Giornale di Filosofia.net
www.FilosofiaItaliana.it


Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto , Feltrinelli, 2006
di Alessandro Blasimme

Di molti saggi si può pensare che forniscano un contributo importante per l’avanzamento del pensiero, in una determinata area della riflessione sulle cose degli esseri umani. Di alcuni si deve invece dire che la loro pubblicazione può segnare la strada per la discussione futura di certi argomenti. E questo è il caso di «La vita e le regole. Tra diritto e non diritto», di Stefano Rodotà, uscito da Feltrinelli nel 2006.
Il libro si presenta con una forma inconsueta. Si tratta infatti di un lavoro a metà strada tra bioetica, filosofia politica e scienze giuridiche, nel quale Rodotà  ha confermato di saper utilizzare le sue numerose competenze per riflettere su alcune delle più controverse questioni che occupano, e in parte affliggono, il dibattito pubblico in Italia e nel mondo. La forma del libro, si diceva, è inconsueta anche perché l’autore, anziché  ricorrere  ad una sistematica trattazione delle diverse aree della bioetica, propone in ciascun capitolo una discussione analitica attorno ad un concetto/parola-chiave: il corpo, la solitudine, il dono, il caso, il gene, il clone, il dolore, la cura e la fine. Di ognuno di tali concetti si mostra la centralità per questioni trattate di solito secondo distinte ripartizioni analitiche. Aborto, procreazione medicalmente assistita, diagnosi pre-impianto, diagnosi pre-natale, selezione genetica dei caratteri del nascituro, cambiamento chirurgico dell’identità sessuale,  gestione delle informazioni relative al proprio corpo e alla propria biografia, consenso informato, direttive anticipate, cure palliative,  clonazione, eutanasia: il catalogo delle questioni toccate da Rodotà comprende praticamente tutte le  voci di un aggiornato manuale di bioetica. Non vorrei tuttavia soffermarmi sulla posizione dell’autore su ciascuna di tali questioni, in quanto Rodotà, il quale si esprime in senso liberale su questi temi, non parla solo o principalmente di bioetica, ma piuttosto della natura della regolazione giuridica delle scelte in ambito bioetico - tema, questo, non  meno controverso e difficile delle questioni bioetiche stricto sensu.
Questo approccio è innanzi tutto rivitalizzante per il dibattito su alcune decisive questioni di bioetica, e permette inoltre di illuminarne certe pieghe che la discussione specializzata  e la retorica pubblica possono a volte impedire di prendere in considerazione. Il volume si rivela  non soltanto un oggetto di interesse accademico, ma anche un utile mezzo per orientare l’opinione anche del lettore colto ma non specialista.
Il libro infine, a conferma del suo carattere originale, si chiude con un’appassionata appendice che ricostruisce brevemente la storia del processo a Pier Paolo Pasolini,  vicenda, questa, in cui si può notare come i meccanismi della democrazia e dello stato di diritto possano a volte rinforzare, anziché  mitigare, effetti e diffusione del pregiudizio morale verso quelli che la società designa arbitrariamente come non normali. Almeno a partire dal processo a Socrate questo tema è diventato ormai classico per la riflessione filosofica, ma l’autore ci sembra anche animato dal tentativo di mostrare le radici di un certo irriducibile moralismo, tendenza che sebbene in parte mitigata, non ha affatto esaurito la sua spinta e segnala anzi una continuità con il momento attuale del dibattito pubblico italiano, intriso spesso di conservatorismo e ipocrisia.
Di seguito ci sarebbe impossibile, per motivi di spazio, dare conto in modo adeguato di tutti i temi toccati in questo ricco volume. Mi concentrerò quindi in particolare sulla questione che rappresenta il filo conduttore delle riflessioni svolte dall’autore, ossia quella della regolazione giuridica dell’autonomia decisionale nel dominio delle scelte che riguardano il corpo, le sue parti e le sue relazioni con la libera costruzione dell’identità personale di ciascuno.
