poi fatta propria in varie forme dalla storiografia marxista del dopoguerra (Banfi e Geymonat fra i primi auctores), secondo cui la filosofia, e così la cultura, la politica, addirittura la storia, sarebbero rinate dopo la fine del fascismo e il definitivo fallimento del neoidealismo, che, in linea col regime, aveva condannato l’Italia a una dittatura filosofica priva di qualsiasi apertura verso ogni stimolo culturale esterno. Anche questo libro può rientrare nel filone, ma vi sono accenti antropologici che in parte lo distinguono e sono questi che vanno in prima istanza considerati. Mentre infatti il fondamento ideologico delle critiche nostrane è alimentato dal conflitto politico, il saggio della Moss esplicita un pregiudizio etnico. L’idea che l’attualismo e il fascismo esprimano una “rivolta del romanticismo italiano contro il pensiero illuministico inglese ed europeo” (p. 29) rivela che la critica risiede prima di tutto in uno schema di opposizione culturale, in cui il pensiero anglosassone, nordico, pretende di rappresentare la parte celeste, maschile, razionale, mentre al mondo latino, destinato a essere guidato e indirizzato, spetta di giocare il ruolo del femminile irrazionale, dell’istinto uterino, della reazione e della conservazione. L’inclusione tout court della filosofia di Gentile e del fascismo stesso nella categoria di “romantico”, senza avvedersi che una particolare forma di romanticismo fu solo una componente di un fenomeno molto più complesso, testimonia la sopravvivenza nell’accademia anglosassone di un vecchio luogo comune. La dittatura di Mussolini sarebbe una farsa, un totalitarismo retorico, e la rivoluzione fascista si ridurrebbe a una messa in scena, in linea con il gusto per l’ostentazione e il vitalismo esteriore tipici degli italiani: tutto inizia e si risolve nella pagliacciata della marcia su Roma. Benché altri abbiano già dimostrato come sottovalutare l’ideologia del fascismo precluda ogni autentica possibilità di comprenderne le origini, e anche di valutare l’effettivo contributo, di azione e di pensiero, che Gentile diede al regime, questa opinione comune continua a essere indebitamente trasmessa per i canali della ricerca storica, col fine di orientare nella direzione voluta le contrapposizioni culturali, di sedimentare secondo precise gerarchie le differenze antropologiche fra i popoli e così identificare le nazionalità. Non si dimentichi che già Curzio Malaparte, in Tecnica del colpo di stato (1930), si dimostrava sensibile all’argomento, immaginando di spiegare proprio a uno scettico scrittore inglese la serietà del fascismo e i metodi autenticamente rivoluzionari con cui le camice nere presero il potere nel 1922, usando le stesse modalità con cui i bolscevichi avevano conquistato e tenuto lo stato dopo la rivoluzione d’ottobre: non solo il giudizio era esatto, ma era forse l’unico modo in cui i fascisti, ovvero gli italiani, potevano apparire seri agli occhi di un inglese.
Stupisce che Myra Moss in bibliografia abbia inserito gli studi di Ernst Nolte, Zeev Sternhell, Augusto Del Noce, Antimo Negri, Salvatore Natoli, in cui il fascismo, anche nei suoi rapporti con l’attualismo, viene inquadrato in una prospettiva ben più complessa e articolata, e in ogni caso mai come un’esplosione di irrazionalità, non come una manifestazione di follia, né personale (nel caso di Gentile) né collettiva. Stupisce che niente di questi autori trapeli davvero nell’argomentazione della Moss (né a maggior ragione potevano incidere quelli che non cita, come Renzo De Felice). Ma è forse ancor più significativo che non vi siano espliciti e consapevoli riferimenti neppure agli studi di cui mostra di condividere l’impostazione, a parte l’ossessivo richiamo a Benedetto Croce: sua infatti, e non originale dell’autrice, la tesi che il fascismo sia stato una malattia morale di stampo tardoromantico e decadente. Per questo è di grande interesse sintetizzare il ragionamento del saggio, perché esso offre utile testimonianza di una regressione critica che non dipende più dalla mera contrapposizione politica, ma, a un livello più profondo, dalla fede assoluta nella propria superiorità culturale, politica, etnica, identificata in una filosofia di stampo illuminista e genericamente “realista”, così certa della sua missione salvifica da non considerare neanche più necessaria la coerenza logica, tanto meno la ricerca storica o il semplice aggiornamento bibliografico.