La tesi principale del libro (esposta con chiarezza nel lungo capitolo introduttivo) è una tesi normativa e riguarda la natura  del diritto. Secondo Rodotà la legge deve intraprendere un percorso di cambiamento:  per affrontare le sfide della regolazione dell’intimità il diritto deve farsi «mite». Il diritto, in altre parole, deve innanzi tutto rendere possibili quelle libere scelte individuali che contribuiscono in modo insostituibile alla autonoma costruzione della biografia di ciascuno, sia che tali scelte siano conformi a quelle della maggioranza delle persone, sia che invece segnalino un percorso diverso, se non addirittura inedito. Nel mettersi al servizio dei molteplici progetti esistenziali di tutti i cittadini il diritto aspira ad un massimo praticabile di diversificazione e realizza dunque un modello sociale pluralistico. Nel perseguire questo obiettivo il diritto non solo apre spazi di libertà, ma li rende concretamente praticabili solo se accompagna gli individui nella realizzazione del proprio percorso biografico, rimuovendo gli ostacoli sociali, economici e normativi che possono intralciarli nella libera costruzione della loro personalità. Secondo Rodotà, inoltre, la regola giuridica dovrebbe funzionare come una sorta di filtro che quotidianamente sottrae occasioni di regolazione a istanze normative che invece danno luogo a sistemi assiologici del tutto arbitrari e ingiustamente escludenti. E in questo senso il diritto rivolge tale funzione di vigilanza sociale, innanzi tutto verso sé stesso, in quanto perfino l’ideale dei diritti fondamentali può perdere di vista le concrete esigenze delle persone.
In passato, ricorda Rodotà, la sfera delle decisioni «personalissime», intorno alle quali si accende l’attuale dibattito bioetico, era consegnata alla regolazione da parte di istanze autoritarie come la religione, l’etica, il costume, la natura, motivo per cui le trasgressioni erano indicate come peccati ed atti contro-natura, ed erano punite, nel migliore dei casi, con l’esclusione sociale - sanzione niente affatto leggera se si pensa, tra le altre cose, all’arbitrarietà e all’inappellabilità della sentenza che la comminava. La sanzione giuridica era infatti relegata ad altre fattispecie, e tutto sommato doveva apparire paradossalmente meno incisiva ed efficace rispetto all’emarginazione sociale che spettava  agli immorali e alla dannazione  che spettava ai peccatori. In questo scenario il progressivo affermarsi del diritto, a partire dall’Illuminismo, ha svolto senz’altro una funzione di civilizzazione, in quanto ha avuto il merito di liberare gli individui dal giogo di istanze normative astratte e irrazionali. Tuttavia, spiega Rodotà, ad aver guadagnato reale autonomia è stato infine il diritto stesso, piuttosto che gli individui concreti, i quali hanno finito per ritrovarsi comunque esposti ad un’autorità ad essi superiore, anche in quelle aree d’azione che più hanno a che fare con la libera realizzazione del rapporto di ciascuno con il proprio sé. Il venir meno di un riferimento fondativo di tipo religioso, insomma, non basta da solo a realizzare la sfera dell’autonomia in merito alle scelte intime e personalissime. Il diritto infatti pretenderebbe di regolare anche questa sfera, ed è anzi in questa direzione che, in maniera sempre più insistente,  gli si richiede di andare.
«Sembra quasi che l’umanità, vissuta fino a ieri al riparo delle leggi di natura, scopra luoghi dove l’irrompere improvviso della libertà si rivela insopportabile. […] la libertà di scegliere, dove prima era solo caso o destino, spaventa […]. Se cadono le leggi della natura, l’orrore del vuoto che esse lasciano dev’essere colmato dalle leggi degli uomini» (pag. 15).
In questo passaggio Rodotà sostiene che, al venir meno di un ordine tradizionale, religiosamente garantito, ha fatto seguito l’installarsi di un altro, e potenzialmente non meno oppressivo, ordine normativo, quello appunto di un diritto che punta a regolare finanche la sfera dell’intimità, delle scelte procreative, della salute. Ciò che, secondo la ricostruzione di Rodotà, non è riuscito a trovare la luce alla fine di questa vicenda, è proprio il dominio della libertà che il diritto si prefiggeva di salvaguardare. Specie negli ambiti delle scelte personali ed intime, le leggi dell’uomo possono dunque essere non meno arbitrarie ed ingiustamente escludenti di quelle che pretendono di ispirarsi alla natura o alla volontà divina: la pretesa di validità della regola giuridica mostra così «tinte autoritarie», e ci spinge a dover ri-pensare e ri-collocare il limite del diritto.
Il punto di partenza della riflessione di Rodotà è dunque la sempre crescente richiesta di regolazione che al diritto perviene da più parti, e che riguarda ambiti tradizionalmente esclusi dalla sua interferenza.
I progressi della scienza, dalla biologia alla genetica, dalla medicina alle neuroscienze sono oggi accolti con speranza ma anche, spesso, con preoccupazione. In questo contesto instabile e poco pacificato, al diritto si domanda di utilizzare la sua forza regolatrice per assoggettare i tipi nuovi di scelte che si rendono oggi disponibili.
Quando il diritto viene chiamato ad intervenire per regolare tali materie, ciò che esso si trova davanti, secondo Rodotà, non è più l’astratta persona giuridica del diritto formale classico della tradizione liberale, quanto piuttosto le esigenze, le scelte,  i bisogni e l’immaginario di «persone in carne ed ossa». Con espressione chiara, l’autore ci dice che, in questi ambiti, al diritto si contrappone la «nuda vita», o più nettamente, il «non diritto». Da una parte insomma c’è il diritto, il quale finora non ha conosciuto altro linguaggio che quello universalistico, e per questo necessariamente formale/astratto, dei principi, delle regole, dei divieti e delle sanzioni,  mentre dall’altra ci sarebbe la vita, la quale appare tanto più fragile e bisognosa di protezione quanto più si fa irreversibile la sua acquisizione entro il campo di ciò su cui si esercitano le scelte responsabili degli esseri umani.
In tale contesto appare ormai del tutto naturale procedere dall’individuazione di principi morali alla loro sanzione giuridica. Tuttavia questo percorso, se da un lato rispecchia le ambizioni progressive del diritto, dall’altro, specie nell’ambito delle scelte legate al corpo, usurpa il ruolo della coscienza individuale e minaccia il pluralismo morale della tradizione liberale. Questo rischio è inoltre reso più acuto in considerazione del fatto che il linguaggio del diritto non è, secondo Rodotà, sufficientemente raffinato per pretendere di regolare la ricchezza e la complessità del rapporto che gli individui, attraverso le proprie scelte «personalissime», intrattengono con sé stessi e con gli altri.
Fin dalle primissime pagine la potenziale pervasività  del diritto, che viene vista come l’altra faccia dell’autonomia sistemica del diritto stesso, appare come un rischio soprattutto nei casi d’eccezione, quelli che Giovanni Berlinguer, contrapponendoli ai casi di bioetica quotidiana, ha assegnato alla bioetica di frontiera. Non sfugge infatti a Rodotà che proprio là dove pretende di porre un argine all’arbitrio della violenza privata, il diritto rischia di mostrare la sua «intima attitudine costrittiva», la quale, quando assume ad esempio la forma del paternalismo giuridico, realizza in maniera particolarmente odiosa il dominio della mera autorità. Alla regola pura e semplice manca infatti l’autonoma capacità di  garantire che il suo intervento sulla vita sia legittimo, e non invece oppressivo e mortificante. Si fa subito chiaro allora l’intreccio strettissimo tra diritto e politica, tra regola e capacità di progettare il futuro dell’umanità, tra la particolarità dei bisogni che chiedono di essere inclusi, riconosciuti e tutelati e la generalità degli interessi, la quale d’altro canto vincola la politica e con essa le leggi. A tal proposito, Rodotà esorta il lettore a chiedersi se sia davvero auspicabile una completa giuridificazione della società, o se invece, per questa strada, non ci condanniamo a varcare una soglia e a dimenticare, una volta per tutte, che tra diritto e non diritto c’è un confine che non conviene a nessuno cancellare. Quanto siano ambiziose le domande sollevate da Rodotà appare evidente non appena si ponga attenzione al fatto che, nella sua ricostruzione, l’autore ritrae il diritto in una delicata funzione di mediazione tra la rilevanza morale dell’ambito dell’intimità e della privatezza da un lato, e la logica della circolazione del potere nelle istituzioni democratiche dall’altro.