Secondo il quadro che fornisce l’autrice, il fascismo, e l’attualismo, che è il suo risvolto filosofico, sarebbero totalitari e intolleranti perché reagiscono contro il principio illuminista (di natura sensista) in base al quale la realtà prescinde dal pensiero e non ne viene affatto determinata: l’intransigenza ideologica che porta alla dittatura viene identificata con la filosofia idealista (marxismo incluso), in quanto essa si rifiuta di accettare la realtà per quello che è, assorbendola in una dimensione spirituale; ne conseguirebbe la negazione del valore dell’individuo e la massificazione della cultura. Viceversa le democrazie liberali, che garantiscono i diritti del singolo senza riconoscere la volontà e la personalità universale dello Stato, non possono che essere animate da uno spirito illuminista, realista, pragmatico, in cui è la mente a doversi adattare alle cose, alle situazioni reali, senza nessuno schema precostituito. Questa doppia equazione basta alla Moss per stabilire un rapporto diretto fra il sistema gentiliano e il totalitarismo fascista. Il ragionamento però nasconde un paradosso perché, riconoscendo un nesso fra teoria filosofica e prassi politica, sembra rivendicare il principio gentiliano dell’identità fra pensiero e azione, nonché assumere la stessa patina di finalismo caratteristica di tutti i filosofi idealisti (vedendo nella democrazia illuminista, quale forma ultima e migliore di regime politico, un traguardo definitivo), e in ultima analisi finisce per fare della filosofia della storia, che non dovrebbe essere l’obbiettivo di chi si professa realista.
Potrebbe così sembrare che l’unico modo di presentare Gentile come un fascista integrale, nella prassi e nella teoria, sia dargli ragione, ovvero condividere i principi della sua filosofia, accettando la sua concezione della storia. Ma l’incongruenza è ancora più radicale e il paradosso si raddoppia, perché il realismo dell’autrice, che non ammette tali principi, deve appunto negare la storia per salvare se stesso: la politica totalitaria che Gentile ha influenzato e sostenuto e che la Moss spiega come l’esito del primato dello spirito sulla realtà non sarebbe reale dal momento che per l’autrice ciò che è davvero reale prescinde dal pensiero e lo trascende. La filosofia di Gentile è derubricata d’autorità a mera propaganda, a indottrinamento di carattere mistico, a sofistico relativismo, atto ad avallare l’inevitabile ricorso alla forza nel momento in cui la dottrina fascista rivela il suo carattere autoritario, intollerante, alieno da ogni forma di verifica di tipo empirico e pratico (ancora il filosofo del manganello!). Commentando l’Essenza del fascismo, un saggio del 1928, la Moss si chiede: “Cos’è il pensiero, se costituisce un’intuizione mistica che non può essere realisticamente ed empiricamente verificata?” (p. 116). La filosofia di Gentile, piegata alla giustificazione della filosofia del fascismo e all’esaltazione del duce come leader responsabile delle sorti della patria, si ridurrebbe alla cinica giustificazione del volere del più forte che, unificando nell’azione pensiero e volontà, assumerebbe anche parvenza di effettiva giustizia. La concezione gentiliana dell’unità organica di teoria e prassi, di verità e fattualità, di volontà e pensiero, di morale e politica viene dunque intesa come un tutt’uno con la retorica fascista: e il risultato di questa invenzione perversa, che avrebbe favorito un relativismo estremo a difesa di qualsiasi atto arbitrario, purché “attuale” (cfr. p. 64), sarebbe lo stato totalitario, in cui l’educazione è parte della propaganda, in cui lo stato intende esprimere la coscienza collettiva dei cittadini, uniti da una volontà comune, in cui dovrebbe prevalere la consapevolezza del dovere e dell’obbedienza alle istituzioni, in cui, secondo l’illusione di Gentile, i fascisti sarebbero “seri, severi e devoti alla loro missione” (p. 118). E di questo fascismo, che nella visione della Moss altro non è che una dittatura retorica, una reazione romantica, un fenomeno di irrazionale conservazione, una parentesi della storia in cui ogni forma di progresso si sarebbe arrestata, Gentile avrebbe consacrato un’immagine fasulla, finalizzata al semplice controllo del potere. Da questo impianto rigidamente concettuale risulterebbe insomma che l’ideologia fascista non sia stata un fenomeno davvero “reale”, quasi non fosse esistita, non fosse vissuta nell’esperienza degli intellettuali e del popolo italiano, non avesse nel tempo creato una cultura sulla base della quale suscitare entusiasmo e consenso. Ecco che l’assunto teorico di partenza, cioè la questione filosofica del rapporto fra pensiero e realtà, negato dall’autrice, diventa questione storica che non può essere aggirata né ristretta al solo giudizio sulla condotta politica di Gentile, pena la meccanica attribuzione di responsabilità assurde al pensiero di un filosofo, oltre all’incomprensione totale di un periodo storico. 