Rodotà propone la salvaguardia di certi ambiti di scelta dall’interferenza degli altri e della società, ed in questo senso la sua posizione è tipicamente liberale. Tuttavia egli non dice che questa auto-sospensione del diritto sia tutto ciò che possiamo legittimamente sperare. All’interno degli spazi di libertà che il diritto, ritirandosi, rende possibili, la regola deve essere secondo Rodotà nuovamente chiamata a presidiare l’autonomia degli individui nei casi concreti in cui essi cercano di esercitarla, e per fare questo bisogna intraprendere uno sforzo creativo volto alla ricerca di forme «leggere» di regolazione. Quando parla di «istituzionalizzazione a bassa intensità», Rodotà ha in mente un diritto capace ad esempio di accompagnare le persone anche nei momenti di transizione da una condizione familiare ad un’altra, o di riconoscere che alcuni tipi di scelte (come quelle ad esempio legate all’identità sessuale) non avvengono in modo istantaneo, ma danno invece luogo a lunghi percorsi durante i quali sono possibili ripensamenti e indecisioni. Sarebbe allora frustrante per l’autonomia delle persone costringerle entro un numero limitato di opzioni civilistiche, o pretendere che il cambiamento di sesso possa essere accordato solo dopo il cambiamento chirurgico e farmacologico dei caratteri esterni (e non prevedere invece, come propone Rodotà, che la scelta circa l’indicazione del sesso sui documenti sia possibile anche da prima).
Come si vede da questi due esempi, una scelta personale che abbia il peso per poter determinare l’identità personale, la biografia di un individuo e la sua immagine di sé, non corrisponde  ad una deliberazione privata cui segue l’immediata adesione ad un’opzione civilistica.
Scelte come quelle che conducono alla formazione di una famiglia, alla nascita di un bambino, al cambiamento dell’identità sessuale, all’accettazione o al rifiuto di una terapia, non si realizzano semplicemente nell’istante in cui entrano a far parte del sistema dei fini di un individuo, e dunque il diritto, se vuole favorire l’autonomia delle persone, non può limitarsi a proporre alternative nette in merito allo stato civile, all’impianto degli embrioni, all’indicazione del sesso sui documenti, al consenso informato. Piuttosto in tali e analoghi ambiti è richiesta la massima flessibilità da parte della regola stessa, e la massima disponibilità ad assecondare innanzi tutto i tempi e i ritmi che scandiscono i processi di scelta. 
Inoltre, il percorso deliberativo che precede una scelta non viene necessariamente intrapreso in solitudine, ma anzi spesso gli esseri umani si consultano con amici, parenti, partner, ma anche professionisti come medici, infermieri e avvocati, anche per le decisioni che li riguardano in prima persona. La scelta non comporta dunque un’assunzione di responsabilità esclusiva da parte del diretto interessato, il quale deve invece poter legittimamente manifestare il suo interesse rispetto all’inclusione di altri soggetti. Di questi ultimi il diritto dovrebbe quindi riconoscere il ruolo e le responsabilità.
In più, in merito a certi tipi di scelta, ci si rappresenta di solito anche l’opinione delle persone meno vicine, degli estranei, della società nel suo complesso, ed è questo spesso un aspetto particolarmente controverso. Questa considerazione ci permette di cogliere ancora meglio l’inadeguatezza di una regola che ignori lo sfondo ampio di accettazione o emarginazione che le scelte individuali comportano. Se anche si limitasse a rendere praticabili aree senza diritto in cui esercitare libere opzioni, una regola o una legge non avrebbe con questo esaurito la sua funzione. Essa dovrebbe infatti prevedere anche la possibilità di intervenire su quello sfondo sanzionando i comportamenti discriminatori e promuovendo una cultura diffusa dell’accettazione della diversità. Se questo non avviene allora le scelte delle persone continueranno ad essere assoggettate ad arbitrari parametri di normalità, e l’autonomia individuale sarà gravemente compromessa.
Potrebbe sembrare che Rodotà si occupi di questioni di contorno rispetto all’alternativa generale tra consentire, vietare e obbligare. In realtà è proprio della regolazione fine delle leggi e dalla loro capacità di adattamento alle esigenze specifiche degli esseri umani che l’autore si attende i risultati più importanti. Se lo scopo è infatti quello di rendere possibili libere scelte personali, allora, chiaramente, il venir meno di tali modalità di regolazione a bassa istituzionalizzazione prospetterebbe ingiustificati danni fisici e psicologici ai diretti interessati, e dunque l’impossibilità di vivere effettivamente in vista della libera costruzione della propria biografia e della propria personalità.