È vero infatti che l’errore iniziale è proprio di natura teoretica: la sottovalutazione dell’immanentismo di Gentile, con cui egli esplicava il concetto d’identità e che peraltro caratterizza la sua filosofia in senso nettamente antiromantico, porta la Moss a equivocare su molte questioni di fondo che pure rimangono aperte e che invece avrebbero richiesto un esame più competente e meno superficiale. Così ad esempio viene considerato come una sorta di peccato originale il fatto che Gentile nei suoi studi giovanili abbia interpretato il materialismo storico di Marx come una filosofia della storia, in cui acquista un ruolo fondamentale la categoria dell’esperienza, cioè della prassi, come atto di volontà del soggetto. Questo avrebbe poi condotto Gentile a negare la realtà come oggetto a sé stante e a dissolverla nella dimensione di assoluto relativismo propria della soggettività. È un concetto che l’autrice ama più volte ripetere. A p. 64, nel paragrafo dedicato al Sommario di pedagogia come scienza filosofica, ella sostiene che per Gentile “tutte le valutazioni, per esempio politiche, economiche, filosofiche, religiose, estetiche, sono egualmente valide, se espresse nel momento presente”. Inutilmente dunque Gentile, in questo caso anche a beneficio dei futuri lettori, aveva rivendicato al suo pensiero la natura immanentista, senza la quale in effetti tutto il suo sistema si riduce a una sorta di relativismo mistico e spiritualista. E in quanto tale inevitabilmente finalizzato alla promozione di un regime dittatoriale: “Tragicamente, dato il suo [di Gentile] concetto romantico di persona elitaria, l’“uomo fascista”in seguito avrebbe sostenuto  che qualunque proposizione, non importa quanto in contrasto con l’evidenza empirica, o insieme di proposizioni - perfino se non concordanti fra loro -, espresse dal Duce, devono essere vere. Questa è la strada dell’assurdo, non della verità” (p. 92). E coerentemente la Moss afferma, poche righe sotto: “Purtroppo, ciò che [Gentile] riuscì a fare fu di fornirci una convalida per la semplice opinione: il solo affermarla la renderebbe vera. Questa è sofisticheria, non filosofia”. Ovvero, intende l’autrice, non è vero pensiero, e quindi è in linea con l’illusione mistica, e fascista, di assorbire la realtà nell’attività mentale mentre al contrario ella si chiede: “la realtà stessa non trascende forse invariabilmente la nostra concettualizzazione di essa?”. Nel suo ordine d’idee la soggettività appartiene alla sfera dell’opinione, è cioè transitoria e fallace, ed è operazione sofistica conferirle uno statuto logico; l’oggettività, ovvero la verità, appartiene invece alle cose, alla realtà che la nostra esperienza e la nostra conoscenza non esauriscono mai. E non considera che, proprio in virtù del principio dell’immanenza, lo stesso Gentile potrebbe essere d’accordo con questa visione, nel momento in cui sostiene che la concettualizzazione, come dato acquisito e fermo nella coscienza, è sempre “invariabilmente” insufficiente, incompleta, e che di continuo l’atto del pensare supera il pensato, senza rinnegarlo, arrivando a nuove sintesi conoscitive, posto che l’esperienza della realtà sia un’attività mentale, e non contemplazione astratta e annullamento mistico nella materia del mondo e nei principi che presumibilmente lo regolano. Che questo aspetto le sia rimasto del tutto oscuro la Moss lo dimostra con un’altra affermazione consimile, che vorrebbe apparire al solito polemica e tranciante ma suona ancora come una conferma dell’autore contestato: “La filosofia idealistica di Gentile… non è coerente con la nostra esperienza della realtà, che invariabilmente supera le concettualizzazioni che ne andiamo elaborando” (p. 77). E infatti subito sotto nega all’immanentismo questa stessa concezione della conoscenza che invece ne è tipica: “La filosofia gentiliana dell’immanenza, che appoggiava la sua tesi circa il carattere nazionale di ogni istruzione, negava tuttavia che la realtà supera inevitabilmente le nostre concettualizzazioni intorno ad essa”. Forse l’autrice avrebbe dovuto chiarire che cosa intende per esperienza e cosa intende per realtà, visto che i due termini, nei passi appena citati, appaiono (gentilianamente) sovrapponibili e intercambiabili.