Il limite oltre il quale il diritto e la politica non possono spingersi senza danneggiare la nuda vita, è quello tradizionalmente stabilito dai cosiddetti diritti fondamentali. Essi tuttavia incarnano principi generali che non necessariamente riescono a cogliere tutte le specifiche e concrete esigenze che meriterebbero protezione e tutela.
L’idea che i diritti fondamentali segnalino alla legificazione un limite oltre il quale al diritto non può essere concesso di spingersi viene comunque abbracciata anche da Rodotà. Tuttavia egli si spinge più avanti, nel tentativo di superare lo schema, divenuto ormai tradizionale, del costituzionalismo liberale e di dare conto di una «idea unitaria dei diritti».
I diritti infatti dovrebbero essere uno strumento capace di consentire un processo dinamico di continua rielaborazione delle modalità del vivere comune. Dunque l’insieme dei diritti fondamentali non può rappresentare semplicemente un sistema di valori considerati indisponibili, ma deve anche essere visto come il mezzo per favorire la re-interpretazione di questi stessi valori, in vista dei molteplici bisogni che sorgono oggi negli ambiti già ricordati delle scelte personali legate al corpo, alla riproduzione, alla cura della malattia. Il tema dei diritti si intreccia qui con quello della democrazia come quadro politico di riferimento per la loro più coerente messa in opera.
Non sfugge a Rodotà che il sistema dei diritti può facilmente entrare in conflitto con altre forze sociali a cui si vorrebbe fare ricorso per regolare le scelte in questi stessi ambiti. L’indisponibilità dei diritti fondamentali ricalca allora innanzi tutto il fatto sociologico del loro essere in competizione con le pretese regolative del mercato. Essi sono strutturati in modo tale da impedire che sulle scelte riguardanti il corpo e l’intimità, sia la logica del contratto a suggerire le modalità di regolazione. Per questo motivo la concezione proprietaria ed individualistica dei diritti ha ormai lasciato il posto all’elaborazione di una loro funzione sociale, che supera la «logica oppositiva» legata alla rivendicazione dei diritti contro l’interferenza dello Stato, per favorire una sempre maggiore capacità di inclusione politica da parte del diritto stesso. In questo modo diviene possibile smascherare quelle situazioni di disparità di potere e di trattamento che si possono nascondere dietro l’apparente neutralità del rapporto di scambio. Tale disparità di potere sociale ed economico ha naturalmente un corrispettivo politico, così che le questioni pubbliche moralmente rilevanti, se lasciate alla logica della libertà contrattuale, finiscono per rispecchiare gli interessi dei detentori di tale potere. (Su questi temi è illuminante e decisivo il contributo della riflessione femminile, cui Rodotà fa esplicito riferimento).
Il fine del diritto, allora, non può essere più soltanto quello (liberale) di condizionare dall’esterno le scelte pubbliche in modo che esse non interferiscano con l’autonomia decisionale degli individui, in quanto occorre fare di tali scelte un’occasione per promuovere l’ideale (democratico) di eguaglianza politica attraverso l’attivo coinvolgimento delle persone nei processi decisionali pubblici.
I diritti fondamentali vengono allora assorbiti dalla nozione di cittadinanza e ne rappresentano la principale condizione di sensatezza. Essi proteggono quelli che Rodotà, con un linguaggio che ricorda Amartya Sen, descrive come «beni fondamentali della vita», e che la tradizione liberale ha preteso di considerare addirittura coincidenti con la vita stessa di una persona e con la «dignità della sua esistenza». Tali beni però, sono anche «una condizione della cittadinanza e una precondizione della stessa democrazia» (pag. 41), ed è anzi proprio in virtù di questa caratterizzazione che i diritti fondamentali possono ancora oggi ambire ad un ruolo sociale di primo piano.
Ricapitolando, secondo Rodotà i diritti dapprima contribuiscono a definire un catalogo di beni inviolabili della persona, per poi configurarsi come una condizione di possibilità per la realizzazione dell’eguaglianza politica, ovvero per l’esercizio effettivo della libertà democratica.