Dall’ultimo brano sembra emergere anche un’altra semplificazione, ovvero l’accostamento fra nazionalismo e immanentismo, attraverso il quale la Moss crede di dimostrarne la sostanziale rigidità, l’incapacità di evolversi, la chiusura. Valeva la pena soffermarsi sul particolare nazionalismo di Gentile e sul concetto più volte sviluppato di nazione come missione, non come entità etnica e territoriale, e analizzare il problematico rapporto che egli istituisce fra Stato, nazione e società proprio alla luce del supporto filosofico e politico prestato all’ideologia fascista. Tuttavia l’autrice preferisce intendere la riformulazione dell’idea di nazione in senso puramente strumentale, cioè come giustificazione del colonialismo.
Allo stesso modo, quando l’autrice affronta il problema religioso e la questione dell’insegnamento del cattolicesimo nelle scuole, a niente valgono le motivazioni che Gentile aveva addotto nel sostenere il carattere religioso dell’opera educativa, e l’importanza che per lui la religione assumeva nella formazione dello spirito umano, perché la Moss, ritenendo la religione solo una forma di controllo e di oppressione delle coscienze, riconosce quale fine esclusivo della riforma Gentile, e di tutta la sua filosofia, la meccanica imposizione di ordine e disciplina. E in ragione di questo paradossalmente intende recuperarne proprio alcuni aspetti, in linea con la sua impostazione illuminista, autenticamente elitaria, secondo cui, di fronte al fallimento del sistema educativo americano, potrebbe essere opportuno impartire al popolo insegnamenti morali e religiosi (pp. 75-77). Il che, nonostante gli inutili distinguo, equivale a riproporre gli strumenti dello Stato etico, in una modalità certo non più gentiliana e idealista ma in termini pragmatici, ovvero in chiave “realisticamente” fascista. Tali paradossi rivelano che la questione religiosa è davvero un punto delicato del sistema filosofico di Gentile, e a maggior ragione richiederebbe riflessioni approfondite e straordinarie (come quelle di Del Noce, che sull’argomento è esaustivo). Sembra invece tipica degli studiosi americani la tendenza a ridurre l’intrinseca religiosità di tutta la meditazione gentiliana su un piano meramente pratico: anche un entusiasta come S.H. Harris (in un saggio del 1960 al quale l’ignaro lettore inglese può ancor oggi più convenientemente ricorrere) conclude che “in tutta onestà, noi dobbiamo annoverare Gentile tra gli oppositori della scuola laica, sebbene egli non fosse assolutamente un sostenitore del confessionalismo” (La filosofia sociale di Giovanni Gentile, trad. it. Roma, Armando 1973, p. 116).

Il nodo della laicità, che oltre allo studio della documentazione esige una spiccata sensibilità culturale, non è affrontato affatto da Myra Moss che è attirata soprattutto dalle questioni che ruotano attorno allo Stato etico, cioè alla concezione della cultura come veicolo di propaganda e di indottrinamento dei cittadini. Non a caso il saggio si chiude con un capitolo dedicato all’estetica, un argomento in cui l’autrice pare muoversi in modo più disinvolto, specie nel confronto fra le teorie di Croce e quelle di Gentile. Come avviene in tutto il libro, quest’ultimo risulta inevitabilmente perdente, perché, è vero, la visione gentiliana dell’arte è senz’altro più instabile di quella del suo illustre avversario, ma sotto certi aspetti è anche più all’avanguardia (per il rapporto fra l’estetica di Gentile e l’ermeneutica basti rimandare agli studi appassionati di Antimo Negri, e in particolare a L’inquietudine del divenire). Ma lungi dal rintracciare assonanze nella filosofia europea del 900, che qui non è certo il caso di trattare, la Moss torna a rinfacciare a Gentile anche la componente nazionale della sua estetica, che, in quanto elemento transeunte, sarebbe in contraddizione con il postulato dell’universalità e dell’immortalità dell’arte. L’organicità del pensiero gentiliano cadrebbe così in ulteriore contraddizione e ciò confermerebbe ancora una volta che proprio il compromesso con il regime in nome di una politica nazionale impedisce alla filosofia di Gentile di essere vera filosofia: “Benché sia discutibile che l’idealismo attuale di Gentile, considerato alla luce di ciò che abbiamo appreso circa la sua teoria dell’educazione, la sua nuova metafisica, il suo concetto di stato-nazione e la sua estetica, possa dirsi una filosofia nel senso pieno del termine, il fascismo non fu né una filosofia né una dottrina. Al massimo il “fascismo” rappresentò una raccolta di idee, a volta contraddittorie, molte delle quali  generate dalla rivolta romantica contro il pensiero illuminista e da opportunismo sociale, politico ed economico” (p. 137). Apprezziamo la maggiore cautela critica, ma poteva almeno risparmiarsi le virgolette…


PUBBLICATO IL : 15-09-2007

 

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