Rodotà ci sembra mosso qui da una duplice esigenza. In primo luogo, senza dubbio, egli ricerca nel diritto uno strumento consolidato che, contrastando sia i meccanismi escludenti tipici della società mercantile, sia la progressiva erosione delle funzioni dello Stato ad essi collegata, ristabilisca e sia in grado di garantire condizioni di giustizia (giustizia intesa come rimozione e compensazione delle differenze di potere sociale e dunque anche come eguaglianza nelle opportunità di accesso alle decisioni pubbliche). Inoltre, e veniamo così alla seconda esigenza, l’autore mostra in maniera originale che il catalogo dei diritti fondamentali anziché essere concepito come una lista definita e chiusa,  debba piuttosto presentarsi, proprio attraverso «lo sviluppo della sua idea originaria», come un progetto aperto a suscettibile di integrazione e ampliamento.
«Solo tenendo ferma questa idea unitaria dei diritti, speculare all’unità della persona, è possibile evitare che, negata in astratto, l’attrazione della vita nel mondo delle merci diventi pratica strisciante e distruttiva; e che, dietro la facciata apparentemente intoccata dei diritti, riprendano a funzionare, implacabili, quei meccanismi di esclusione personale e sociale che proprio la promessa dei diritti aveva voluto mettere al bando». (pag. 41, corsivo mio)
Tale idea unitaria dei diritti è quella che li vede, insieme, come diritti civili, politici e sociali, ossia tanto come attributi costitutivi della persona quanto come condizioni di inclusione politica. Tale configurazione da un lato punta ad instaurare più giuste relazioni sociali, e dall’altro esorta a fare della democrazia l’ambito della progettazione e dell’implementazione di altri, inediti diritti fondamentali.
Dalla lettura de «La vita e le regole», emerge la preoccupazione dell’autore per la crescente richiesta, rivolta alla democrazia, affinché riduca le differenze morali attraverso leggi. In questo modo si travisa in effetti lo scopo della democrazia, che non è quello di risolvere il disaccordo morale attraverso regole valide per tutti, quanto piuttosto di rendere possibile il pluralismo, ossia di trovare strumenti regolativi sempre più sofisticati per fare in modo che la diversificazione degli stili e delle scelte di vita si renda quotidianamente possibile in modi pacifici e sempre nuovi. Ciò che questo modello contrasta è la tirannia culturale dell’idea di normalità in relazione alle scelte personali, e il concreto potenziale oppressivo di cui questa è capace.
Le riflessioni che animano il volume fin qui discusso rappresentano allora non soltanto un appello ad una maggiore capacità di inclusione civile da parte della democrazia, ma anche e soprattutto un programma teorico di riforma del paradigma giuridico dei diritti individuali. Oggi siamo di fronte a questa possibilità di revisione di uno strumento, il diritto, che è stato al centro della riflessione filosofica sulla convivenza umana ma che deve essere aggiornato, e il libro di Rodotà rappresenta uno sforzo originale e proficuo in questa direzione.



PUBBLICATO IL : 06-07-2007

 

Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli. Unica condizione: mettere in evidenza che il testo riprodotto è tratto da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it

Condizioni per riprodurre i materiali --> Tutti i materiali, i dati e le informazioni pubblicati all'interno di questo sito web sono "no copyright", nel senso che possono essere riprodotti, modificati, distribuiti, trasmessi, ripubblicati o in altro modo utilizzati, in tutto o in parte, senza il preventivo consenso di Giornaledifilosofia.net, a condizione che tali utilizzazioni avvengano per finalità di uso personale, studio, ricerca o comunque non commerciali e che sia citata la fonte attraverso la seguente dicitura, impressa in caratteri ben visibili: "www.filosofiaitaliana.it", "FilosofiaItaliana.it" è infatti una pubblicazione elettronica del "Giornaledifilosofia.net". Ove i materiali, dati o informazioni siano utilizzati in forma digitale, la citazione della fonte dovrà essere effettuata in modo da consentire un collegamento ipertestuale (link) alla home page www.filosofiaitalianai.it o alla pagina dalla quale i materiali, dati o informazioni sono tratti. In ogni caso, dell'avvenuta riproduzione, in forma analogica o digitale, dei materiali tratti da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it dovrà essere data tempestiva comunicazione al seguente in dirizzo (redazione@giornaledifilosofia.net), allegando, laddove possibile, copia elettronica dell'articolo in cui i materiali sono stati riprodotti.